Caso Tortora: Perché proprio lui?


“Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio, ha pregato per me e io questo non lo dimenticherò mai. E questo “grazie”, a questa cara buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L’ho detto e un’altra cosa aggiungo: io sono qui e lo sono, anche, per parlare per conto di quelli che parlare non possono e sono molti, e sono troppi; sarò qui, resterò qui, anche per loro. Ed ora cominciamo, come facevamo esattamente una volta”.
È il 20 febbraio 1987 quando, dopo tre anni di assenza dal grande schermo, accusato di collusione di stampo camorristico, Enzo Tortora torna in televisione. Torna a parlare, commosso, davanti ai telespettatori che non l’hanno mai dimenticato. Un anno dopo, il 18 maggio 1988, a portarlo via sarà un tumore ai polmoni.
La sua vita, gioiosa ed appagata fino ad allora, si era fermata il 17 giugno 1983, quando, nel cuore della notte, venne arrestato dai Carabinieri. Alle ore 04,15, all’Hotel “Plaza” di Roma, dove alloggiava per le registrazioni di un programma televisivo, condotto da Pippo Baudo, venne portato in Questura e poi a Regina Coeli.
La prima edizione del Tg2 di quella mattina, raccontò all’Italia quanto stava accadendo: “Enzo Tortora è stato arrestato in uno dei più lussuosi alberghi romani, il Plaza, con un ordine di cattura nel quale si parla di sospetta appartenenza alla Nuova Camorra Organizzata (N.C.O), il clan capeggiato da Raffaele Cutolo: un’associazione per delinquere, finalizzata al traffico di droga e a reati contro il patrimonio e la persona”.
Gaia, la figlia minore, disse: “Vedevo un mostro alla televisione, che mi dicevano essere il mio papà, ma quello non era mio padre”. “Mi hanno fatto esplodere una bomba atomica dentro”, disse Tortora, parlando di ciò che gli era successo.
Era stato accusato da Pasquale Barra e Giovanni Pandico di essere un corriere della droga. Le telecamere lo avevano ripreso, in manette, il giorno dell’arresto. Un’immagine che, oggi, la deontologia professionale non consentirebbe più di pubblicare. Nel maggio del 1985, l’allora Ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro, firmò un disegno di legge contro le “tele-manette”.
Ci vollero quattro anni perché fosse dimostrata la sua innocenza. Dopo sette mesi di carcere, gli arresti domiciliari, una condanna in primo grado, una assoluzione in appello e quella definitiva in Cassazione.
Al momento dell’arresto, era uno dei personaggi più popolari della televisione grazie a “Portobello“, appuntamento fisso del venerdì sera. Dopo l’assoluzione, tornò davanti ai teleschermi, nella stessa trasmissione, aprendo con la tradizionale frase: “Dove eravamo rimasti?”.
L’accusa si era basata sul ritrovamento, nell’abitazione di un camorrista, di un’agendina, sulla quale comparivano un nome, scritto a penna ed un numero di telefono: in seguito le indagini proveranno che il cognome non era il suo, ma quello di un certo Tortona e che il numero non era quello del presentatore. In molti dissero che era stato coinvolto per uno “sgarro” di 40 milioni di lire fatto a dei trafficanti di droga, altri che nell’affare vi fosse la mano dell’organizzazione camorristica di Francis Turatello, “Faccia d’angelo”, con il quale il presentatore aveva un rapporto di amicizia.
“Quando l’opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario – divisa in “innocentisti” e “colpevolisti” – in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Accade come nel mondo delle scommesse, su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Il caso Tortora è in questo senso esemplare: coloro che detestavano i programmi televisivi condotti da lui, desideravano fosse condannato; coloro che invece a quei programmi erano affezionati, lo volevano assolto”, scrisse Leonardo Sciascia.
Enzo Tortora era nato Genova, nel 1928. Dopo una laurea in “giornalismo”, aveva iniziato a lavorare in alcuni spettacoli, con Paolo Villaggio e, a 23 anni, era entrato in Rai con il programma radiofonico “Campanile d’oro”. Nel 1956 presentò, in TV, affiancato dall’attrice cinematografica Silvana Pampanini, “Primo Applauso”, a cui seguirono “Telematch” e “Campanile sera”, fino ad arrivare alla conduzione de “Il gambero” e “La Domenica Sportiva”. Negli anni Settanta venne licenziato dalla Rai, per averla pubblicamente definita “un Ente simile a un jet supersonico, pilotato da un gruppo di boy-scout che litigano ai comandi, rischiando di mandarlo a schiantarsi sulle montagne”. Nel 1977, rientrò con la conduzione, a fianco di Raffaella Carrà, di “Accendiamo la lampada”. Il vero grande successo, però, arrivò con “Portobello”, in onda ininterrottamente dal 1977 al 1983.
“Si aggirava tra bersaglieri, brigadieri, donnine che piangevano, in un mondo per me insopportabile, vecchio, antico, muffoso… Rivisto oggi, appare invece delizioso, al confronto con la volgarità trascinante degli ultimi anni. Se tornassi indietro e dovessi dirgli, adesso, quello che penso di “Portobello”, gli direi: era un programma strepitoso, geniale!”, raccontò la figlia Silvia.
Dopo 14 mesi dall’arresto, nell’agosto del 1984 Tortora venne eletto Eurodeputato del Partito Radicale e seguì il processo da uomo libero. Il 17 settembre del 1985 fu condannato a dieci anni di carcere. Rinunciando all’immunità parlamentare, restò agli arresti domiciliari. La sentenza di Appello per il processo di secondo grado arrivò nove mesi dopo, il 15 settembre del 1986. La Corte di Appello di Napoli decise per l’assoluzione con formula piena: i suoi accusatori avevano dichiarato il falso. Morì di cancro poco più di un anno dopo, il 18 maggio 1988.
“Signor Presidente della Repubblica, non le sottopongo il caso di un mio collega, ma quello di un cittadino. Non auspico un suo intervento, ma non saprei perdonarmi il silenzio. Vicende come quella che ha portato in carcere Enzo Tortora possono accadere a chiunque. E questo mi fa paura”, furono le parole di Enzo Biagi su “La Repubblica” del 7 agosto 1983.