La triste storia di Yakov Džugašvili


Si pensa, generalmente, che avere un padre importante e potente sia una fortuna; perlomeno, non una disgrazia.Non fu così per Yakov Josifovič Džugašvili, il figlio di primo letto di Josif Vissarionovič Džugašvili, detto “Stalin” (uomo d’acciaio), al quale il destino assegnò l’odio e il disprezzo del padre, un’adolescenza trascurata, una maturità infelice, una morte violenta ed oscura.Yakov nacque nel 1908, dal leader bolscevico e da Ekaterina “Kato” Svanidze, una donna che Stalin amò smisuratamente, impazzendo quasi per il dolore, alla sua morte, avvenuta per tifo, a 22 anni e solo sedici mesi dopo il matrimonio. A 14 anni, il ragazzo lasciò Gori, in Georgia, città natale sua e di suo padre e si trasferì a Mosca dove, nel frattempo Stalin, ormai proiettato al vertice del potere sovietico, si era risposato con Nadezhda Alliluieva, che morì, suicida, nel 1932. Il primo vero scontro con il padre, Yakov lo ebbe nel 1925, quando, diciottenne, si innamorò di Zoya, una sua compagna di scuola sedicenne, figlia di un prete ortodosso. Stalin cercò di ostacolare questa relazione ed il giovane, per tutta risposta, si sparò al petto. Ma non morì, perforandosi “solo” un polmone e mancando fortunosamente il cuore. “Non è stato nemmeno capace di sparare diritto”, commentò Stalin, che definì il figlio un teppista ed un ricattatore. Nel 1938 sposò un ballerina di origine ebraica, Yulia Meltzer, da cui ebbe una figlia, Galina, morta nel 2007 ed un figlio, Yevgheni Yakovlevič, morto nel 2016. Anche questo matrimonio non fu visto di buon occhio dall’esigente genitore, che per tutta la vita non nascose mai il suo antisemitismo. Quando la Germania attaccò l’Unione Sovietica, il 22 giugno 1941, con l’”Operazione Barbarossa”, Yakov, che nel frattempo aveva intrapreso la carriera militare, al pari di milioni di altri russi, partì, come Tenente di Artiglieria, per il fronte. Il 16 luglio 1941, durante la cruenta battaglia di Smolensk, in cui vennero accerchiate e annientate quindici divisioni sovietiche, fu fatto prigioniero. Un primo mistero riguarda le circostanze della sua cattura. Per anni si è creduto che fosse avvenuta durante i combattimenti nella sacca. Ma, nel 2013, il giornale tedesco “Der Spiegel”, basandosi su fonti germaniche e russe, nel frattempo desecretate, ha pubblicato un lungo e dettagliato articolo, secondo il quale il Tenente Yakov Džugašvili si tolse l’uniforme ed indossò abiti borghesi, per arrendersi poi ai tedeschi. Il verbale del suo interrogatorio, scrive il settimanale di Amburgo, è stato ritrovato dai sovietici, dopo la guerra, negli archivi del Ministero tedesco dell’Aeronautica e tenuto segreto fino all’avvento di Gorbaciov. In alcune fotografie, scattate dopo la cattura, egli appare, effettivamente, attorniato da Ufficiali della Luftwaffe. Un dettaglio che depone a favore della tesi della resa. Un soldato, veniva di solito catturato da altri soldati di terra. Consegnarsi a degli aviatori, significava essere riuscito a superare la linea del fronte e di conseguenza, aver organizzato la cosa. Durante l’interrogatorio, Yakov sferrò critiche molto dure nei confronti della leadership sovietica e, quindi, del padre, al quale imputava lo stato di impreparazione e di disorganizzazione dell’Armata Rossa, fatta a pezzi dalla Wehrmacht nelle prime settimane di guerra. I tedeschi, infatti, lanciarono sulle linee sovietiche volantini in cui si leggeva: “Non versare il tuo sangue per Stalin! Lui è già scappato a Samara! Il suo stesso figlio si è arreso! Il figlio di Stalin ha scelto di salvarsi, neanche tu sei obbligato a sacrificarti”. Disertore o prigioniero, per il leader bolscevico non faceva alcuna differenza. Lui, del resto, aveva disposto che i soldati, divenuti prigionieri, erano da considerarsi, in tutto e per tutto, traditori della patria e la cui colpa sarebbe ricaduta sulle famiglie rimaste a casa. A guerra finita, nel 1945, decine di migliaia di russi scampati alla prigionia in Germania (dove a milioni morirono di fame e di stenti) furono spediti nei gulag o, nel migliore dei casi, furono vittime di un marchio di infamia che impedì loro di lavorare e di reinserirsi nella vita civile, almeno fino alla morte del dittatore, avvenuta nel 1953. Per Yakov non furono fatte eccezioni. La moglie Yulia, che emigrò negli Usa nel 1967 e lì morì nel 2011, fu accusata di aver istigato il marito a disertare. La donna fu separata dalla figlia di tre anni, arrestata e rinchiusa per due anni in un campo di concentramento. Quando, nel gennaio 1943 i russi catturarono, a Stalingrado, il Feldmaresciallo Friedrich Paulus, Comandante della Sesta Armata, i tedeschi proposero uno scambio di prigionieri: il loro ufficiale in cambio di Yakov Džugašvili. Ma Stalin avrebbe risposto che “non si scambia un Feldmaresciallo con un semplice Tenente. Cosa direbbero gli altri padri sovietici se io non mi comportassi così con mio figlio?”. Un aneddoto, questo, che non fu, allora, trascurato e che venne citato ovunque, nel mondo. La storia racconta che Yakov morì nel campo di concentramento di Sachsenhausen, a nord di Berlino, il 14 aprile del 1943, dove era rinchiuso, in un settore speciale, insieme ad altri prigionieri “eccellenti”. Sembra che, in preda a un’apparente follia, si sia lanciato contro la recinzione elettrificata, finendo fulminato, oppure, più probabilmente, sia caduto sotto il fuoco delle guardie, mentre correva verso il muro di cinta, senza obbedire all’ordine di fermarsi. Diverse anche le spiegazioni sui motivi di quello che è sembrato un “suicidio assistito”. Secondo alcune fonti, fu travolto dalla vergogna, dopo che fu annunciata, il 13 aprile 1943, la scoperta tedesca della “Strage di Katyn”, con l’uccisione di oltre ventunmila polacchi, avvenuta nel 1940 ad opera della polizia segreta sovietica, per ordine di suo padre. Secondo un’altra versione, Yakov era costantemente “bullizzato” da altri prigionieri, in particolare inglesi, perché lasciava sporche le latrine del campo. Questa tesi fu sposata da Milan Kundera quando, nel libro “ L’insostenibile leggerezza dell’essere”, scriveva: “Il figlio di Stalin ha dato la sua vita per della merda. Ma morire per della merda non vuol dire morire senza un senso. La sua morte fu, nella generale stupidità della guerra, la sola morte metafisica”. Ma sulla fine di Yackv esiste anche un ‘altra versione, decisamente più complottista e alquanto inverosimile. Secondo il “Gazzettino” di Venezia, non sarebbe morto a Sachsenhausen. Sarebbe, in realtà, scappato dal campo e, arrivato in Italia, si sarebbe arruolato, con il nome di battaglia “Monti”, nella Brigata Partigiana “Piave”. Sarebbe stato ucciso dai fascisti, sulle colline intorno a Vittorio Veneto, insieme a un compagno, Giovanni Morandin, detto “Barba”, il 6 febbraio 1945. Nel 1977, Yakov Josifovič Džugašvili , è stato riabilitato dal Soviet e insignito con la decorazione, postuma, dell’Ordine della Grande Guerra Patriottica di Prima Classe.