Una strage (dimenticata) di 25 anni fa


Il 6 aprile del 1994 in Ruanda si scatena l’inferno. Poi seguiranno 100 giorni di massacri, stupri e violenze di ogni tipo ai danni dei tutsi e degli hutu moderati. Il pretesto, forse tanto atteso dagli estremisti hutu, fu l’abbattimento dell’aereo e la conseguente morte del presidente ruandese Juvenal Habyarimana (di etnia hutu), al potere dal 1973. Con lui morì anche il presidente del Burundi, entrambi di ritorno dai colloqui di pace in Tanzania. Fino a oggi non è stata ancora appurata la responsabilità dell’attentato. Le ipotesi sono sostanzialmente due: chi crede che siano stati gli estremisti hutu (facenti parte del circolo ristretto della moglie del presidente del Ruanda, Agathe) e chi invece incolpa i ribelli tutsi del RPF (Rwanda Patriotic Front), allora comandati dall’attuale presidente ruandese, Paul Kagame. Torniamo un po’ indietro. Il Ruanda fece il suo ingresso nella sfera politica europea alla fine dell’Ottocento, precisamente nel 1897, quando la Germania di Guglielmo II entrò in possesso del regno (comprendeva anche il moderno Burundi). I tedeschi vi trovarono un regno molto organizzato con a capo un re tutsi, che i nativi chiamavano mwami. Era considerato dal popolo un semi-dio.La popolazione era divisa in due gruppi: i tutsi e gli hutu. I primi allevavano il bestiame e i secondi coltivavano la terra. Questi due gruppi non erano statici, ma in virtù delle proprie capacità potevano cambiare. Infatti non era raro che un hutu fosse allevatore e un tutsi agricoltore. I nuovi arrivati non tardarono a individuare i tutsi come l’élite del luogo. Li appoggiarono e gli consentirono di rafforzare il proprio potere a discapito degli hutu. I tutsi furono aiutati in questo da una teoria ripresa dall’esploratore inglese, del XIX secolo, John H. Speke, che ebbe la fortuna di “scoprire” il lago Vittoria e le sorgenti del Nilo. Egli, nel 1863, formulò la teoria secondo la quale i tutsi fossero in realtà i discendenti del re David, e di conseguenza li considerava una tribù caucasica di origini etiope; mentre identificava gli hutu come la classica tribù negroide e sottosviluppata. Questo pensiero attecchì anche con i tedeschi. I tutsi erano considerati aristocratici, alti, belli con fisici slanciati, pelle non molto scura, labbra sottili e naso stretto e appuntito; mentre gli hutu erano rozzi, bassi con corporatura tozza, pelle scura e naso schiacciato.Dopo la Prima guerra mondiale, il Belgio amministrò il regno di Ruanda-Urundi al posto della Germania sconfitta. Con la dominazione belga la situazione tra le due “etnie” diventò sempre più insostenibile, scavando tra loro un solco sempre più profondo e incolmabile. Nel 1933 i belgi introdussero le carte d’identità etniche e continuarono ad assegnare i posti migliori dell’amministrazione del governo ai tutsi. Gli hutu, sempre più emarginati ed esclusi dalla società, cominciarono ad organizzarsi: un gruppo di intellettuali pubblicò il Manifesto hutu. In sintesi, il Manifesto dichiarava la sostituzione dei tutsi ai cardini del potere con uomini hutu, legittimando la violenza contro gli oppressori feudali dei primi sui secondi.Siamo nel 1957. Il Belgio, che fino ad allora aveva sempre appoggiato e protetto i tutsi, improvvisamente cambiò strategia politica e abbandonò i vecchi protetti per i nuovi diseredati da redimere. L’influenza della Chiesa qui fu forte. Negli anni ’50 i nuovi sacerdoti belgi mandati nella colonia ruandese erano di origine fiamminga e di conseguenza gli veniva naturale identificarsi con gli hutu. In Belgio, in quegli anni, i valloni (di lingua francese), che erano una minoranza, detenevano maggiore potere e ricchezza rispetto ai fiamminghi (di lingua germanica, molto simile all’olandese), che invece rappresentavano la maggioranza della popolazione. Esattamente come in Ruanda. Gli hutu rappresentavano l’84% della popolazione, i twa (pigmei, primi abitanti della zona) l’1% e i tutsi appena il 15%.Nel 1959-60 avvengono i primi incidenti gravi: migliaia di tutsi vengono uccisi e migliaia di persone sono costrette a fuggire all’estero. I belgi non muovono un dito. Nel 1962 i ruandesi ottengono l’indipendenza dal Belgio ed eleggono Kayibanda presidente. Costui darà il là a vari pogrom contro i tutsi: i più devastanti nel 1963 e 1964 con 15 mila morti e 250.000 rifugiati. Dopo questi fatti, scriverà il filosofo Sir Bertrand Russell: “Il massacro più atroce e sistematico di cui siamo stati testimoni dopo lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti”.L’odio verso i tutsi non tende a placarsi, e anche quando nel 1973 il generale Juvenas Habyarinama prende il potere con un colpo di stato, i massacri continueranno. Quello stesso anno migliaia di persone vengono uccise. Lo stesso accadrà altre volte nel corso degli anni, fino ai pesanti pogrom del 1992. All’inizio degli anni Novanta l’ONU manda un contingente di soldati comandati dal generale canadese Romeo Dallaire. Nel 1993 viene firmato un trattato di pace tra Habyarimana e i ribelli tutsi del RPF, che risiedono in Uganda (essendo cresciuti e in molti casi nati in quel Paese perché espatriati o figli di espatriati fuggiti dai massacri avvenuti in Ruanda, dopo gli anni ’60).Questi ultimi parlano tutti inglese. Questo è un particolare importante ai fini della nostra storia. La situazione sembra risolta, ma è solo un fuoco di paglia. Habyarimana era considerato un traditore da molti circoli estremisti che gravitavano attorno alla moglie. Come scritto sopra, il 6 aprile 1994, l’aereo che stava riportando a casa il presidente ruandese e burundese viene colpito da un razzo. Non c’è scampo per entrambi. Il genocidio ha inizio.Qui si cercherà di spiegare per quale motivo si considera l’uccisione dei tutsi un genocidio geopolitico. La Francia ha sempre cercato di mantenere una forte influenza sulle nazioni africane, e non solo, di lingua francese. Subito dopo l’indipendenza del Ruanda, la Francia subentrò prepotentemente al ruolo del Belgio, che lì non era più ben accetto. Già dal 1975 i francesi fornivano assistenza militare alla dittatura di Habyarimana e uomini delle forze armate francesi addestravano e aiutavano le truppe dell’ex colonia belga. Nel 1992 intervennero direttamente i soldati francesi per respingere un attacco dei ribelli tutsi del RPF dall’Uganda e nel giugno 1994, attraverso l’operazione “umanitaria” Turquoise, i soldati francesi in realtà protessero e aiutarono gli assassini della milizia Interahamwe a fuggire in Congo, inseguiti dai vittoriosi ribelli tutsi del RPF di Kagame.Lì continuarono i loro massacri a scapito della popolazione civile. In questo genocidio vi rientrano prepotentemente anche gli americani: infatti furono loro a dare le armi ai ribelli di Kagame (tra l’altro addestrato negli USA) e sempre loro aiutarono e continuano ad aiutare il suo governo. Oggi in Ruanda si insegna l’inglese a scuola, esattamente la lingua di Kagame e dei ribelli tutsi proveniente dall’Uganda. Non dimentichiamoci l’importantissimo colosso dai piedi di argilla, il confinante Congo. Un Paese continente ricchissimo di minerali e di materie prime che fanno gola a tanti paesi e a tante multinazionali occidentali.Le maggiori riserve di coltan, un minerale indispensabile per costruire i micro processori dei computer e non solo, risiedono in Congo. Inoltre, questo paese possiede enormi riserve di diamanti, argento, oro, rame ecc. (otre al legno pregiato e alla fauna selvatica). Sempre in Congo, tra il 1994 e il 1997, si è combattuta quella che gli storici chiamano la Prima guerra mondiale africana (si presume che vi siano morti tra i 2 e i 5 milioni di persone). Vi hanno partecipato tutti i paesi confinanti, oltre al ruolo predominante del Ruanda di Kagame.Tutte quelle ricchezze arrivano in Occidente tramite vie traverse e quasi sempre illegalmente. Sicuramente la Francia è stata scalzata, come potenza regionale, a favore degli Stati Uniti. Quest’ultima è la vera nazione vincitrice, se così si può dire, del genocidio del 1994. Vorrei ricordare che in 100 giorni morirono 800.000 persone circa, perché, come disse il generale dell’ONU in Ruanda Romeo Dallaire, nessuno fermò il massacro, eppure sarebbero bastate poche centinaia di soldati in più per fermare il genocidio ma nessuno volle muoversi. Né la Francia, né gli Usa né tanto meno l’ONU. Fu soprattutto una guerra di controllo del territorio congolese, in una delle zone più ricche di minerali al mondo. Inizialmente quel genocidio venne raccontato dai principali media di tutto il mondo come lo scoppio di una violenza improvvisa e imprevedibile. Poi, nel novembre del 1995, il quotidiano belga De Morgen pubblicò estratti di un fax che Romeo Dallaire, capo dei caschi blu a Kigali, aveva mandato ai suoi capi all’Onu, la notte dell’11 gennaio 1994. Da quel documento risultava chiaro che si stava preparando un massacro. Ma Dallaire, che si apprestava a requisire un deposito di armi, ricevette l’ordine di non fare nulla. Fu la prima di una lunga serie di decisioni vergognose. Dopo l’omicidio del presidente ruandese – l’Hutu Juvénal Habyarimana, ucciso il 6 aprile 1994 – e le violenze che ne seguirono, Dallaire chiese rinforzi, ma il Consiglio di sicurezza rispose riducendo il contingente a sua disposizione da 2.500 a 270 caschi blu. Ancora oggi si continua a raccontare il genocidio del Ruanda come di un regolamenti di conti a colpi di machete tra etnie contrapposte: è il solito cliché utile per occultare le enormi responsabilità occidentali in ordine quel gigantesco massacro di povera gente inerme in fuga.Nei tre anni precedenti il 1994, sotto gli occhi della Banca mondiale, il Ruanda che è poco più grande della Sicilia era stato, in termini assoluti, il terzo importatore d’armi di tutta l’Africa. E ancora oggi i paesi più potenti del mondo continuano a vendere armi a paesi poveri in cui sono in atto conflitti e guerre civili, e a paesi aggressori, mentre le somme destinate allo sviluppo di questi paesi sono ridicole.Nel 2003, quando ormai la mole di documenti che testimoniavano la premeditazione e l’evitabilità del massacro era già enorme, l’allora Segretario di Stato degli Stati Uniti durante il secondo mandato presidenziale di Bill Clinton, Madeleine Albright, ribadì che non si era potuto fare nulla, che tutto era stato improvviso e inaspettato. Tuttavia, fu la Francia ad avere le responsabilità più grandi, tra le potenze occidentali perché fu sempre sempre a fianco del regime di Habyarimana e successivamente del governo in mano agli estremisti genocidi. Parigi fornì armi, addestrò milizie e successivamente al massacro protesse la fuga dei principali responsabili del genocidio.E fu sempre la Francia a diffondere una verità di comodo sul genocidio della popolazione Tutsi. Il presidente francese François Mitterrand , a novembre del 1994, rispondendo a un giornalista che lo intervistava sul genocidio, rispose: “Di quale genocidio parla? Di quello degli hutu contro i tutsi o di quello dei tutsi contro gli hutu?”. In altre parole, Mitterand volle dire al mondo che si interrogava sulle cause di quel genocidio: sono solo guerre tribali ed in Ruanda si sono massacrati fra loro, cosa c’entriamo noi? Ma Francois Mitterrand era già ampiamente noto per la sua collaborazione, soprattutto commerciale ed economica, con i vertici regime degl iHutu in Ruanda, segregazionista nei confronti dei Tutsi,prima della guerra civile ruandese che portò al loro genocidio. La famiglia di Mitterrand coltivava enormi interessi d’affari non solo in Ruanda ma anche nel resto dell’Africa (il figlio di Francois Mitterand venne arrestato nel 2000 per traffico d’armi con l’Angola). Il giornalista Philippe Gourevcitch nel suo libro The Reversals of War attribuì a Mitterrand l’infelice frase «In questi Paesi un genocidio non è troppo importante». Non a caso Francois Mitterand era noto ai più come “Francois l’africano”.Nel tentativo di far luce su questo tragico episodio, il giornalista David Servenay ha tracciato i flussi finanziari che hanno alimentato il genocidio della popolazioneTutsi. L’inchiesta di David Servenay, che Le Monde pubblica in tre parti, mostra che i massacri furono organizzati almeno due anni prima del loro scoppio. Inoltre, per comprare le armi, gli estremisti Hutu hanno approfittato della complicità delle banche francesi come BNP ma anche la cecità delle istituzioni internazionali come il Fondo Monterario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale (Word Bank).