Il Sessantotto… e dopo (2a parte)


La rottura del Sessantotto spingeva invece in senso opposto, verso le grandi contrapposizioni. Fecero la loro comparsa posizioni che, in seguito, vennero chiamate “operaiste”, di origine intellettuale, ma che conquistarono un’influenza apprezzabile nel quadro più attivo del sindacato. L’idea che l’attacco al capitalismo si potesse realizzare nella fabbrica, mettendo in crisi il processo di accumulazione nel suo punto nodale e, di conseguenza, il sistema nel suo complesso, poteva far presa, malgrado la sua astrattezza, perchè non era chiaro, in punto di analisi, il nuovo carattere che il processo di accumulazione era andato assumendo. Così le masse operaie non riuscivano a stabilire un collegamento tra le esigenze immediate, le rivendicazioni di ordine politico e le compatibilità che era indispensabile rispettare, se si voleva davvero modificare le strutture.
In ciò fu l’assoluta insufficienza della risposta dei partiti di sinistra e dei sindacati alla crisi del Sessantotto; in ciò la ragione del fallimento del movimento stesso. Di conseguenza, l’”operaismo”, anziché il lievito per la costituzione di movimenti dotati di capacità permanente di organizzazione e di lotta, finì per essere semplice promozione di protesta, piena di suggestioni, che fece presa nel vuoto lasciato da altre forze e guadagnò influenza nelle assemblee, provocando una verbale rincorsa a sinistra del sindacato, al fine di non perdere contatto con le masse. Il sindacato finì per essere considerato come canale per l’espressione di umori occasionali delle masse, piuttosto che forza organizzata con una propria logica interna.
Ci fu poi, in Italia, un’altra ragione particolare per accentuare il carattere dei disordini del ’68: la fine del centrosinista. La collaborazione tra Dc, socialisti, socialdemocratici e repubblicani era giunta alla bancarotta politica. Non aveva raggiunto lo scopo forse più impegnativo che si era prefissato: l’isolamento del Partito Comunista (che, al contrario, aveva rafforzato le proprie posizioni). Il contenuto riformista e programmatico del centrosinistra era stato liquidato con la manovra del 1964, senza che i socialisti accennassero ad una seria resistenza. La Democrazia Cristiana era arroccata su posizioni tradizionali e non dava al paese alcuna indicazione per far fronte alle difficoltà che si andavano addensando. E’ comprensibile che nel paese si estendesse la ricerca per una nuova via di governo, che ne assicurasse il progresso.
Della realtà di quella situazione, i gruppi dirigenti si accorsero con grande ritardo. La programmazione fu rifiutata e lasciata fallire, persino rinunciando al tentativo di servirsene ai fini della garanzia di un certo livello di profitto capitalistico. Tutto ciò dimostra quanto corte fossero le vedute di quelle categorie.
La Confindustria, come organizzazione, fece un tentativo per individuare nuove strade. A Leopoldo Pirelli fu affidato l’incarico di tracciare le linee di un nuovo orientamento. Nel suo rapporto diede spazio alla tematica della programmazione, quando però questa era già allo stremo, non trascurando il tentativo di prendere atto della nuova realtà nei rapporti con il sindacato e cercando anche di muoversi in direzione di una certa alleanza tra produttori. “Gli imprenditori, mentre accettano la conflittualità degli interessi come elemento costitutivo e inalienabile di una società pluralista, confermano la volontà di ricercare ogni possibile forma di collaborazione con le organizzazioni dei lavoratori, per contribuire a risolvere problemi sociali di interesse comune e generale. E’ oggi possibile indicare, come materia di auspicabile collaborazione, gran parte dei rapporti economici suggeriti dalla Costituzione…..la collaborazione fra le parti sociali alla soluzione di tali problemi può aprire nuove prospettive…..una politica economica nazionale che intenda programmare lo sviluppo sociale, salvaguardando, al tempo stesso, la stabilità monetaria, richiede il concorso partecipativo di tutte le organizzazioni sindacali”, scrisse nella sua relazione finale.
Dopo un lungo scontro sul tema dell’industria di Stato, verso quest’ultima si proclamò che “ogni forma di collaborazione con singole industrie a partecipazione pubblica diventa possibile”, a condizione che le imprese private fossero state efficienti e le partecipazioni statali gestite dal Governo, in vista di obbiettivi sociali.
Verso la politica ed il mondo culturale si cercò di definire un atteggiamento nuovo per “valutare le diverse possibili tendenze del sistema politico” e per stabilire “corretti rapporti con il mondo della cultura, non solo e non tanto per influenzarne le scelte, quanto piuttosto per controllare e verificare le proprie”.
Fu un’apertura, cauta ma palese, tenuto conto della nuova situazione socio- culturale. Restò però quasi impossibile trovare segni di mutamento sostanziale, da parte degli industriali, verso un’economica che non fosse meramente congiunturale, come di un rapporto con i sindacati che andasse davvero verso la proposizione di nuovi orientamenti.
In realtà, il rapporto delle forze si andava evolvendo rapidamente a favore del sindacato. L’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, fu un segno dei tempi. Permise di porre un ostacolo giuridico, stringente, agli abusi di potere nelle fabbriche e segnò un passo in avanti, di basilare importanza, per la tutela dei diritti di libertà. La sua elaborazione avvenne però, in maniera assai eccessiva, all’interno di un approccio prevalentemente garantista. Non si riuscì a trovare un equilibrio tra le fondate esigenze di tutela dei diritti di libertà e l’impatto con l’attività economica. Lo Statuto aumentò la rigidità nella gestione dell’impresa, in parallelo con le leggi del collocamento, e non favorì certo i processi di trasformazione, finendo quindi con l’avere effetti negativi sull’occupazione.
Ma da parte degli imprenditori, nulla venne fatto per porre in primo piano le questioni rilevanti e trovare un ragionevole accordo. Economia e diritti del lavoro continuarono a rimanere separati da un profondissimo solco.