Vesuvio: lo sterminatore messo al rogo


Diciamolo subito: il Vesuvio, bruciato dalle fiamme e avvolto da nuvole di fumo apocalittico, fa male e indigna. Vedere il manto di verde variegato della pineta, piantata tra il 1939 ed il 1942 dalla Milizia forestale e dell’intero Parco Nazionale, nato nel 1995 e scrigno di veri e propri tesori minerari, floreali, faunistici ed enogastronomici della nostra terra, divorato dal fuoco che l’acqua dei Canadair sembra solo solleticare, nausea e tormenta con un dolore quasi fisico, chi assiste allo scempio.
Caratterizza tali frangenti, più di ogni disquisizione di stampo storico-sociale sulle motivazioni dell’accaduto (per l’analisi delle quali ci sarà tempo a volontà) una potente rabbia da parte di chi ama questa terra meravigliosa, fortunatamente una confortante maggioranza, contro la profonda inciviltà, ignoranza e cecità d’animo di pochi criminali. Più di tutto, si alimenta il desiderio che quel tappeto di nero bruciato ritorni subito fertile e florido, con i vigneti profumati di Lacryma Christi, di Catalanesca e di Caprettone in fila come allegri soldati, gli albicocchi e i susini a mettere in mostra le loro gemme, i pomodorini “spongilli” a dare passione, i piselli verdoni a mostrare le loro bucce lucide come festoni, il vocio di turisti e visitatori a ravvivare l’aria, quasi per tenersi buono il vulcano, per ammaliarlo con il sorriso e la vitalità e prolungarne il sonno.
Il Vesuvio è simbolo per eccellenza di Napoli; icona bifronte, poiché, oltre a serbare in sé la minaccia della distruzione (secondo Tertulliano era la sede del diavolo), nell’immaginario popolare, secoli fa come ai giorni d’oggi, assume anche le vesti più bonarie di baluardo e burbero guardiano che abbraccia il golfo e che, anche da lontano, funge da faro e punto di riferimento per i viaggiatori che si avvicinano alla città o che se ne allontanano. Spingendoci ancora più in là con l’immaginazione, un monito gigantesco a comportarci sempre secondo coscienza e onestà per non incorrere nelle sue ire, così come per le popolazioni antiche, secondo le quali la lava eruttata era una sorta di punizione da parte degli dei per condotte di vita non proprio ineccepibili. Non per nulla, il monte era chiamato anche Iuppiter Vesuvius.
Matilde Serao, con ispirazione mitologica, nelle sue “Leggende Napoletane”, pubblicate nel 1881, narrò di un bel ragazzo di nome Vesuvio innamorato di Capri, una dolce fanciulla che, osteggiata dai genitori e da loro allontanata dal proprio amato, si gettò in mare per la disperazione mentre il giovane, gonfio di ira e dolore, si trasformò in un vulcano.
L’etimo del nome “Vesuvio”, in realtà, è da riferirsi, secondo alcuni, alla dea Vesta ( protettrice, appunto, del fuoco e del focolare domestico), secondo altri alla radice sanscrita “vasu” (sempre “fuoco”), oppure a Vesbio, guerriero pelasgio abitante della zona prima della colonizzazione greca, ancora, alla radice ves che denota il campo semantico del fuoco. Folcloristico l’aneddoto legato al sacerdote, già sostenitore di Masaniello, Camillo Tutini che, durante l’eruzione del 1649, durata 102 giorni, invitò il popolo alla ribellione contro gli spagnoli usando come motto una rivisitazione del nome della “montagna” ( così come è chiamata da tanti abitanti del suo versante sommise) che trasformò in “vae suis” (guai ai suoi).
Prima della celeberrima eruzione del 79 d. C., che portò alla distruzione di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplonti, altre, più o meno violente seguirono l’inizio di una attività vulcanica risalente al Paleolitico superiore; dopo, essa continuò a manifestarsi in modo più silente fino all’evento eruttivo del dicembre 1631, che, nel giro di un paio di giorni, portò un numero imprecisato di anime, forse 10.000, alla morte, oltre a distruggere con veemenza il paesaggio circostante. Tra le successive manifestazioni del formidabil monte/ Sterminator Vesevus (G. Leopardi,”La ginestra” vv.2-3), quella del 1906 e l’ultima, del 18 marzo 1944, che causò 26 morti, e che, debitamente immortalata e ripresa dai cronisti di guerra, lasciò testimonianze visive concrete della sua potenza.
Virgilio (che, per primo, nelle sue ” Georgiche” usò il termine “Vesevo”) Plinio il Giovane, Tacito, Svetonio, il già citato Tertulliano, Floro, Apuleio, Galeno, parlarono del Vesuvio e non solo ne descrissero i fenomeni eruttivi, ma ne magnificarono la qualità del suolo, esaltando la bellezza dei luoghi vicini e alle pendici.
Nel XVIII sec., portati alla luce gli scavi di Pompei ed Ercolano e divenuta Napoli meta centrale del Grand Tour d’Europa, il vulcano diventa protagonista degli appunti di viaggio e delle epistole del Marchese de Sade, di Goethe, di Cechov, contribuendo a dare alla sua Napoli quell’alone di magia e di mistero, di unicità e di particolarità che, agli occhi del turista, è ancora oggi la caratteristica principale della nostra città.
Col passar dei decenni, l’aumento demografico e l’abbandono delle attività legate all’agricoltura hanno trasformato anche i sentieri del Vesuvio in teatro di abusi edilizi, tanto più gravi e clamorosi poiché perpetrati un una zona di elevata pericolosità, considerata l’eventualità di una futura, distruttiva eruzione che comporterebbe l’evacuazione di tutti i centri interessati al fenomeno.
Oltraggio ulteriore al territorio, le tante discariche abusive in cui, dopo la chiusura di quelle ufficiali, continuano a venire accumulati rifiuti di non bene identificata provenienza, anche tossici, le cui composizioni fluttuano in queste ore tra i fumi e le fiamme degli incendi.
Alla natura si comanda solo ubbidendole, scriveva Francis Bacon ed evidentemente chi ha causato il disastro cui stiamo ancora assistendo, con una prima stima sui danni subiti quantificata, per il momento, in 100 milioni di euro, non conosce tale assunto o non la pensa allo stesso modo. Idem per tutti coloro che, nel corso degli anni hanno calpestato la legge o ne hanno fatto un deprecabile uso personale disboscando e portando le ruspe dove si dovrebbero sentire solo il rumore dei passi sulle foglie, quello della pioggia e i versi degli uccelli.
Strabone di Amasea, vissuto tra il 60 ed il 21 a.C., nella sua Geografia, giunta fino ai giorni nostri gravemente monca e mutilata, impressionante (per l’epoca) testimonianza delle conoscenze dell’autore dalle terre d’Europa a quelle d’Asia, descrisse il Vesuvio come simbolo e baluardo di una sorta di paradiso in terra. Il faro di quella Campania Felix in cui era possibile il miracolo di più raccolti l’anno e della nascita e della riproduzione da una terra nera e ricoperta di cenere dalla quale attendiamo ancora il ripetersi dello stesso prodigio.