L’utopia di Tommaso Moro


Gli studi di storia culturale, in Italia, sono sempre stati orientati verso i problemi della civiltà europea. Pertanto, movimenti di pensiero, di religione o politici hanno, nel tempo, condizionato le ideologie, gli atteggiamenti e la vita delle grandi menti italiane. “L’Utopia”, ad esempio, romanzo in latino aulico pubblicato nel 1516, l’opera più famosa di Thomas More (1478-1535), latinizzato Thomas Morus ed italianizzato Tommaso Moro, costituisce uno dei migliori contributi in questo senso. La sua traduzione facile da capire e disinvolta, conserva ancora il profumo dell’umanesimo del XVI secolo, la commozione di una fede ottimistica che sogna un rinnovamento del mondo e un’ingenuità semplice che si è maturata sui libri di una civiltà antica senza più veli. Si vede nitido il legame dell’Utopia col “movimento degli spiriti” promosso da Erasmo, con la fede nel pensiero riformatore, col risveglio del sentimento cristiano, eticamente attivo contro tutte le sovrastrutture teologiche e scolastiche del Medioevo. C’è l’erosione critica del passato, senza un esatto calcolo di ciò che tale erosione avrebbe provocato: un ottimismo simile a quello della filosofia del secolo XVIII. Lutero, gli strascichi di rivoluzione e guerra, che la Riforma si trarrà dietro, non sono preavvertiti. Tommaso Moro oscilla tra due possibilità: o l’instaurazione, dalle fondamenta, di una nuova società connessa a nuove ideologie di cultura o un progressivo miglioramento della situazione presente, agendo nei consigli dei Principi e introducendo il bene secondo i criteri dell’opportunità. Nel dialogo, il protagonista, Raffaele Itlodeo, durante un viaggio immaginario in una fittizia isola-regno, sostiene la tesi radicale, poiché tra la prassi delle corti e gli ideali della nuova cultura esiste un abissale divario: ogni cambiamento deve essere considerato assurdo ed impossibile. Nella pratica della sua vita, Il Moro, accettando il cancellierato, tenterà l’altra soluzione. Per lui, il cristianesimo tende ad adeguarsi ad una religione naturale, a purificarsi dell’ascetismo, a non escludere, dalla vita, la gioia e il piacere, a rivedere il costume consolidarsi attraverso i secoli ed a levarsi contro i fanatismi. Interessante notare quanto realismo scorra nelle pagine dell’Utopia, come, ad esempio, nelle teorie economiche che preludono allo stretto nesso che sempre ebbero in Inghilterra i principi di libertà con quelli di economia politica. Il “comunismo” di Utopia ha soprattutto la mira di sostituire l’etica politica, protesa al bene della res publica, con quella degli “interessi solo privati e particolari” della tradizione medievale. Sono, infatti, acutamente rilevati i presentimenti di situazioni future, nelle pagine in cui Tommaso Moro espone i sistematici metodi coloniali e di guerra degli Utopiani : in esse emergono le caratteristiche della politica imperialistica ed estera dell’Inghilterra, nel periodo dell’espansione mondiale, periodo ai cui margini si affaccia appena il Regno di Enrico VIII, da non molto uscito dalle guerre civili delle Due Rose. L’odio di ciò che si dirà “machiavellismo” non impedisce agli Utopiani di fare la guerra con la massima spregiudicata risolutezza; usano l’oro come suprema arma da guerra, rifuggono dal servizio militare e ricorrono ad un grande impiego di forze mercenarie ed alleate; la loro resistenza è ostinata e tenace, quando costretti ad impegnarsi a fondo; la loro tranquillità non si turba di fronte a rovesci considerati inferiori alla propria capacità di ripresa; sanno resistere alle ebbrezze della gloria bellica e valutare la vittoria secondo il bilancio delle perdite subite. Tale quadro potrebbe presupporre, quanto meno, l’esperienza delle lotte contro la Rivoluzione e l’Impero. Invece no, è tracciato solo ai primi albori dell’espansione inglese. Ma, soprattutto negli Utopiani, è del tutto radicata la mentalità “insulare”, la mentalità di un mondo chiuso, di un mondo a sé, completamente autosufficiente, forma mentis che sarà la caratteristica, l’argomento di non successo e, talora, il momento di debolezza della non utopstica Inghilterra.
Questa l’analisi, forse troppo sintetica, di un documento significativo del Rinascimento europeo, contributo indispensabile per riuscire a sbiadire la balorda falsificazione storica che, di quell’era, hanno tentato di dare opportunisti di ogni genere.