Le stragi di Vercelli (maggio 1945)


Nei giorni che seguirono la fine della guerra, e precisamente dal 26 aprile a tutto il mese di maggio del 1945, furono perpetrate in tutta Italia vendette personali, eccidi, delitti vergognosi e feroci stragi che nulla avevano a che spartire con le azioni belliche.
Furono giorni di sangue e di paura. Chiunque aveva da temere per la propria vita: bastava avere qualche parente iscritto o simpatizzante al partito fascista o anche semplicemente avere ori, gioielli o altri beni che potessero far gola alle bande di ex-partigiani che imperversavano per le città e le campagne terrorizzando la povera gente inerme e facendo strame di ogni parvenza di legge.
L’unica legge che conoscevano era quella del sangue e della vendetta. Naturalmente non erano tutti così, ma spesso i più onesti dovevano sottostare alla legge della violenza per tema di essere essi stessi ammazzati come scomodi testimoni di rapine, stupri e altre nefandezze.
Anche a Vercelli accaddero atti di una turpitudine indicibile. I partigiani che presero possesso della città il 26 aprile non persero tempo a fucilare i prigionieri politici più in vista.
Un muro del cimitero di Biliemme porta ancora oggi i segni dei proiettili di mitra che si conficcarono nei mattoni insanguinati. Lo stesso accadde al Poligono di tiro Umberto I, il cui muro di cinta è tuttora crivellato dalle sventagliate di mitragliatrice sotto le cui raffiche caddero prima i nemici del fascismo e in seguito gli stessi fascisti.
In entrambi i luoghi vecchie corone di alloro testimoniano la pietà con cui ancora oggi i vercellesi onorano quei morti.
Molti altri atti di violenza compiuti in quei giorni rimarranno per sempre ignoti e impuniti.
Due ragazze quindicenni in frazione Cappuccini videro due ben noti individui che vivevano in quella borgata catturare un soldato tedesco che forse si era perso. Non gli lasciarono scampo: lo uccisero e lo derubarono di ogni cosa nascondendo il cadavere che non venne più ritrovato.
Le due ragazze si giurarono vicendevolmente di non raccontare mai l’accaduto ma soprattutto di non svelare mai il nome dei due assassini, per paura di possibili ritorsioni su di loro e sulle loro famiglie.
Poi il tempo fece quasi dimenticare la cosa, che solo a distanza di una cinquantina d’anni venne raccontata (naturalmente senza fare nomi) da una delle due. Quella ragazza era mia madre.
Ma i delitti più efferati furono compiuti rispettivamente al rione Isola e nei pressi del manicomio provinciale, con una coda presso il ponte del canale Cavour nei pressi del paese di Greggio.
Devo a tal proposito ringraziare l’amico Robert Nicolick, attento ricercatore di questo periodo storico, per aver raccolto le testimonianze dei pochi sopravvissuti e avere così dettagliatamente ricostruito quei tragici eventi.

La strage di Rione Isola (notte tra il 6 e il 7 maggio 1945):
“Fu una strage crudele e spietata, racconta Nicolick, durata tutta la notte, compiuta in due riprese, da  partigiani comunisti appartenenti a formazioni garibaldine del Vercellese, in base alle testimonianze il gruppo di assassini era composto da, Renato Anino classe 1910, Walter Gallina classe 1926, Dario Antonio Borsetti al momento della strage non ancora maggiorenne,  e  soprattutto Felice Starda detto bugia che in piemontese ha un doppio significato muovi oppure buca, un soggetto definito da quelli che lo conoscevano come ferino.
L’eccidio di Rione Isola, un quartiere periferico di Vercelli, fu compiuto con  ferocia  dettata da rancori personali probabilmente risalenti ad anni prima, infatti le vittime più anziane conoscevano gli assassini da piccoli, ma questo non fermò l’eccidio.
Nella notte del 6 maggio 1945, un automezzo militare con a bordo  tre persone armate, appunto Anino, Gallina, Borsetti e lo Starda, si arrestò in località Rione Isola di Vercelli, davanti al numero 64 di Via Restano, una anonima palazzina, dove nel primo alloggio abitavano i coniugi Luigi Bonzanini e Leonida Scalfi, con tre figli giovanissimi e la anziana nonna Luigia Meroni vedova Scalfi, nell’aggio di fronte comunicante con il primo a mezzo di un passaggio intercomunicante abitavano i coniugi Giuseppe Scalfi e Ada Maranesi, assieme alle giovani figlie Elsa e Laura, alla nuora e al fratello di questa.
L’obiettivo primario del gruppo dei quattro killer era Luigi Bonzanini, il quale non era un importante gerarca ma semplicemente l’ex fattorino della federazione Fascista, una persona assolutamente innocua.
Quella sera Luigi Bonzanini, di anni 38, era ammalato e gli facevano compagnia le due nipoti Elsa e Laura, nella cucina sonnecchiava una anziana, tale Rosa Bolla, mentre nell’alloggio accanto, vi era solo la mamma delle due sorelle, Ada Maranesi.
I quattro armati si fecero aprire il cancello al pianterreno e salirono velocemente le scale sino al primo piano, entrando ad armi spianate nel primo appartamento, cercavano Luigi per ucciderlo e lo trovarono, le due ragazze, Elsa di 17 anni  e Laura di 22 che in quel momento erano assieme a Luigi, riconobbero gli aggressori e questo costò loro la vita, vennero messe al muro assieme a Luigi e caddero sotto le raffiche dei quattro.
Compiuto il triplice omicidio, gli assassini uscirono dalla casa,  ma dopo pochi minuti,  tornarono perchè si erano ricordati delle due donne anziane, Rosa Bolla e Luigia Meroni, le quali avevano assistito esterrefatte agli omicidi delle due giovani nipoti e del genero,  non volevano lasciare testimoni, rientrati nel cortile incontrarono Giovanni e Maria Mantegazzi, cognati delle due ragazze uccise poco prima, e  afferrarono entrambi per ammazzare anche loro, i due si divincolarono, Giovanni mostrò il distintivo di partigiano gridando di lasciarlo stare, mentre Maria si nascose in uno sgabuzzino, entrambi in quel modo scamparono alla morte.
Lasciati andare i due ragazzi, i quattro partigiani comunisti ancora assetati di sangue, raggiunsero la Luigia di anni 66, paralizzata nel suo  letto da tempo,  e incuranti della sua infermità, la afferrarono per  le braccia trascinandola giù per la scale, la povera donna supplicava i suoi carnefici di fare piano che era ammalata ma l’odio e la ferocia di questi quattro era infinita, dopo averla gettata a terra le spararono una raffica uccidendola.
Fatto ciò i criminali si allontanarono.
All’alba ci fu un ulteriore rientro sul luogo della strage, questa volta altri personaggi  su indicazione degli assassini, vennero a prelevare i corpi,  e li gettarono nel Sesia nella speranza di nascondere i crimini commessi.
Il principale attore di questa feroce strage fu lo Starda, detto ‘Bògia’, il quale era stato denunciato dal gruppo famigliare che sterminò, a seguito della vivida impressione suscitata tra la popolazione Vercellese, gli alleati e gli stessi partigiani, fu fatto fucilare il giorno successivo, dal comando della brigata a cui apparteneva, con la seguente motivazione “condannato a morte per aver proceduto all’assassinio di quattro civili arbitrariamente, per rancori personali e per spirito di vendetta” ma il suo nome, nonostante la ferocia di cui si rese protagonista, fu inciso su una lapide fra gli altri nomi dei caduti per la libertà. (Si prega il sig. Sindaco di Vercelli di provvedere alla cancellazione, grazie – N.d.R.)
Il 27 giugno 1946, Alfredo Scalfi fratello delle due giovani ragazze uccise, Elsa e Laura, presentò una circostanziata denuncia alla Procura di Genova da cui iniziò una fase istruttoria di una processo presso la Corte di Assise di Vercelli nel luglio del 1951.
Il processo di primo grado si concluse con la condanna dei soli Gallina a 36 anni di cui 18 condonati e del Borsetti a 21 di cui 15 condonati. Nel febbraio del 52 ci fu il processo di appello con la conferma della sentenza di primo grado e con il proscioglimento di Anino.
Fu sicuramente una magra consolazione in quanto il principale responsabile della strage, lo Starda era morto ma almeno anch’esso era morto imbottito di piombo e dei suoi stessi compagni.”

La strage dell’OPN di Vercelli (12-13 maggio 1945):
I poveri morti del manicomio di Vercelli – l’OPN, ossia Ospedale Psichiatrico Provinciale – gridano ancora vendetta dalle loro tombe senza nome. Nessuno scavo ha mai portato alla luce i resti di quegli sciagurati ridotti a carne trita dai macellai rossi agli ordini di una belva come Moranino.
Ma veniamo ai fatti. Il racconto di Robert Nicolick è preciso e atroce:
“Una piazza si apre di fronte alla facciata scrostata dell’ingresso, ai lati del portoncino due grandi cancelli sbarrati, come pure sono sbarrate le finestre con delle vecchie serrande verdi.
Accanto a dei pini giganteschi una minuscola lapide con un simbolo e con un nastrino tricolore, circondata da un rettangolo di mattoni, tutto qui per commemorare tante vite spezzate dall’odio ideologico. Sul lato di sinistra accanto al muraglione grigio, vi sono decine di orticelli e così pure sul lato posteriore, altri orti provvisori, una pineta e una bassa vegetazione folta e rude che qui chiamano baraggia, sul lato di sinistra del muro corre una stradina sterrata, dove la notte si appartano le coppiette in cerca di intimità. Il sito è abbandonato da tempo, a parte i gatti e pochi operai di qualche ente locale, nessuno vi gira da anni.
(…) Si respira un’aria di abbandono di desolazione e di morte, infatti questo posto nel 1945, era la caserma della 182° Brigata Garibaldina comandata da Giulio Casolaro affiancato da un commissario politico, Giovanni Baltaro. Soprattutto è l’epicentro di una strage avvenuta più di 70 anni fa, tra l’11 e il 13 di maggio del 1945 a guerra finita, compiuta con grande ferocia su 75 prigionieri appartenenti alla Repubblica di Salò. (…) dopo la caduta della R.S.I. i fascisti di Vercelli, formano una colonna di circa 2000 unità, la cosiddetta colonna Morsero, dal nome del Federale di Vercelli, e muovono, ancora armati e inquadrati, verso Novara da cui proseguire per Valtellina senza poterla raggiungere.
Giunti a Castellazzo Novarese il 27 aprile, si arrendono alle formazioni partigiane del Novarese comandate da un certo Moscatelli. Tutti vengono concentrati per giorni nel Campo di calcio di Novara, in condizioni di igiene precaria. Decine di Novaresi dalle case sovrastanti l’area dell’impianto sportivo lanciano addosso ai poveretti rifiuti ed escrementi senza che i partigiani di guardia intervengano a fermare questa gogna crudele. Questa cosa va avanti sino al 12 maggio 1945, quando un reparto della 182° Brigata Garibaldina, arriva inatteso e pretende la consegna immediata dei prigionieri repubblicani che avevano operato a Vercelli. Moscatelli tentò di opporre resistenza alla inusuale richiesta poi, dopo un colloquio telefonico con Francesco Moranino, consegnò i prigionieri. L’intenzione era quella di liquidare i prigionieri prima dell’arrivo delle truppe Angloamericane che non volevano lasciare autonomia decisionale ai combattenti comunisti e non vedevano di buon occhio i cosiddetti tribunali del popolo e le numerose esecuzioni sommarie che derivavano dai loro giudizi.
Moranino, detto ‘Gemisto’, un ex operaio comunista di Tollegno, comandava la piazza di Vercelli e al comando di Biella c’era Silvio Ortona detto ‘Lungo’, laureato in legge e di professione impiegato, entrambi comunisti di provata fede e purtroppo entrambi futuri Parlamentari della repubblica Italiana.
Settantacinque Repubblicani vengono caricati su un autobus e su un autocarro e scortati sino all’ex Ospedale Psichiatrico di Vercelli, una dozzina di prigionieri sono fucilati frettolosamente appena fuori dal campo di calcio di Novara, poi la colonna prosegue e raggiunge il manicomio di Vercelli intorno alle 19. Medici ed infermieri sono obbligati ad allontanarsi mentre la violenza si scatena sui prigionieri, depredati, spogliati e pestati a sangue all’interno di un padiglione del manicomio, le cui pareti rimarranno macchiate a lungo di sangue. L’unico che assiste parzialmente allo scempio è un prete, il cappellano della struttura, Don Manzo, dopo aver dato l’assoluzione ai morituri deve uscire anch’esso. Nessuno deve vedere quello che accade.
Divisi in gruppi di 4 o 5, gli sventurati, inizia l’azione portata avanti dai gruppi di fuoco, con una brutalità ed una ferocia da manuale: una quarantina di fascisti vengono portati all’interno del palazzo comunale di Albano Vercellese, dove subiscono il solito processo farsa, poi allineati sul ponte di Greggio, uccisi a colpi di mitra e gettati nel Canale Cavour.
Un gruppo portato a Larizzate e passato per le armi in un avvallamento, altri ancora vivi, immobilizzati con del filo di ferro e distesi sul piazzale antistante l’ingresso del manicomio, schiacciati ripetutamente dalle ruote di alcuni camion in modo tale da fargli perdere ogni fattezza umana, ridotti ad informi mucchi di carne, altri ancora dati alle fiamme e ancora agonizzati per le ustioni sepolti negli orti posti a lato della recinzione.
All’alba del 13 maggio 1945, lo scempio era concluso, solo una decina di prigionieri era ancora in vita. Stranamente fu risparmiata loro la vita e furono tradotti al vecchio carcere di Vercelli.
La Questura di Vercelli ha quantificato, al ribasso, in cinquantuno il numero delle vittime del massacro, di 27 il numero degli esecutori materiali e di due i responsabili di questa strage.
Questo eccidio, completamente inutile e di matrice sadica, di cui si conoscevano i responsabili colpì enormemente l’opinione pubblica, anche quella che aveva collaborato con la Resistenza, infatti questi militari repubblichini avevano completamente cessato di essere di ostacolo alla lotta contro il Fascismo, essendo terminato di fatto l’essere della Repubblica Sociale.
A margine dell’eccidio vanno registrati alcuni comportamenti singolari dei partigiani comunisti, con una difformità di trattamento a seconda dei prigionieri, o meglio a seconda della classe sociale di appartenenza: per esempio un caporione partigiano si innamorò di una ragazza che ricopriva il grado di ufficiale delle Ausiliarie, la fece liberare e quindi la sposò, la donna era figlia di un grande imprenditore della zona, alla cui morte il partigiano ereditò una fortuna.
Ma non era finita, quattro importanti gerarchi fascisti, alti ufficiali delle Brigate Nere e della Guardia Nazionale repubblicana, evitarono per una ben strana scelta, il plotone di esecuzione, mentre la furia omicida dei boia comunisti si scatenò indiscriminata sui semplici gregari, sulla bassa forza, su tanti giovani e giovanissimi che nella maggior parte scelsero la R.S.I. non per convinzione ma più semplicemente per necessità (…) Molte vittime erano giovanissimi delle Fiamme Bianche, dei plotoni di Onore che con i combattimenti avevano ben poca pratica, quasi tutti classe 1922 – 23 che al momento dell’eccidio avevano da poco passato i vent’anni. Gli elementi più violenti e più feroci agirono quella notte, in un’orgia di sangue orrenda.
Sin dal 1946 alcuni giornali locali si interessarono all’eccidio, ovviamente non quotidiani di partito, Il Popolo Nuovo, l’Eusebiano e La Verità, attraverso delle inchieste giornalistiche molto precise e approfondite, divulgando senza filtri, quello che era accaduto all’interno e nei pressi del manicomio. Furono inchieste molto coraggiose, per il periodo storico e perché Vercelli era una città decisamente comunista, ci furono infatti dei tentativi di tacitare questi media, anche con l’intervento di alcuni parlamentari del P.C.I. Nel ‘47 i responsabili della strage vennero indagati e perseguiti, nel ‘48 furono rinviati a giudizio per il reato di omicidio continuato ed aggravato. Nel frattempo Moranino e Ortona furono eletti al Parlamento della repubblica nel Gruppo Parlamentare del P.C.I..
Nel 1953 la Procura della Repubblica di Torino presenta domanda di autorizzazione a procedere nei confronti dei due Parlamentari con l’accusa di omicidio continuato aggravato. Tuttavia nessuno fu toccato a livello penale, se non per un’altra strage, quella della missione Strassera avvenuta nel 1944, a Portula sulle Alpi Biellesi. Un eccidio, questa volta non di Fascisti, ma bensì di cinque esponenti della resistenza non comunisti e di agenti operativi dell’O.S.S., oltre che di due donne sposate con le vittime.”
Così dopo una decina d’anni la giustizia raggiunge inesorabilmente anche il principale responsabile, il quale però, grazie a complicità politiche molto in alto, non pagherà mai per le sue colpe.
“Ci furono delle indagini, dice Nicolick concludendo il suo racconto, e l’On. Moranino processato in contumacia e condannato all’ergastolo per sette omicidi, dovette fuggire dall’Italia in Cecoslovacchia, dove fece per qualche anno lo speaker a Radio Praga in funzione anti Italiana. Una strana coincidenza fu che sin dal 1953 proprio a Praga, si addestrarono molti futuri brigatisti rossi che poi avrebbero compiuto azioni terroristiche in Italia. In seguito ‘Gemisto’ ebbe una riduzione della pena, poi nel 1965 il Presidente Saragat lo graziò e nel 1968 rientrò in Italia dove venne rieletto al parlamento con i resti. Nel 1971 morì per un infarto.”