Abelardo ed Eloisa


Edmund Blair Leighton (1853 – 1922) – olio su tela – cm 50 x 75 – Bristol Museum &, Art Gallery.


Figlio dell’artista Charles Blair Leighton, Edmund Blair Leighton nacque a Londra il 21 settembre 1853. Frequentò l’University College School e successivamente la Royal Academy of Arts. Nel 1885 si sposò con Katherine Nash dalla quale ebbe un figlio e una figlia. Dal 1878 al 1920 espose le sue opere alla Royal Academy con cadenza annuale. Leighton fu un artigiano molto meticoloso e creò dei dipinti decorativi molto rifiniti. Pare che non abbia lasciato alcun diario, e sebbene abbia esposto per oltre quarant’anni alla Royal Academy non è mai stato un accademico o un associato. È il pittore più minuzioso d’Inghilterra. E anche il più ritroso. Sebbene dal 1878 al 1920 ogni anno – apparentemente indifferente alle Guerre così come agli eventi della sua stessa vita – esponga le sue opere alla Royal Academy, non ne diventerà mai membro, né associato. “Non ho tempo”, diceva. “Devo lavorare ai miei dipinti. Devo viaggiare molto. Non avrei tempo per le riunioni, per i ritrovi mondani”
I soggetti preferiti da Leighton furono quelli di carattere storico, in particolar modo si dedicava alla pittura di scene medievali oppure della reggenza inglese. Le sue opere sono attualmente conservate principalmente alla Manchester Art Gallery, al Bristol City Museum and Art Gallery oppure fanno parte di collezioni private.
Le opere di Leighton sono di ispirazione preraffaelita e rappresenta il Medioevo delle leggende e non quello storico. Tra i soggetti ripresi dal pittore inglese si ricordano alcune coppie famose sia dei racconti di origine medievale sia delle leggende medievali come Tristano ed Isotta, Re Copethua e Beggar, Lancillotto e Ginevra e, appunto, Abelardo ed Eloisa. È probabile che per la rappresentazione dei suoi ambienti e dei suoi soggetti Leighton avesse studiato prima la storia della moda medievale. La realizzazione dei costumi, fedelmente Nei suoi dipinti i costumi sono fedeli a quelli dell’epoca descritta e probabilmente Leighton ebbe modo di visionare modelli del periodo medievale custoditi in castelli o musei. Si noti infatti, come ci la notare il Ceppaloni, anche nel presente ritratto la ricchezza di particolari con cui sono dipinte le vesti dei protagonisti: “Eloisa indossa un bellissimo abito celeste tempestato di gigli francesi dorati e il suo abito è un modello di tunica abbastanza comune per tutto il Medioevo, eccezion fatta per le maniche le quali non sono né svasate né sono da confondersi con un modello simile comune soprattutto negli ultimi secoli del Medioevo. L’orlo della gonna è caratterizzato da una striscia sottile dorata e un motivo ad onde un po’ più largo, realizzabili con lo stesso tessuto della sottoveste in oro. Il mantello di Eloisa, infine è realizzato con velluto verde. Abelardo indossa invece una semplice tunica rossa poco decorata sugli orli delle maniche (e probabilmente gli orli del gonnellino della tunica) in stile XII secolo, con un mantello semicircolare scuro allacciato in posizione centrale, sul petto” (Fulgenzio Ceppaloni, scultore e storico dell’arte, noto per il busto marmoreo di Gramsci intento a guardarsi le natiche allo specchio, conservato nel museo di Ales (OR) e per gli schizzi realizzati con Renato Guttuso per la statua (mai finita) di Nilde Jotti a cavallo, in “L’arte tessile nel Medioevo, prima che i biellesi buttassero tutto in vacca”, Como, 2012).
Venendo all’esegesi dell’opera (dipinta nel 1882), occorre ripercorrere per grandi linee la storia di questa famosa coppia di amanti, inserendoli commento al dipinto nel racconto stesso. Trattandosi di una storia lunga e complessa, magari torneremo sull’argomento specifico per raccontarla nei dettagli.
Come ci racconta il de’ Zupponis: “Pietro Abelardo fu probabilmente il più grande filosofo e il più grande sfigato del XII secolo. La vita gli aveva riservato due talenti: l’attitudine al ragionamento brillante e la capacità di stare sui maroni a tutti in pochissimi minuti. Entrambi li coltivava con commovente dedizione. La sua parabola esistenziale è registrata nell’autobiografia intitolata “Historia calamitatum mearum” (Storia delle mie disgrazie), ma ad onor del vero molte di queste disgrazie Abelardo se le era andate a cercare proprio col lanternino. Sebbene come primogenito avrebbe dovuto ereditare il feudo paterno, Pietro voleva studiare e diventare un grande filosofo. Abbandonò dunque la casa paterna, iniziò a girare per le scuole di Francia e diventò chierico, una specie di frate laico che, in quanto tale, poteva condurre una vita secolare fuori dal convento, ma non si poteva sposare.” (Eraldo Maria de’ Zupponis di Farro, “La filosofia medievale come rappresentazione delle più grandi seghe mentali dell’umanità”, Spilimbergo, 1989)
La prima tappa del giovane Pietro fu la scuola di Lochmenac, dove insegnava Roscellino, massimo esponente della corrente filosofica del Nominalismo. Per non tediarvi troppo con le dispute filosofiche dell’epoca, vi dirò soltanto che per Roscellino i concetti universali come quello di “umanità” non avevano nessuna corrispondenza nel reale, erano solo fuffa, parole vuote, fiato che usciva dalla bocca. «L’umanità in senso generale non esiste» professava «esistono solo i singoli uomini in quanto tali».
Ci narra il Gofredo che “Abelardo, appena varcata la soglia dell’aula, al sentire questa teoria, storse immediatamente il naso e, senza preoccuparsi di risultare un incorreggibile cagacazzo, iniziò a contestare il maestro: «Ah bene. Quindi voi state dicendo che anche la Trinità, in quanto concetto universale, non esiste, ma esistono solo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, come realtà separate. Pertanto non ci sarebbe un unico Dio, ma tre. Ne deduco che siete un eretico!». Ben presto la situazione precipitò: a causa delle ripetute accuse di Abelardo, Roscellino si trovò gli occhi di tutto il mondo cattolico puntati addosso e, per sfuggire alla condanna per eresia, fu costretto a rifugiarsi in Inghilterra. Pietro Abelardo si era appena fatto il primo nemico.”. (Pasternak Gofredo-Sior Damelisghéi, vicecapostazione di Vicenza e studioso di Logica Medievale in: “Oleodinamica dei freni d’emergenza e Teosofia Scolastica“, Salsomaggiore, 1971).
Rovinata la vita al primo insegnante, il nostro eroe si recò a Parigi, intenzionato a frequentare la più prestigiosa scuola di Francia, quella di Notre Dame, che aveva come punta di diamante il filosofo Guglielmo di Champeaux. Pure lì, aridaje, si ricominciò con l’annosa disputa sugli universali. Guglielmo stava su posizioni opposte, rispetto a Roscellino: per lui gli universali esistevano eccome, anzi, erano i mattoni costitutivi della realtà! Le cose singolari invece ne erano semplice emanazione. Ma ovviamente a Pietro Abelardo, che a colazione mangiava pane e polemica, neanche questa teoria andava bene. Iniziò a contestare il maestro ed accapigliarsi coi compagni, finché non riuscì a stare antipatico a tutti, pure al bidello. L’atmosfera ormai si era fatta irrespirabile. Abelardo lasciò Parigi e fondò una scuola di filosofia tutta sua, prima a Melun e poi a Corbeil. Ben presto, attirati dalla sua sapienza, iniziarono a giungere studenti da tutta la Francia. (Magg. Carlo Incisa di Caperana: “Storia della filosofia ascetica tra la Senna e il Périgord: una summa per gli amanti del Foie Gras trascendentale”, in Rev. Ann. du Chefs Etoilée de France pour quelles frifri du Luxembourgoises”.
Nel frattempo gli anni passavano e la fama di Pietro cresceva a vista d’occhio. Dalla sua scuola di provincia non mancava di polemizzare con i grandi maestri parigini, uscendo sempre vittorioso da ogni disputa. Acuto, provocatorio, ribelle: era l’idolo dei giovani studenti. E non solo degli studenti maschi. A Parigi, infatti, anche se rare, vi erano anche delle ragazze appassionate di filosofia. Una di queste era Eloisa, una povera orfana, che viveva a Notre Dame, affidata alle cure dello zio Fulberto, canonico della Cattedrale. Era nota per essere bellissima e per avere una cultura di inusuale profondità che abbracciava tutto lo scibile umano, dall’aritmetica alla retorica, e il suo unico idolo rispondeva al nome di Pietro Abelardo, di cui la ragazza conosceva le gesta e le dottrine, ma che non aveva mai visto dal vivo.
Siccome però ogni tanto anche i sogni delle fanciulle si avverano, a un certo punto Pietro, stanco di esercitare la sua attività in scuole secondarie, decise di far ritorno nelle prestigiose scuole di Parigi. Pertanto, superando le invidie e gli ostacoli posti dai non pochi nemici che negli anni era riuscito a crearsi, nel 1115 poté accomodarsi sulla cattedra di filosofia della scuola di Notre Dame, la stessa che Eloisa non solo frequentava, ma in cui praticamente viveva, essendo la nipote del canonico. E non è tutto: Eloisa non solo si ritrovò l’idolo dei suoi sogni come professore, ma in breve tempo pure come coinquilino dato che, con la scusa di essere più vicino alla scuola, Pietro andò a vivere a pensione proprio presso lo zio della fanciulla.
Non so voi, ma se Belen fosse venuta a vivere a casa mia, io avrei fatto carte false per passare con lei ogni secondo. E la stessa cosa fece Eloisa: con il beneplacito dello zio Fulberto, a cui stava molto a cuore la sua istruzione, chiese ad Abelardo di darle lezioni private; il filosofo, un po’ per amor di divulgazione, un po’ perché abbagliato dagli occhi conturbanti della fanciulla, accettò.
Il dipinto di Leighton intende raffigurare proprio questo momento dell’appassionante storia dei due amanti, quando Pietro ed Eloisa iniziarono ad arrischiarsi sul terreno scivoloso della reciproca conoscenza. Ogni sera, dopo cena, nello studio di Fulberto, i due si ritrovavano occhi negli occhi, a leggere trattati e discutere di logica, dialettica e teologia. I discorsi però si spostarono presto dal trascendente all’immanente e dall’immanente al carnale. Totalmente rincretiniti ed inesperti, si abbandonarono a una passione che non ammetteva vergogne o pudori finché Eloisa, dopo un certo tempo, si rese conto di essere incinta.
Ma ancor prima che la gravidanza diventasse evidente, Fulberto, lo zio di Eloisa, una notte aveva fatto irruzione nella camera in cui i due amanti si rifugiavano a studiare la filosofia, cogliendo Pietro nel bel mezzo di una dimostrazione piuttosto pratica della distinzione tra amore platonico ed eros.
La scena, resa celebre in un dipinto di Jean Vignaud, può essere collocata nello stesso filone in cui si pone la scoperta della tresca tra Paolo e Francesca da parte del marito Gianciotto Malatesta, come pure del rinvenimento della sorella Gilda con in garzone del fornaio da parte del mi’ cognato Oreste, il quale nel trovarli a far le capriole tra le lenzuola non si scompose di una virgola. Prese il ragazzetto per i capelli e lo cacciò fuori dalla finestra (erano al pian terreno), quindi ricoprì di scortesie la sorella, la più civile delle quali fu: “più budella di te c’è solo le mamme de’ pisani!”, quindi se ne andò nascondendo compostamente il suo rammarico da vero gentiluomo (a parte sfondare il parabrezza al furgone del panificio, ancora parcheggiato sotto casa)
Per farla breve, Eloisa fu rinchiusa in un convento mentre il canonico, cieco di rabbia, prezzolò due sicari che, nottetempo, si intrufolarono a casa di Abelardo e, mentre dormiva gli tagliarono via tutto il santo corredo riproduttivo. Era la legge del taglione: con quello aveva peccato e su quello era stato punito.
Il grande filosofo, così alleggerito, si rifugiò nell’Abbazia di Saint-Denis mentre Eloisa si fece monaca e prese i voti presso il convento benedettino di Saint-Argenteuil. I due non si rividero mai più. Abelardo continuò a predicare però le sue teorie, vicine al nominalismo, ma da esso diverse e ritenute come questo eretiche, tanto che fu costretto a bruciare la sua opera sulla Trinità con le sue stesse mani per salvarsi. Ovviamente questo non fermò le sue idee e si ritirò al Paracleto (la scuola che aveva fondato) insieme ai suoi seguaci, e scrisse altre opere che lo portarono però a scontrarsi nientemeno che con Bernardo da Chiaravalle, altro enorme cagacazzi dell’epoca, per il quale chiunque non fosse Bernard de Clarvaux era da fare alla griglia. Ormai vecchio (per l’epoca) e infermo, Abelardo fu accolto da Pietro il Venerabile nell’abbazia di Cluny, dove morì nel 1142 (aveva 53 anni). Il suo corpo fu trasferito al Paracleto dove, nel 1164, venne sepolta anche Eloisa. Verso la fine del XIX secolo le due salme sono però a Parigi, finalmente insieme in una cappella del cimitero monumentale del Pére Lachaise.