Con Giotto e Klimt oggi il MART è ancora più S-Mart


(E LA S È SEMPRE QUELLA DI SGARBI).
Il Presidente coraggioso paladino di quattro ventenni d’arte italiana da riportare ai meritati onori con mostre di rara intelligenza.


Una splendida giornata di primavera, la struttura architettonica per la cultura più intelligente di Europa, dell’architetto Mario Botta, riceve luce da un azzurrissimo cielo trentino.
Luce di vera coscienza (non c’è luce senza coscienza, e noi solandri lo sappiamo bene, mentre ci può essere coscienza anche senza luce…) e la struttura, con la sua formidabile ragnatela geometrica che fa da fulcro alla cultura che è civiltà e società, attende di portarci, accanto a biblioteche e auditorium, all’interno dei suoi più preziosi ambienti, quelli dove l’architettura diventa cervello creativo, cioè le sale delle esposizioni del MART.
È lì dove si mostra quella intelligenza che è solo della mente umana. Infatti, non c’è intelligenza artificiale che possa, oggi e sempre, collegare significativamente Giotto e Klimt all’arte di oggi; e, forse, nemmeno Fausto Pirandello (con un grazie alla brava Daniela Ferrari, curatrice della bella antologica relativa) al primo riferimento mentale che le nostre associazioni libere possono produrre, il senso per lui del padre Luigi Pirandello, premio Nobel par la Letteratura 1934.
Nelle due superbe esposizioni che legano Klimt e Giotto alle arti italiane del 900 e oltre, l’intelligenza naturale, biologica, umana che è in grado di attuare questi psichedelici e geniali collegamenti è quella di un grande Presidente, Vittorio Sgarbi, voluto con tenacia dall’amministrazione illuminata di Fugatti, contro molti e con grande rischio politico (onore al merito, ce ne fossero, di amministratori così audaci!) e ostilità dei contropoteri ideologici.
Dal solido MART, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Sgarbi ha iniziato a irradiare una riorganizzazione estetica sul panorama della polverosa cultura italiana, prona a ideologismi capaci quasi di nascondere una importante stagione artistica della turbinosa varietà del Belpaese: l’arte con focus nella prima metà del XX secolo, i quattro ventenni che vanno dal 1880 al 1960.


Due i motivi di quest’oscuramento:
La compresenza global-occidentale celebratissima delle grandi avanguardie storiche che, rispetto a oltralpe, poco appiccicano nell’humus limico dello Stivale, quello diffuso. Alcuni, anche troppo sostenuti, vedi il lavoro di scouting del bravo Achille Bonito Oliva, non ci lasciano poveri delle derive del senso, della catarsi (il vero senso dell’arte…) dell’attività destrutturatoria di impressionismo, espressionismo, dadaismo, surrealismo, astrattismo, concettuale e arte delle nuove cave. Ma lo Stivale, e Sgarbi lo sa (oh come lo sa!) ha ancora per quasi tutto il 900 da elaborare una enorme ricchezza di complessità con gli stilemi noti… c’è molto lavoro per gli artisti consapevoli anche solo dell’avvento della fotografia per produrre catarsi originale, senza dover accedere al deragliamento dei sensi immaginato già nel mezzo XIX dal giovanotto Arthur Rimbaud.
Non c’è dubbio che altrove il fosso era da saltare, e al più presto. In Italia no: c’era ancora tanto da camminare per arrivare al fosso… E l’arte vera va in corrispondenza con la ricchezza della varietà semiologica circostante, non come la moda, soprattutto globale, che, semmai, ne è condizionata.
Dunque, la prima rimozione dei quattro ventenni è di origine cosmopolita-occidentale.
Seconda rimozione: quella politico-ideologica. Che Mascagni avesse un cattivo carattere e qualche interessuccio, che Sironi amasse le icone monumentali, che Marinetti amasse la guerra (soprattutto in bicicletta…), si può anche sostenere ma, scusate, per usare una frase di altrettanta memoria colorita e demonizzata (sempre meno della merda in scatola di Manzoni…), “chi se ne frega”! L’arte non è ideologia, mai. Sono due ambiti di creazione diversi. L’ideologia guida l’azione, semmai, e invece l’arte guida l’inazione, la meditazione, la stasi fisica, l’illuminazione figlia della fascinazione. Dopo l’evento dirompente della nascita della fotografia, che le toglie la memoria come istanza di rappresentazione, l’arte pittorica non è mai stata politica, nemmeno con “Mussolini a cavallo” di Sironi, Mao Tse Tung di Warhol, il realismo socialista sovietico.


Da sociologo incallito, con 50 anni di clinica societaria, interpreto la missione di Vittorio Sgarbi, al MART e non solo, come una missione epocale non soltanto per l’Italietta, bensì per l’umanità: l’arte italiana più diffusa in tutto il 900 e anche oggi è soprattutto para-figurativa. Ciò è vero pure nei tentativi di tutti quegli artisti che, come funghi non classificabili, sorgono ad ogni angolo dello Stivale. E che figurazione, amici, friends! La delicatezza del para-impressionismo macchiaiolo è dilagato dal tardo 800 ai giorni nostri con fasi rimosse di grande senso estetico: 1880-1900, 1900-1920, 1920-1940 (“Meglio parlarne il minimo…”, disse la censura, “quei ventenni preparano o rappresentano un’epoca scomoda…”) e ancora 1940-1960.
Quattro ere ventennali sommerse da battages giustificabili (1. sopra) e opportunistici (2. sopra). E cosa fa Sgarbi eroicamente? Smantella uno strepitoso secondo piano dell’edificio di Rovereto, dedicato alla figlia di 1., la contemporary, e ne fa un ulteriore organo digestivo di connessione storica italiana, di celebrazione di quei 4 ventenni di arte solo italiana, di grande, straordinario respiro e bellezza, riconoscibilità e fascino.
Chi, chi, non cade in catarsi davanti a Casorati, Chini, Modigliani, Sironi, Carrà, Marussig, Bocchi, Sartorio, Zangrando, adeguatamente presentati… e non volutamente marginalizzati per vaghe o meno assonanze politicoidi che nulla (nulla) hanno a che fare con l’Arte…
Di questo se ne erano accorti anche a Milano, dove le amministrazioni di Sala, in particolare la ex-direttrice del Museo del 900 Montaldo, hanno lavorato abbastanza bene. Lì, in epoca favorevole, lo Sgarbi-genio non ha attecchito anni fa con amministrazione compatibile; malgrado ciò, le amministrazioni di centrosinistra hanno avuto il coraggio di iniziare, con “ovvia” cautela programmatica ed estetica, questo lavoro missionario (sic) della riemersione dei quattro ventenni italiani. Ad esempio, il Sironi della grande antologica del Museo del 900 era stato accuratamente mutilato di tutta la semiologia fascista, che nell’Arte però non è mai propaganda ma semplice uso di materiale semiologico disponibile. Inoltre, formule come “Realismo magico”, pur belle, non mi hanno mai convinto: la magia non c’entra proprio nulla con l’arte davvero saussuriana dei 4 ventenni italiani. Semmai la magia è propria della contemporary nostrana, alla ricerca spasmodica di stilemi ed emozioni avulse dal referente e masochisticamente innamorate dell’oscuramento delle origini e del patrimonio di enorme varietà dell’Italia.
Le due mostre “Giotto e il Novecento” e “Klimt e l’arte italiana”, cioè i suoi contemporaneismi italici, vanno intese come due capitoli di un discorso molto importante e coraggioso del bravo Vittorio: il primo, mostra come Giotto, “il” maestro per eccellenza della figurazione moderna pre-fotografica, sia lezione viva anche nel 900 italiano (che è come dicevo prevalentemente figurativo) e il secondo capitolo, Klimt, mostra come la sensibilità simbolica iperriflettuta dell’austriaco sia recepita dal simbolismo italiano, pronto a interpretare, intuire nuove forme per intessere l’immenso patrimonio con nuovi equilibri di referente-significato-significato visivo (pittorico).
Nella mostra con Giotto, la Cappella degli Scrovegni ricreata come effetto d’entrata, ci collega immediatamente all’idea espositiva, ove il blu-dipinto-di-blu (giottesco e ricchissimo) di questo momento iniziale sta a dire: lasciate ogni speranza o voi ch’entrate, da qui in poi vi accompagna lo spirito di Giotto. Ma se volete proprio incontrare lui, andate a Padova: qui a Rovereto viaggerete nel “senso di Giotto”, che è a maggior ragione catarsi, cioè vita vera, non fastidiosa erudizione e nozionismo. E il risultato è dirompente: tocca il DNA dei 4 ventenni.
Nella mostra con Gustav Klimt, il mio lontano parente tosco verace Galileo Chini giganteggia meritatamente, accanto al veneto Zecchin, al piemontese Casorati, al milanese Wildt, al triestino Marussig, all’emiliano Bocchi, al fiorentino Bargellini, al romano Sartorio… Cioè, mezza Italia vede in Klimt un emblema, ma non necessariamente un ispiratore: il familiare uso delle varietà, propria ricchezza del simbolismo, è patrimonio incontestabile della molteplicità italica e in Klimt le suggestioni auree della prima decade del 900 non possono essere apprezzate se non alla luce delle eco bizantine di Ravenna e dello splendore veneziano… Gustav non viaggia molto fisicamente: l’ambiente viennese a cavallo di XIX e XX secolo è fervido, e fecondo non solo di Freud: vi giunge molta semiologia italica, drenata da un solido rapporto politico, interrotto poi dal Risorgimento a guida savoiarda. La attualità di Klimt nel tessuto contemporaneo è anche dimostrata dalla elaborazione digitale della celeberrima Giuditta in mostra da parte dell’artista digitale Antibrote, ove la tempesta del cuore infrange la struttura dell’opera e si ricompone in un cupo senso di violenza.
La svolta impressa al MART dalla guida sgarbiana è di grande risultato, già ora: pubblico moltiplicato, mostre eccellenti di concept e opere. Finalmente le strategie espositive veicolano un messaggio pregiato e costruttivo, mirato a ridare identità a una cultura italiana cui erano stati tolti 4 ventenni.
Merito del Presidente: il MART è ancora più S-MART, e la S è sempre quella di Sgarbi.