Il Vate e il Duce: un rapporto complesso e contrastato che si sviluppa a partire dalla vicenda fiumana


Immagini di Igor Belansky

Quello tra la Gabriele D’Annunzio e Benito Mussolini è stato un rapporto contrastato e complesso, ma profondo e spesso vitale, articolato tra giornalismo e cultura e tra giornalismo e potere. Leggendo qua e là, se ne raccapezza il senso quasi meglio che a cercarne pedissequamente sulle fonti gli sviluppi che si sono susseguiti negli anni.

La vicenda fiumana.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale, durante la conferenza di pace a Versailles, la città di Fiume, con la popolazione a maggioranza italiana, viene assegnata alla Jugoslavia. Entra in scena a questo punto, uno dei pochi scrittori italiani del Novecento ad avere fama europea, l’ultimo dei nostri grandi poeti capace di imporsi come modello imprescindibile. Simbolo del Decadentismo, Vate della Terza Italia, è Gabriele D’Annunzio, nato a Pescara nel 1863. Nella sua poliedricità, anche drammaturgo, politico, giornalista e celebre figura militare e patriottica della Prima guerra mondiale. Il 12 settembre del 1919, con un corpo di volontari, egli occupa la città senza colpo ferire. È così che, quasi in sordina, ha inizio uno dei fatti più originali del XX secolo: l’impresa “fiumana”. L’azione per il poeta rappresenta il perfetto coronamento della sua edonistica esistenza. Per la città prefigura, invece, il traumatico passaggio dalle secolari consuetudini di melting-pot di etnie, culture, e tradizioni, alla frenesia di laboratorio politico-sociale. Osserviamo in rapida successione gli avvenimenti. Il governo italiano è tenuto a fare rispettare il trattato di pace di Versailles e invita D’Annunzio e i suoi adepti ad abbandonare Fiume, cosa che D’Annunzio si guarda bene dal fare. Nel novembre del 1920, con il Trattato di Rapallo, Fiume diventa “Stato libero”. D’Annunzio non riconosce il trattato. L’Italia pone il blocco alla città e D’Annunzio dichiara guerra al Regno d’Italia. L’esercito italiano attacca i volontari di D’Annunzio e occupa Fiume nel dicembre del 1920. Solo nel 1924, con il Trattato di Roma tra Jugoslavia e l’Italia, la città di Fiume verrà annessa all’Italia. Per sommi capi, questa la storia di una vicenda durata quasi un anno e mezzo. Vicenda che ha in sé elementi di incredibile novità, incarnando sicuramente uno dei primi esempi della spettacolarizzazione della politica che ha caratterizzato i totalitarismi europei del Novecento. Su diversi piani, nel corso di quasi un secolo, intorno ad essa si è sviluppato un dibattito piuttosto controverso, portando numerosi studiosi e cultori ad occuparsene.

L’arrogazione dei primati.

Oltre agli aspetti politici, amministrativi e costituzionali, assai determinanti per diversi sviluppi futuri, la reggenza del Vate ha lasciato un’eredità sociale potenzialmente infinita da disputarsi. Infatti, da un lato, ancora oggi una certa destra di ascendenza neofascista rivendica l’avventura fiumana come parte della propria tradizione e, quindi, del processo di affermazione della propria ideologia, evidenziando un forte nesso di continuità fra legionari e camicie nere. Tanto che, al dissolvimento dell’esperienza fiumana, in quest’ultime trasmigrò la «quasi totalità» di coloro che avevano inizialmente seguito d’Annunzio, con il distinguo di alcuni legionari di rilievo, come Alceste De Ambris, che si schierarono sul versante antifascista. Sul fronte opposto, vi sono però storici concordi nel ritenere che, nei fatti di Fiume, sia al contrario ravvisabile una violenta anticipazione delle manifestazioni sessantottine. Un’interpretazione per la quale le analogie, fatte salve alcune specificità dovute alla mentalità del tempo e all’ambiente, risiederebbero nell’aspetto trasgressivo, libertario, movimentista e carnevalesco dell’impresa. Apparirebbe, dunque, una forzatura il collegamento della stessa al fascismo, che pure da d’Annunzio mutuò riti e slogan. Le ragioni adducibili sono molteplici.

Lo spirito del “fiumanesimo” dannunziano.

Il punto di partenza è dunque lo spirito del “fiumanesimo” dannunziano che anima gli esordi della vicenda. Sebbene ammantato da toni più pacati, ancora permea in profondità la struttura governativa che viene successivamente instaurata a Fiume. In tal senso, è innegabile che la goliardia e la gioia di vivere più sfrenata, proprie dell’esperienza del poeta abruzzese, sopravvivano nella loro forma più estrema per quasi un anno. Una sorta di «festa della rivoluzione» (la definizione è della storica Claudia Salaris), a partire dallo stato di delirio onirico nel quale la città del Quarnaro era sprofondata subito dopo la marcia di Ronchi. Certo, la dimensione cosmopolita propria di un centro portuale dove diverse etnie convivevano da più di dieci secoli e l’azione di determinate personalità, favoriscono l’incontenibile ondata di frenesia che si riversò sulla “Città di Vita”. Una stagione che, quindi, per certi versi prelude al Sessantotto, essendo lontanissima dal rigido culto della gerarchia e della disciplina tipico del regime mussoliniano, come anche dall’approccio compromissorio di Mussolini verso il potere costituito. Tuttavia, l’elemento antiautoritario presente nel “fiumanesimo” non è di per sé incompatibile con un esito totalitario. Basti pensare a determinati aspetti goliardici del successivo squadrismo; ad esempio, l’uso di far ingurgitare ai dissenzienti il purgante olio di ricino. In comune, vi è la sacralizzazione della propria causa: un radicalismo che squalifica ogni dissenso.

Igor Belansky: “D’Annunzio a Fiume”

Il ruolo del futuro Duce nell’impresa di Fiume e le doglianze del Sommo Poeta.

Di fatto, all’inizio Benito Mussolini appoggia l’impresa soprattutto a parole. Per di più, non muove un dito alla fine, cioè quando il governo di Giovanni Giolitti fa con la forza sgombrare D’Annunzio dalla città. Per lettera, infatti, il poeta non si esime dal lamentare l’immobilità di un Mussolini a cui piace gestire solo il potere, invece di mandare sostegno e aiuti economici ai suoi soldati impegnati in battaglia. Sempre per via epistolare, il Vate evidenzia inoltre la sua poca considerazione del nei confronti del Duce, tanto da arrivare quasi ad intimorire quest’ultimo. D’annunzio, scrivendo, può quindi fare da catalizzatore per i delusi a causa della mancanza di un’azione più incisiva da parte del Fascismo: oltre alle carenze dello stato e ai suoi errori, uno dei più gravi motivi della non ottenuta annessione della Dalmazia. Evidenti tracce di “passaggi burrascosi”, da cui emerge l’ostinazione di D’annunzio e una debolezza politica nel gestire di Mussolini.

D’Annunzio e Mussolini: due carissimi nemici.

Il poeta immaginifico, Gabriele D’Annunzio, e il politico realista, Benito Mussolini: due figure molto differenti tra di loro. Convergono però su alcuni punti iniziali: l’interventismo in occasione del Primo conflitto mondiale, quindi talune posizioni del Dopoguerra inerenti la “vittoria mutilata” e il futuro da assicurare la nuova Italia, infine un forte dinamismo politico. Personaggi chiave dell’Italia di quegli anni e dei decenni a venire, per via del forte ego di entrambi, di vistose differenze di formazione politica e tradizione culturale, alternano momenti collaborazione ad altri di forte disappunto. Dunque, un rapporto complesso da ricostruire, al di là dei luoghi comuni, delle semplificazioni e delle banalizzazioni.

D’Annunzio fascista?

Ma quando mai… Per decenni a D’Annunzio è stata affibbiata l’etichetta di “fascista”, ma si è trattato di una forzatura ideologica che ha contribuito a fornire una visione distorta della realtà e dura a morire. Una credenza forse creata ad arte dopo la Seconda Guerra Mondiale, al fine di alienare la figura del primo intellettuale d’Italia (letto anche da Togliatti), fedeli all’idea che soltanto la sinistra potesse esprimere uomini di cultura. In ossequio, al concetto gramsciano di egemonia, si tratta della solita ignoranza rossa: non sanno, ma ti impongono la loro versione. Vi sono elementi per sostenere che il Vate non era un fautore del fascismo, né un sostenitore idilliaco di Mussolini; al contrario, il Vate si lamentava del Duce ed entrambi non si piacevano tra di loro. Il Vate era amorale ed era ideologico di sé stesso non certo del Fascismo. D’Annunzio fu D’Annunzio. Basta leggere per capirlo.

Il diverso il rapporto con il mondo militare e la guerra.

Tra i due è in più aspetti diverso il rapporto con il mondo militare e la guerra.

D’annunzio è un poeta soldato. Esalta la campagna di Libia intrapresa nel 1913 e il primo bombardamento della storia italiana; decanta versi sull’aeroplano, coniando egli stesso il termine di velivolo. Più poeta che soldato, in quanto tale, il militarismo non gli appartiene. Tuttavia, si ritrova una sua eclatante presenza in alcune vicende italiane della Prima guerra mondiale. Nel 1915, invitato a Quarto per inaugurare il monumento ai Mille, rientra in Italia dalla Francia e avvia una campagna interventista. Dopo la dichiarazione di guerra, si arruola come volontario. Si distingue quindi in una serie di imprese militari, come la Beffa di Buccari e il volo su Vienna. Gravemente ferito in un incidente in aereo, perde un occhio. Dopo la fine della guerra, si fa portavoce dell’indignazione dei reduci per la “vittoria mutilata”. Guida la “marcia di Ronchi” e, come abbiamo visto, l’occupazione di Fiume, che tiene in qualità di Reggente, dal settembre 1919 al dicembre 1920, quando viene costretto militarmente a rinunciare alla sua impresa.

Dotato fiuto tattico assai duttile e di opportunismo, Mussolini invece è più un politico che un soldato. Gli importa più della sovranità acquisita che di condurre una buona campagna militare. Nel 1912, a Milano assume la carica di direttore dell’organo del Partito Socialista Avanti. Proprio in questa veste, scrive articoli antimilitaristi e chiaramente pacifisti, scagliandosi in più occasioni contro i detentori del potere economico, da lui definiti guerrafondai. La sua posizione subisce però un drastico mutamento: Mussolini si convince che l’unico modo per cambiare effettivamente la situazione sia una guerra di vaste proporzioni, in grado di spezzare gli equilibri esistenti. Il 18 ottobre del 1914 appare un suo articolo, nel quale egli ritiene la necessità di passaggio dalla neutralità assoluta ad una più attiva ed operante. Nel successivo mese di novembre, Mussolini si schiera palesemente per un intervento dell’Italia nel conflitto a fianco delle potenze dell’Intesa. A causa di questa sua presa di posizione, il Partito Socialista determina la sua espulsione dal partito e dalla direzione del giornale. Ma ciò non turba Mussolini, che il 15 novembre, cioè mentre è ancora direttore dell’Avanti, ha fondato un proprio giornale: Il Popolo d’Italia. La testata da cui, agli inizi del 1915, lancia una violenta campagna interventista. A guerra scoppiata, Mussolini finisce in trincea ma qui non spicca. È soltanto soldato fra i tanti: un combattente semplice che arriva solo al grado di caporale maggiore. Quando prova a partecipare ad un corso per ufficiali, prima viene chiamato, poi rimandato a casa senza alcuna spiegazione. Gli alti comandi non amano né i volontari, né gli interventisti. E Mussolini in particolare ha la fama di testa calda. Nel complesso è un buon soldato, disciplinato e rispettoso dell’autorità, come peraltro la maggior parte di coloro che fecero la guerra, spesso anche senza condividerne le motivazioni. Il 23 febbraio 1917, rimane seriamente ferito durante un’esercitazione, un incidente in circostanze ancora non del tutto chiare, che comporta la fine alla sua esperienza bellica e il ritorno all’attività giornalistica.

Il giornalismo e la poesia: l’arte della comunicazione.

È proprio l’aver avuto entrambi esperienze di giornalismo un punto in comune tra i due personaggi. Mussolini è un giornalista, del suo mestiere ha fatto anche una dittatura con la censura della stampa non a favore del Fascismo, D’Annunzio, da scrittore e poeta, ha anche la capacità di lanciarsi nel mondo dell’editoria, scrivendo dapprima per testate minori, per passare, poi, a giornali di maggiore rilievo e tiratura. In questo, D’annunzio che Mussolini sono due grandi comunicatori uno con la poesia, l’altro con la politica.

Il buen ritiro del Vate: il “Vittoriale degli Italiani”.

Al termine della vicenda fiumana, D’ Annunzio si ritira nella villa Cargnacco, in quello che poi chiama il “Vittoriale degli Italiani”, sul Lago di Garda. Qui, viene colto alla sprovvista dal colpo di mano, la Marcia su Roma, con cui Mussolini conquista il potere nel 1922. Negli anni successivi avrà con il Duce ancora un rapporto difficile. Emerge ancora di più il dissenso del Vate verso il Fascismo.

Il diverso opportunismo di entrambi.

È frequente che gli uomini illustri abbiano tanti scheletri nell’armadio e si dirigano dove purtroppo galoppa da sempre l’onda dell’opportunismo politico e sociale.

Genio letterario indiscusso e indiscutibile, D’Annunzio letterato è inscindibile dal personaggio storico: troppo dilagante e straripante il suo smisurato ego. Fin dall’adolescenza è un personaggio moralmente discutibile, per opportunismo e vista molto lunga nel saper cercare, trovare ed utilizzare senza scrupolo persone e situazioni. Senza falsi moralismi, si può rimanere ammirati dalla personalità imponente e gigantesca di un uomo che nasce in provincia e, dal nulla, diventa imperituro protagonista della vita, della storia e della letteratura.

Un certo opportunismo è pure una delle molte manifestazioni caratteriali messe in risalto dalla storia a proposito della personalità del duce. Un concretizzato “trasformismo” politico tradotto in provvedimenti per calcolo. Si tratta di un’ansia di presenzialismo. Il desiderio di partecipare a fatti ed avvenimenti importanti, onde condividere, anche se non richiesto, le iniziative altrui e trarne beneficio a proprio vantaggio per poter poi dire: io c’ero.

I Patti Lateranensi sono un caso emblematico.

Per aumentare di popolarità, in origine anticlericale, Mussolini, s’accorda col Vaticano nel 1929. Lo Stato italiano scende a compromessi. È una contraddizione che non può durare a lungo. Perfino il re Vittorio Emanuele III, pure da sempre anticlericale, ormai estromesso è di fatto costretto a firmare i Patti Lateranensi. Gabriele d’Annunzio, nell’eremo di Gardone, non vuole fare dichiarazioni pubbliche, ma in privato lancia una delle sue battute: «Ne vedremo delle belle, col Papa mercatante e col primo ministro cristianissimo».

Si tratta di parole pericolose perché esprimono una sentenza, un pensiero tagliente e dicotomico. D’annunzio è un trascinatore di folle, un traghettatore pronto a scatenare rivoluzioni in seno al Fascismo. Mussolini è quindi costretto a sottostare ai desideri e al volere del Vate ricoprendolo d’oro, agevolandolo in tutti i modi, a proteggerlo per evitare che sobilli le folle con il suo carisma, le sue idee e i suoi testi.

Igor Belansy: “I Patti Lateranensi”

«Il cattivo poeta»

Questo è il titolo di un film ambientato nei frangenti conclusivi del rapporto fra Vate e Duce. La regia è di Gianluca Iodice, nel cast Sergio Castellitto, l’uscita è prevista nel novembre 2020. La trama vede D’Annunzio sul finire della sua vita, sempre più irrequieto e pericoloso agli occhi di Mussolini. Un uomo deciso a combattere contro l’oppressione fascista e a non rinunciare alla sua libertà di pensiero. È il 1937, il dittatore lo teme parecchio e per questo ha la stringente necessità di spiarlo, di sorvegliarlo. L’incaricato del difficile compito è Giovanni Comini, appena promosso federale per volontà del suo mentore, Achille Starace, Segretario del Partito Fascista, nonché numero due del regime. A soli 29 anni, si tratta del più giovane funzionario a potersi fregiare del titolo in Italia, la notizia ha una certa risonanza. Mussolini desidera che la missione sia svolta senza intoppi o complicazioni, dal momento che il suo piano di espansione dell’Impero ha la precedenza su tutto. Si tratta di una vera sfida per il prescelto per la missione, soprattutto per via della incrollabile stima reverenziale che prova nei confronti del “Vate”, fino al punto di mettere in crisi la propria fedeltà al fascismo?

L’epilogo.

Nel 1937, il Vate diventa presidente dell’Accademia d’Italia, poco di prima di morire nel 1938.

Con lui scompare quindi il protagonista di un’esperienza straordinaria, capace di imporsi prepotentemente all’attenzione di storici, sociologi, letterati ed artisti, pur tra le ricostruzioni fantasiose, i piccoli protagonismi, la voluttà della testimonianza, le prospettive di magari leciti introiti d’autore…

Un uomo che, con i suoi pregi e i suoi difetti, seppe rivoluzionare i costumi di un’intera epoca e, grazie alla sua “follia”, riuscì a tenere in scacco i governi e gli uomini più autorevoli dell’epoca.

La sua, una fine ben più di degna di quella che sappiamo essere toccata al suo carissimo nemico, il 28 aprile 1945 in Piazzale Loreto a Milano, dopo le dolorose pagine della nostra storia nazionale di cui macchiò.