In risposta ad alcuni quesiti di lettori…


Nel mio ultimo articolo mi sono dedicato alla situazione degli afrikaneer ossia i sudafricani discendenti dei boeri che dal 1700 hanno colonizzato la parte meridionale dell’Africa. Nel portare in evidenza ciò che i bianchi stanno subendo in Sudafrica ho invitato i lettori di WeeklyMagazine ad ascoltare un discorso dell’ex n.1 del KKK non per dimostrare la supremazia dell’uomo bianco ma semplicemente perché è stato uno dei pochi a parlare della situazione sudafricana in quello specifico video (non so quanti di voi lo hanno ascoltato). Inoltre ho buttato giù cifre per quello che concerne il sistema del microcredito, che sono il frutto di una attenta ricerca.
Premetto che alcuni rimandi sono in inglese ma se avete la pazienza tutto quello che ho riportato la settimana scorsa lo troverete qui, vi invito inoltre a leggere l’articolo del giornale 2013 facilmente recuperabile su internet, a volte fare ricerca può portare alla luce cose apparentemente inverosimili.
«Nonostante tutto, il mito del microcredito come strumento “buono” per combattere la povertà, resiste. Nonostante, soprattutto, il fatto che non sia vero». Sono parole di Jason Hickel, antropologo della London School of Economics. Riassumono quello che, negli ultimi sei anni, è stato un vero e proprio cambiamento di rotta nei confronti del microcredito. «L’idea prometteva un’elegante soluzione win-win al problema della povertà del mondo: la sradicava, senza andare a toccare le strutture politiche e di potere, senza che costasse nulla e soprattutto, facendo guadagnare chi dava i prestiti».
Troppo bello per essere vero.
Tutto, in teoria, avrebbe dovuto funzionare. La Grameen Bank, istituita dal premio Nobel bengalese Muhammed Yunus nel 1983, si distingue come pioniere nel campo. Elargisce finanziamenti di modestissima entità (le proporzioni variano, sono anche al di sotto dei 100 dollari) per sostenere gli investimenti di singoli e di famiglie troppo povere per accedere alle reti di prestito tradizionali. Per Yunus è una battaglia contro «l’apartheid del credito». Esclusi dal sistema finanziario, i poveri sarebbero stati condannati a restare poveri. La Grameen Bank, invece, allarga il bacino del credito e permette ai beneficiari del prestito di cominciare un’attività imprenditoriale – in senso lato: anche vendere cibo cotto per strada rientra nella definizione.
Gli obiettivi del microcredito, esplicitati nel Summit internazionale del Microcredito, sono molto ambiziosi: aiutare i più poveri, assicurare un miglioramento misurabile nelle loro vite, creare delle istituzioni in grado di autosostenersi dal punto di vista finanziario e dare più potere alle donne, aiutandone l’emancipazione – soprattutto economica.
Ma la domanda è un’altra: il metodo è efficace? Esistono senza dubbio dei casi di successo. Come scrive David Roodman, del Center for Global Development, nel suo libro Due Diligence, an Impertinent Inquiry into Microfinance, Muhammad Yunus ama raccontare la storia di Murshida, «nata in una famiglia povera, con sette fratelli, sposata a 15 anni con un uomo di un villaggio vicino che lavorava come operaio generico». Quando Murshida ebbe figli, «arrivarono i problemi. Le spese aumentavano, e i soldi diminuivano, anche perché il marito scommetteva, perdendo tutto». Persero anche il tetto, che aveva impegnato al gioco. Con la stagione delle piogge tutta a casa si allagò. «Quando Murshida provò ad affrontarlo, lui la picchiò e la cacciò di casa». A quel punto, per lei e per i suoi figli, l’unica soluzione era avere del contante immediato. A questo provvide la Grameen Bank. Con la somma accordata creò un piccolo commercio tessile, che nel giro di pochi anni divenne una vera e propria fabbrica, «con cui dava lavoro ad altre 25 donne». Ripagò il debito e fece profitti. La storia, insomma, è finita bene: una donna povera è uscita dalla miseria e dal biasimo sociale di rimanere senza marito.In realtà, la questione è più complessa.Secondo diversi studi, il microcredito non ha alcun effetto salvifico. Prima di tutto, non aiuta le persone a uscire dalla povertà.«L’impatto medio – scrive Roodman – è prossimo allo zero». In molti casi, poi, vengono applicati tassi di interesse altissimi (giustificati dal rischio e, soprattutto, dalla difficoltà fisica di consegnare il denaro), e che variano da una media del 12% annuale in Etiopia a un 110% in Messico. Il Banco Compartamos può applicare anche tassi del 200%. Questo spesso induce il debitore, che non è in grado di ripagare il debito, a contrarre ulteriori debiti o, in altri casi, a vendere i beni a disposizione, compresi quelli acquistati per iniziare l’attività produttiva (per cui la casa e la mucca). Si entra in una spirale di debito che ottiene l’effetto opposto: aumenta la povertà. Nel peggiore dei casi, come è avvenuto nel 2010 nel villaggio indiano di Adhra Pradesh, i contadini che non riuscivano a ripagare il debito, dal momento che l’istituto aveva posto come garanzia un’assicurazione del pagamento in caso di morte, hanno scelto di suicidarsi per evitare che venisse sottratta la casa alla famiglia. Come si sintetizza qui, non è «né un miracolo né un miraggio». Di sicuro, non conduce fuori dalla povertà.
Questo avviene per diversi motivi. Come spiega a Linkiesta Alberto Lanzavecchia, professore di Corporate Finance all’Università di Padova, il problema è che «il denaro, di per sé, non è mai produttivo. È il modo in cui viene impiegato che lo rende produttivo, l’attività». Per questo motivo, spiega, «esistono, anche nel microcredito, degli investimenti “buoni” e degli investimenti “cattivi”». La dinamica è la stessa dei prestiti degli istituti creditizi tradizionali. «Si deve valutare bene a quale attività intende dedicarsi il beneficiario del prestito. L’agricoltura, che è per definizione stagionale, non è un buon investimento, perché non permette un risultato costante. È anche molto rischiosa perché dipende dalle condizioni climatiche». Altre attività, invece, «permettono risultati più immediati e più costanti. Anche solo cucinare e vendere cibo per strada rientra in questa categoria. O sfruttare vecchi binari per inventarsi un sistema di trasporto alternativo. Non deve essere una cosa per forza innovativa».Qui arriviamo al sudafrica e riporto le parole di Tami Somoku, uno dei quadri esecutivi di Abil, «i consumatori non sono attenti ai propri diritti né consultano la documentazione finanziaria. Tutto quello che vogliono è un prestito. E il più rapidamente possibile». Nel 2005, il governo adotta una legge sul credito che regolamenta i tassi d’interesse , sulla carta é 5 % max ma sovente l’industria del credito senza garanzia, meno inquadrata, bypassa la legislazione. A colpi di aggressive campagne pubblicitarie, Abil vanta prestiti che vanno da 35 a 10.000 euro, su una durata di 60 mesi e con tassi di interesse annui del 60% (mentre l’inflazione si colloca intorno al 6% all’anno) Dietro Abil, nuovi operatori salgono sul treno in corsa. Le compagnie di assicurazioni sulla vita moltiplicano gli annunci sulle catene televisive pubbliche. Oltre 30.000 agenti informali di microcredito, i mashonisa, con tassi d’interesse mensili che arrivano al 100%, brulicano anche nei quartieri popolari.
Il resto traducetelo voi e se ritenete che le cifre siano taroccate o inventate chiedo io a voi di farmi vedere i riscontri che non siano però i rapporti sulla povertà nel mondo.

Bibliografia:

(1) South Africa: Two decades of freedom», dicembre 2013, rapporto disponibile online, www.goldmansachs. com

(2) Cfr. T. O. Molefe, «South Africa’s subprime crisis», The New York Times, 26 agosto 2014.

(3) Si legga Achille Mbembe, «Le lumpenradicalisme du président Zuma», Manière de voir, n° 108, «Indispensable Afrique», dicembre 2009 – gennaio 2010.

(4) «South African Banks: Payday Mayday», The Economist, Londra, 16 agosto 2014.

(5) Meeta Vadher, «Norton Rose Fulbright conseille Gold- man Sachs dans le cadre d’un placement de droits de 525 millions de dollars», 16 dicembre 2013, www.nortonrose- fulbright.com

(6) Si legga Greg Marinovich, «Une tuerie comme au temps de l’apartheid», Le Monde diplomatique, ottobre 2012.

(7) Saliem Fakir, «From Marikana to the fall of African Bank: Unsecured loans and low wages create a hollow economy», The South African Civil Society Information Service (Sacsis), 20 agosto 2014, http://sacsis.org.za

(8) T. O. Molefe, «South Africa’s subprime crisis», op. cit. (Traduzione di Marinella Correggia)