Scuola: il nemico non è il Covid-19


Classi pollaio e investimenti in calo nella scuola. Come si è arrivati ai problemi di oggi.
Un’interessante riflessione di Laura Calosso che Vittorio Bobba propone ai lettori di WeeklyMagazine.

Gli investimenti per la Scuola e l’Università si confermano in calo, soprattutto al Sud. La notizia non è di oggi, risale al novembre 2019, quando è stato pubblicato il rapporto Svimez  sull’economia e la società del Mezzogiorno. È interessante leggere adesso questi dati, perché evidenziano come il Covid-19 non sia la causa di ogni male, bensì una lente di ingrandimento sugli enormi problemi che l’Italia aveva già sul fronte  Sanità e Scuola.
Dalla ricerca emergeva chiaramente che nel 2019 la spesa per l’istruzione era stata ridotta del 15% a livello nazionale, con punte del 19% nel Mezzogiorno e del 13% nel Centro-Nord. Proseguiva anche il trend negativo dell’abbandono scolastico: nel 2018 i ragazzi che al Sud avevano lasciato la scuola erano il 18,8% a fronte dell’11,7% nelle regioni del Centro-Nord. Nel Sud emergeva anche che il 56% delle scuole necessitava di manutenzione urgente.
Il rapporto Svimez confermava in sostanza i passi indietro degli ultimi Governi in tema di Istruzione, situazione aggravata di anno in anno dalla riduzione del tempo pieno, dall’alto numero di docenti precari, in particolare di quelli dedicati al sostegno. Non a caso, nel dicembre 2019 l’allora Ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti rassegnava le dimissioni in polemica con il Governo, che nella legge di Bilancio non aveva destinato fondi adeguati alla Scuola.

L’Italia si trova infatti, non da oggi, all’ultimo posto tra i Paesi UE per la spesa pubblica destinata all’istruzione: 7,9% nel 2017, a fronte di una media europea superiore di quasi 3 punti percentuali. In sostanza, l’Italia spende in istruzione meno degli altri grandi Paesi Ue, sia in rapporto al Pil sia alla spesa pubblica totale, e il calo, dal 2009 in poi, è più veloce rispetto alla media europea. L’Ocse sottolinea che la contrazione della spesa non è dovuta né al calo demografico, né al minor numero di iscritti. Gli stanziamenti per l’Università ci allontanano ancora di più (in negativo) dalla media europea.
Il “risparmio” di questi anni ha riguardato anche la riduzione degli spazi scolastici e l’aumento progressivo del numero di alunni per classe. A metà febbraio, ben prima del lockdown, un’indagine dell’ANIEF (Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori) evidenziava come nelle scuole italiane persistesse, nonostante gli annunci di inversione di rotta, il fenomeno delle oltre 20.000 classi con più di 30 alunni, criticità dovuta – secondo ANIEF – all’innalzamento dei parametri della formazione delle classi, imposti dall’articolo 64 della Legge 133/2008 (Tremonti-Gelmini), che negli ultimi 12 anni ha cancellato o soppresso 4 mila istituti, tagliato 300 mila posti nel settore scuola, università e ricerca e dismesso 15 mila plessi scolastici. Questi edifici appartengono ancora allo Stato, ma non sono più utilizzati. Potrebbero essere ripristinati per diminuire a settembre il numero di studenti in ciascuna classe e rispettare così le regole sul distanziamento fisico anti-virus, senza ridurre l’orario delle lezioni, che danneggerebbe ulteriormente la preparazione dei ragazzi.

Le cosiddette “classi pollaio” sono un problema non da poco per la ripresa a settembre, mese che si annuncia “crudele” anche perché – secondo quanto conferma INPS – gli organici scolastici si assottiglieranno di circa 40 mila unità. Alla riapertura delle scuole saranno 29.900 gli insegnanti in meno, – 8.860 unità del personale ATA, – 446 insegnanti di religione, – 363 dirigenti scolastici e – 99 unità del personale educativo. In totale, saranno appunto 39.700 i lavoratori che, dal 1 settembre, andranno  in pensione. Dovranno essere organizzati in fretta i concorsi e ci saranno nuove assunzioni, ma la scarsità di tempo può risultare nemica quando si tratta di selezionare con cura figure importanti per la formazione.

E’ finita qui? No. Il rischio di una nuova (e controversa) ondata di contagio autunnale non permette di escludere una nuova chiusura delle scuole. In questo caso l’intenzione del Ministero è di tornare alla didattica a distanza (DAD), che ha peggiorato in questi mesi un già triste quadro di inclusione sociale. Le condizioni ambientali in cui vivono tanti ragazzi, non permettono loro di seguire le lezioni da casa. Secondo il rapporto ISTAT, pubblicato ad aprile, Spazi in casa e disponibilità di computer per bambini e ragazzi, solo nel 22,2% delle famiglie ogni componente ha a disposizione un pc o tablet; nel Mezzogiorno il 41,6% delle famiglie è senza computer in casa (rispetto a una media del Paese intorno al 30%), inoltre, più di un quarto delle persone vive in condizioni di sovraffollamento abitativo e la quota sale al 41,9% tra i minori. Per sopperire alle carenze, proprio in aprile sono stati acquistati devices da distribuire a chi non aveva strumenti, ma resta difficile per i ragazzi di famiglie disagiate collegarsi da casa, una modalità che costringe a mostrare ai compagni di scuola la propria misera condizione. Se non gestita bene, la DAD aumenta anche il rischio di isolamento, che non va incoraggiato, visti i dati già allarmanti del ritiro sociale (circa 100 mila giovani italiani sono Hikikomori). La DAD implica inoltre la presenza di familiari per assistere i più piccoli durante le lezioni, un problema non trascurabile in un Paese dove nel mese di marzo il crollo delle attivazioni di nuovi contratti di lavoro ha raggiunto quasi il 37%, con un impatto molto negativo sui contratti a tempo determinato (molto penalizzate le lavoratrici donne e i giovani).

Un altro tassello da tenere in considerazione nella costruzione dello scenario in cui si inseriscono i problemi della Scuola (al netto del Covid-19) è il record europeo che l’Italia detiene per numero di NEET (Not in education, employment or training), vale a dire giovani che non studiano, non lavorano e non seguono percorsi di formazione. La regione al primo posto è la Sicilia, con un’incidenza del 38,6% di NEET sulla popolazione. Un rapporto di Unicef Italia pubblicato nell’autunno 2019, evidenziava che nella fascia di età 15-29 anni il numero dei NEET era pari a 2.116.000, ovvero il 23,4% dei giovani (della stessa età) presenti sul territorio. Nel Nord Italia i NEET sono il 15,5%, nel Centro il 19,5% e nel Sud il 34%. La media europea è 12,9%.

Ma alla fine, potrebbe obiettare qualcuno, la Scuola è poi davvero così importante da giustificare tanta attenzione? Da decenni pare che la politica non la consideri al centro dei suoi pensieri e dunque il tema dell’istruzione non potrebbe essere vecchio e superato? Alla risposta si può giungere riflettendo su un fatto: in ogni epoca l’istruzione è stata uno strumento per migliorare la condizione sociale delle persone. Negli ultimi anni, da quando l’importanza della Scuola è passata in secondo piano, l’ascensore sociale, ovvero il processo che consente e agevola il cambiamento di stato sociale – il motore che nel Novecento ha garantito ai figli una condizione migliore rispetto a quella dei padri – si è fermato. E’ vero che anche altri fattori hanno contribuito a invertire questa felice rotta, ma è altrettanto vero che a dicembre 2019, le analisi di Banca d’Italia, ISTAT, Oxfam  convergevano su un punto: in Italia, chi nasce in una famiglia ricca rimane ricco e chi nasce in una famiglia povera rimane tale.

Se la scuola non tornerà al più presto una priorità condivisa, sarà l’ingiustizia sociale il tratto distintivo della nostra società.