Una Brusca sterzata buonista


E’ la notizia della settimana quella del ritorno in libertà di Giovanni Brusca, ‘u verru (il maiale), l’autore della strage in cui morirono il giudice Falcone con la moglie e la loro scorta, reo d’aver sciolto nell’acido un bambino.

Brusca fu arrestato il 20 maggio del 1996. Intorno alle 21.30 una motocicletta smarmittata percorre le strade di Cannatello, un borgo costiero dell’agrigentino che in quei giorni è praticamente disabitata. E invece dentro una villetta con le serrande chiuse ma con la televisione accesa pare ci sia il boss in cima alla lista dei superlatitanti, Giovanni Brusca, soprannominato “‘u verru” (il maiale), l’uomo che ha premuto il telecomando della strage di Capaci. Con lui c’è il fratello Enzo, anche lui ricercato, insieme alle loro mogli e a tre bambini. La casa è sorvegliata da tempo, ma non c’è la certezza che il boss si trovi proprio lì e la polizia vuole evitare di perdere mesi di lavoro mettendolo in allarme. Brusca sta parlando al cellulare quando davanti alla villetta passa la moto a tutto gas. Il rumore assordante di quel tubo di scappamento privo di silenziatore viene udito distintamente nella sala intercettazioni della Questura di Palermo da Renato Cortese, investigatore di razza, il “cacciatore” che dieci anni dopo riuscirà a catturare anche il capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano . È la conferma che Brusca si trova proprio in quella villetta. Cortese dà il via ai suoi uomini, che in pochi istanti fanno irruzione all’interno della villa.
Sono passati 25 anni da allora e oggi Brusca a 64 anni è di nuovo un uomo libero (anche se per quattro anni sarò in libertà vigilata).
A lui e alla sua famiglia sono stati assegnati una nuova identità, una rendita e una nuova casa in una località ignota, dove potrà cercare di ricostruirsi una vita nonostante il peso degli oltre 150 morti che ha sulla coscienza. Brusca è stato anche responsabile del rapimento del piccolo Giuseppe di Matteo, che per suo ordine fu ucciso e sciolto in un fusto di acido nitrico 778 giorni dopo da suo fratello Enzo con Vincenzo Chiodo e Giuseppe Monticciolo.
Ho letto la dichiarazione di Chiodo al processo. Chi volesse mettere alla prova il proprio stomaco trova il testo su wikipedia alla voce “Omicidio di Giuseppe Di Matteo“. Non me la sento di trascriverla: è troppo cruda, una narrazione impersonale, come se stesse parlando delle pulizie di Pasqua. Pensare che esseri che si credono uomini, veri uomini, si posano macchiare di delitti così efferati fa accapponare la pelle anche a un divano. La descrizione dell’omicidio di un bambino viene raccontata ai giudici con la naturalezza di chi ha macellato il maiale nel cortile di casa, ha fatto i salami e ha cotto il grasso per fare i ciccioli.
Lo stesso Brusca, che non sa (o non vuole) ricordare i nomi di tutti quelli che ha ammazzato, da la misura di cosa fosse e di cosa ancora oggi è la mafia.
Non bisogna credere che sia un fenomeno locale. La ‘ndrangheta calabrese è stata recentemente definita come la più pericolosa e spietata tra le mafie nel mondo, ma non pensiate che la sacra corona unita a Foggia e a Bari sia meglio, né tantomeno la camorra. Pasquale Barra detto ‘o nnimale, accusatore di Enzo Tortora e il favorito di Raffaele Cutolo, aveva ucciso nel carcere Badu ‘e Carros di Nuoro il bandito milanese Francis Turatello e gli aveva mangiato il cuore.
La mafia russa e quella georgiana si fronteggiano da decenni nella sfida a chi commette le peggiori atrocità, così come la Yakuza in Gippone e la Triade cinese.
Tutto il mondo è paese, dunque. Pare proprio che i più feroci e crudeli assassini facciano a gara per affiliarsi a questa o a quella famiglia mafiosa. Brusca non fa eccezione e ora che è fuori dal carcere c’è da chiedersi se il suo pentimento sia stato genuino o motivato unicamente dal veder cancellata sul suo dossier la terribile dicitura “fine pena: mai”.
La sorella di Falcone ha accettato la sua scarcerazione come un’ineluttabile necessità voluta da quella legge che porta il nome di suo fratello, la quale ha permesso certamente di smantellare una buona parte dell’edificio mafioso, ma che non riesce a convincere il comune cittadino della sua efficacia e della sua giustizia.
Brusca ha chiesto il perdono ai famigliari delle sue vittime. Come osa? Tutt’al più che chieda pietà. Pietà per essere il mostro che è, per non avere dimostrato un briciolo di umanità, per aver fatto uccidere un bambino, per aver personalmente ucciso una ragazza incinta, per aver premuto tasto del telecomando che il 2 maggio del ‘92 fece saltare fino al cielo l’asfalto di Capaci. Oltre, naturalmente, a tutto il resto dei suoi delitti. Non può. Non deve chiedere scusa. La sua richiesta è un insulto per i parenti dei morti, per i genitori del piccolo Giuseppe, per i figli dei giudici Chinnici, Falcone e Borsellino e per tutti gli italiani onesti.
Ora è libero, godrà di una casa e di mille euro al mese di rendita da parte dello Stato (cioè da parte nostra, vorrei rimarcare!); altri mille andranno alla sua famiglia. Personalmente il fatto mi offende. Quel giudice sarà stato un ottimo magistrato, ma se ha scritto una legge così comprendiamo perché di cognome facesse solo Falcone e non Aquila. In realtà la cosa è più laida: la cosiddetta “Legge Falcone” da lui voluta fu scritta a Roma in politichese e votata tra mille correzioni da un Parlamento che non era certamente alla sua altezza. Si arrivò quindi all’emanazione del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, che venne a sua volta modificata dalla legge 13 febbraio 2001 n. 45, che modificando la norma del 1991, ha introdotto la figura del testimone di giustizia. Il testo della legge del 2001 andò a riformare l’originaria disciplina risalente al 1991, infatti, ferme restando le riduzioni di pena e l’assegno di mantenimento concesso dallo Stato, le modifiche approvate sono sostanziali, tra queste:
un tempo massimo di sei mesi di tempo perché il pentito dica tutto quello che sa, il tempo inizia a decorrere dal momento in cui il pentito dichiara la sua disponibilità a collaborare; il pentito non accede ai benefici di legge immediatamente ma solo dopo che le dichiarazioni vengano valutate come importanti e inedite Egli inoltre dovrà scontare almeno un quarto della pena e la protezione durerà fino al cessato pericolo a prescindere dalla fase in cui si trovi il processo.
Possiamo dire che in casi “normali” l’idea è accettabile. Il patteggiamento non è una novità e questa norma raccoglie anche il testimone dell’immunità e alle riduzioni di pena concesse negli U.S.A. a chi collabora con la giustizia. Ma Brusca non è un caso normale: io non voglio vivere in un Paese dove un individuo del genere viene rimesso in libertà. Non me lo merito, e so che nessuno sente di meritarselo, ad eccezione (forse) dei suoi famigliari).
La pena deve essere l’ergastolo. Brusca avrebbe dovuto uscire dal carcere con le stesse modalità di Riina: con i piedi in avanti. Questa legge NON è quella voluta da Giovanni Falcone: è un’accozzaglia di buoni propositi mal espressi che ha provocato danni nell’ultimo ventennio.
E va cambiata. Adesso, finalmente, ne abbiamo consapevolezza: occorre una sterzata dal percorso sin qui fatto. Una Brusca sterzata!
Si scatenino pure i buonisti, i vari commentatori della sinistra radical-chic e i giornalisti dalla lingua lunga e ricoperta di peli (altrui). Il garantismo non è essere lieti per la pena accorciata a un mostro siffatto: il garantismo vale fino a sentenza passata in giudicato e comunque non per i rei confessi.
Non c’è perdono, non ci dev’essere. Né pietà, al massimo commiserazione. Ma che questo individuo possa girare indisturbato vantandosi magari di aver preso per il naso giudici e giurie, andando a mangiare una pizza gentilmente offerta da noi, beh, qualche conato me lo provoca.