Inverosimilmente un “grande” (2a Parte)


Si è detto, nella parte precedente, che in quella Venezia del Settecento, tali particolari “quadriglie”, molto in voga, non scandalizzavano nessuno. E quindi, sicuramente, non fu certo per avervi preso parte, che Giacomo Casanova cadde nelle maglie del Sant’Uffizio. Presentato come un parassita e corruttore di minorenni, nel registro del segretario dell’Inquisizione, in data 21 agosto 1755, si parlava di “gravi offese commesse dal Casanova soprattutto alla nostra Santa Religione [lett.]”. La vera causa del suo arresto, in realtà, fu la corte troppo assidua fatta all’amante di Antonio Condulmer, uno dei tre inquisitori, che gli costò tre anni di Piombi. Chi metteva piede in quella famigerata prigione, raramente ne usciva vivo. La volta delle celle era così bassa, che un detenuto non poteva stare in piedi. Il pagliericcio, rosicchiato dai topi ed invaso dalle cimici, era l’unico suppellettile. Appena vi fu rinchiuso, Giacomo cominciò, con ossessione, ad architettare la fuga. Scrisse, infatti, più tardi, nelle sue “Memorie”: “Ho sempre pensato, che quando un uomo si ficca in capo di riuscire in qualche progetto, deve aver successo, malgrado ogni difficoltà [lett.]”.
E rieccolo a Parigi. Andò a trovare il vecchio amico de Bernis che, nel frattempo, grazie alla protezione della donna francese più potente del XVIII Secolo, la celeberrima Madame de Pompadour, aveva fatto un’impressionante carriera, ed era, anche lui, diventato uno degli uomini più in vista di Francia. Accolse Giacomo con grandi feste, presentandolo come un esperto di questioni finanziarie. Quella sua importanza acquisita, lo portò ad incontrare l’imprenditore Joseph Paris-Duverney, che in quel momento era alla disperata ricerca di cento milioni di franchi, per costruire e fondare École Militaire, ma non osava chiederli al Re. Casanova, con entusiastica sicurezza, gli confidò di avere un piano per racimolare l’enorme somma, senza ricorrere all’erario. Il progetto consisteva in una lotteria, che il governo approvò, nominando Giacomo esattore ed assegnandogli sei botteghini. Lui se ne tenne uno e mise in vendita gli altri cinque, per diecimila franchi.
Il suo secondo soggiorno parigino durò, con varie interruzioni, cinque anni, durante i quali compì per conto del governo francese varie missioni, non sempre chiare. Nel 1763 si trasferì a Londra per organizzare una lotteria, sul modello di quella parigina, ma il progetto andò in fumo. Nella capitale inglese ebbe numerose avventure galanti, non tutte a lieto fine. La più travagliata fu quella con una prostituta, figlia e nipote di prostitute, tale Marianna Charpillon, che non solo gli carpì un mucchio di denaro, ma lo tradì con un barbiere. Il grande seduttore si comportò, in quell’occasione, come tutti gli innamorati…cornuti. Le fece una furiosa scenata, poi la perdonò ed infine, poiché la donna continuava a tradirlo spudoratamente, decise di togliersi la vita, gettandosi nel Tamigi. All’ultimo momento, l’intervento di un amico, lo dissuase. Rimasto completamente al verde, cercò di rifarsi con il gioco d’azzardo, ma la fortuna lo arrise solo a metà. Vinse cinquecentoventi ghinee ad un certo barone Stenau, che lo pagò con un assegno falso e gli procurò un mare di guai. Prese un’infezione venerea dall’amante del citato barone, della quale, tra una puntata e l’altra, aveva goduto i favori. Disperato, decise di cambiare aria e tornarsene sul Continente. A Berlino, fu ricevuto alla corte di Federico II di Prussia, a Mitau, attuale città lettone di Jelgava, incontrò l’Ambasciatore russo Hermann Karl von Keyserling, che volle lo seguisse, per compagnia, a San Pietroburgo. Lì, dove soggiornò nove mesi, fece amicizia col fior fiore dell’intellighenzia e del gotha locali. Ed a Varsavia fu presentato al sovrano polacco Stanislao Poniatowski. Raramente si fermava in un Paese o in una città, per più di qualche mese. La sua fama di baro e di spia, che correva veloce come il vento, gli imponeva soggiorni brevi. I governi di tutta Europa non lo vedevano di buon occhio e le gendarmerie non lo perdevano mai di vista.
Ad un certo punto, fu assalito dalla nostalgia della sua Venezia, ma come tornarci? Si ricordò di aver letto di recente una pubblicazione dal titolo “Storia della Serenissima”, la quale era intrisa di insulti e di calunnie contro la sua città. Se ne procurò una copia e ne ricompose una rivalutazione, in tre volumi, che riuscì a far stampare a Lugano. L’edizione andò letteralmente a ruba. I Reggenti della Repubblica la lessero, se ne compiacquero, l’apprezzarono, ma non mossero un dito a suo favore. Dovette, così, pazientare ancora cinque anni, vagabondando per l’Italia. A Livorno tentò, invano, di arruolarsi nella flotta mercantile russa ed a Napoli incontrò una vecchia amante, Lucrezia e la figlia Leonilda, avuta da costei. Paradossalmente, il marito della giovane, un nobile locale, mosso a compassione dalla sua indigenza, gli restituì i cinquemila ducati di dote che, nove anni prima, Giacomo aveva dato alla bambina.
Da Napoli passò a Roma e poi a Firenze, da dove fu espulso per cattiva condotta. Riparò a Bologna e vi rimase nove mesi, dividendosi imparzialmente tra alcove e biblioteche. Inoltre scrisse un saggio “sull’influenza esercitata dagli organi sessuali sul carattere femminile”, che gli fruttò ben cento zecchini. A Trieste si guadagnò da vivere scrivendo, su ordinazione, poesie encomiastiche e facendo piccoli favori, sia al governatore asburgico che al console veneziano. Riuscì, tramite ciò, ad ottenere dalle autorità austriache, che il Postale Trieste-Venezia fermasse anche a Udine, ed a persuadere certi monaci armeni, che avevano abbandonato la Serenissima, a farvi ritorno. Finalmente, dopo diciotto anni, poté rimettere piede in patria.
Gli amici lo accolsero con grandi feste, le signore fecero a gara per concedergli le loro grazie, i vecchi protettori Barbaro e Dandolo gli assicurarono un piccolo sussidio mensile di dodici zecchini. Per arrotondarlo, Giacomo si arruolò come spia al servizio dell’Inquisizione, di cui era stato ferocemente vittima. Nel 1779 conobbe una modesta sartina, Francesca Buschini, che viveva con la madre ed un fratello. Se ne invaghì, affittò una casetta nel particolarissimo quartiere di Barbaria delle Tole e vi si istallò con l’intera famiglia. Francesca era una ragazza sana, semplice, remissiva, senza grilli per la testa, altruista e devota. Insieme trascorsero nove anni, nove anni grigi, tribolati, amareggiati dai creditori, scanditi dall’accidiosa routine di una vita piatta e pantofolaia. A spezzarla bruscamente fu la pubblicazione di una cruda satira, “Né amori, né donne”, in cui Casanova dimostrava che il patrizio Carlo Grimani, rampollo di una delle famiglie più potenti della città lagunare, era, come lui, figlio bastardo di un certo padrino Michele. Il libello scatenò un putiferio tale, che l’autore, memore delle esperienze passate, fece in fretta e furia fagotto ed abbandonò Venezia. Non l’avrebbe mai più rivista.
Per anno vagò per l’Europa, vivendo di sovvenzioni di amici e di impieghi saltuari. A Vienna, l’ambasciatore veneziano Sebastiano Foscarini, lo assunse come segretario. Nel febbraio del 1784, in casa del diplomatico, conobbe il conte Giuseppe Carlo di Waldstein, discendente del grande Wallenstein, accanito giocatore d’azzardo ed ancor più accanito cultore di magia. Giuseppe e Giacomo simpatizzarono subito, e quando il Conte gli offrì il posto di primo bibliotecario nel suo castello boemo di Duchov, con uno stipendio di mille fiorini, Casanova non se lo fece ripetere due volte. In quel luogo passò gli ultimi tredici anni della sua vita, isolato dal mondo, senza donne ed amici, leggendo e scrivendo dalla mattina alla sera, snobbato da tutti e, perfino dal Conte che, quando aveva degli ospiti, lo confinava addirittura in cucina, con la servitù.
L’uomo che aveva deliziato il mondo con la sua scintillante ed inesauribile conversazione, che era stato ricevuto da re e regine, che aveva avuto ai suoi piedi le più belle donne del tempo, che aveva fatto parlare di sé tutta l’Europa, si era trasformato in un vecchio orso, scontroso, misantropo, ipocondriaco, pieno di pregiudizi, di acciacchi, di manie, uno che si adombrava per un nonnulla e per un nonnulla “prendeva cappello”. La sua belle époque era durata mezzo secolo. Poi il lento, triste, inesorabile tramonto, confortato dai ricordi e adombrato dai rimpianti. Quando, il 4 giugno 1798, scese nella fossa, Il grande Giacomo Casanova era già morto da vent’anni.
Sì, fu un baro, una spia, un imbroglione, un falsario, ma anche un perfetto cavaliere, un gran signore, uno straordinario giornalista, uno scrittore di razza. Fu il vero italiano del Settecento, apolide e cosmopolita, condannato ad una vita corsara dalla mancanza di una patria, di una società, di una fede e di una morale.