La nascita della Repubblica di Salò


L’atto di nascita coincide con una strage e porta la data del 14 novembre 1943, in Castelvecchio di Verona, l’antica roccaforte dei signori Della Scala. Basata su un documento, di 18 punti, della prima Assemblea Nazionale del Partito Fascista Repubblicano, inizia la sua vita la Repubblica Sociale Italiana.
E’ una domenica grigia e fredda. La grande mole rossastra del castello rivela, lungo le sue mura, un folto reticolo di edera rampicante, inaridita nell’imminente inverno. Il fossato, torno torno, è colmo di sterpi secchi. Si entra, passando attraverso un ponte levatoio di legno, rialzato la notte, guardato da miliziani armati di mitra. Nel cortile interno sostano le poche macchine dei maggiori gerarchi: alcune con “strambi” recipienti, sul retro, per il gas o la carbonella, che sostituiscono la benzina, di cui i tedeschi sono parsimoniosi distributori.
A mezzogiorno il segretario del Partito Fascista, Alessandro Pavolini, seduto al tavolo di comando, parlotta concitatamente con alcuni camerati sopraggiunti, che gli sussurrano qualcosa, chinandoglisi all’orecchio. Poi balza in piedi, impone il silenzio alla disordinata e rissosa assemblea. Dice: “Il Commissario della Federazione di Ferrara, che avrebbe voluto essere qui con noi, è stato assassinato con sei colpi di pistola. Noi eleviamo a lui il nostro pensiero. Egli verrà subito vendicato”. Scoppia un boato. Pavolini tenta di domare il frastuono. Si ode gridare: “A Ferrara! Tutti a Ferrara!”. Si fanno avanti a decine. Sono fascisti di ogni estrazione e provenienza, anche giovanissimi, vestiti delle nuove uniformi, improvvisate dopo l’8 settembre, con camicie o maglioni neri, le armi a tracolla o alla cintura, nastrini e decorazioni in abbondanza, perchè “il combattentismo deve essere il cemento e lo slogan della rinascita”. Vogliono precipitarsi tutti e intanto si eccitano l’un l’altro, maledicono, accusano i Capi, di inerzia, di tolleranza e addirittura di connivenza. Quando il Segretario del Partito riesce a riprendere in mano la situazione, le sue decisioni sono nette: “Non si può gridare in presenza del morto. Si agisce in modo disciplinato. I lavori continuano. I rappresentanti di Ferrara raggiungano la loro città. Con essi vadano formazioni della Polizia Federale di Verona e gli Squadristi di Padova”. Nel tumulto, gruppi di individui si affollano all’uscita. Un cronista del giornale locale, “L’Arena”, presente ai lavori, prende appunti sul suo taccuino. Il giorno dopo, però, non gli permetteranno di pubblicare nulla.
Igino Ghisellini, ex combattente valoroso, Commissario della Federazione Fascista di Ferrara (prima del 25 luglio si sarebbe detto Federale, ma ora si è in regime provvisorio) viene trovato assassinato a Castel d’Argile di Cento, all’alba del 14 novembre, in un fossato lungo la strada. Gli hanno tolto gli stivali, il denaro, non i documenti. Poco distante dal cadavere, la sua automobile, una Fiat 1100, con cui la sera prima si era diretto verso casa a Casumaro e con la quale, quel giorno, sarebbe dovuto andare a Verona. Ma a casa, Ghisellini non è mai giunto. Lo hanno aspettato tutta la notte. Sulla macchina, appaiono evidenti i segni di sei proiettili e le macchie di sangue. Forse ha dato un passaggio o forse aveva a bordo qualcuno che conosceva: si è sparato dentro la vettura, non da fuori. Più tardi si diffonderà la voce che, molto probabilmente, Ghisellini è stato ammazzato dai suoi. Dopo l’armistizio, era stato uno dei fascisti moderati, di quelli non fanatici, che puntavano alla pacificazione e a un governo che non ripetesse gli errori di faziosità del ventennio. Questa politica trovava sostenitori ed esponenti a Verona (il direttore de “L’Arena”, Giuseppe Castelletti), a Bologna (il direttore de “Il Resto del Carlino”, Giorgio Pini), a Firenze (il direttore de “La Nazione”, Mirko Giobbe), a Torino (il direttore de “La Gazzetta del Popolo”, Ather Capelli), a Milano (la Medaglia d’Oro Carlo Borsani). La sua posizione tollerante aveva procurato a Ghisellini fieri nemici, tra gli estremisti ferraresi. Come si può ammettere che un Federale proponga un accordo con i partiti antifascisti, che discuta con i loro esponenti, che concordi una tregua tra le parti, quando i capi storici – Pavolini, Farinacci, Ricci, Mezzasoma – instaurano la linea del 1922, quella delle Squadre d’Azione? Ghisellini non trova spazio per la sua dialettica. E’ destino che un uomo, non fazioso e ben disposto, spiaccia ai nemici ed agli amici.
Gli squadristi di Verona e di Padova arrivano a Ferrara nel tardo pomeriggio. Hanno corso in macchina e su autocarri dai teli sbrindellati, che fanno tanto “prima ora”, lungo i rettifili oltre il Po, tra i filari scheletriti di pioppi e di gelsi. Le strade, con l’asfalto lucido di pioggia, sono deserte; passa, ogni tanto, qualche pattuglia tedesca, qualche convoglio militare, con i soldati allineati e vestiti con uniformi mimetiche.
Ci sono, a guidare i vendicatori, il Console Generale della Milizia, Giovanni Battista Riggio, il famigerato Avvocato Ennio Vezzalini, il Capo della Provincia di Verona, Piero Cosmin ed il Capo della Polizia Federale veronese, Nino Furlotti: questi ultimi due, delinquenti comuni, saranno più tardi coinvolti nell’esecuzione di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini. Sono i nuovi “ras del terrorismo ad ogni costo”, rispuntati dopo l’8 settembre. Il Furlotti, in particolare, estromesso da qualsiasi incarico dai suoi stessi camerati, cerca di placare, nel ritrovato potere, le frustrazioni e le umiliazioni patite dopo le indimenticabili imprese del 1922. Li affiancano i ferraresi che guidano il drappello, dove si agita, sopra ogni altro, l’Ispettore Regionale Franz Pagliani, un medico. Lui, Vezzalini e Riggio saranno, in particolore, i giudici del processo Ciano.
Alle 20,00 di sera comincia il rastrellamento, che dovrà fornire le vittime per la rappresaglia e vendicare il camerata assassinato. Si compila una lista di 84 nomi. Sono tutti sospettati di antifascismo. Vi figurano, tra gli altri, l’Avvocato Mario Zanatta, del Partito d’Azione, il gelataio Luigi Calderoni, l’illusionista Masiero, l’ottantenne Dottor Umberto Ravenna, il Professor Mario Magrini, la Maestra socialista Ada Costa, il meccanico Gullini, l’Ingeniere Silvio Finzi, l’Avvocato Giuseppe Bassani (cieco, che viene accompagnato dalla moglie) e l’Avvocato Ugo Teglio, anche lui socialista. Alcuni sono già in carcere, altri vengono prelevati dalla Milizia. Li trasferiscono in un camerone della Caserma “Littorio”, in Piazza Fausto Beretta. Nel frattempo, in Federazione, devono scegliere chi si è deciso di fucilare. Tocca ai dirigenti Roberto Ghilardoni e Marco Calura, ma i due si rifiutano categoricamente e vengono subito cacciati fuori, tra le urla generali. Il Capo della Provincia di Ferrara, Vincenzo Berti, si dimette per protesta. Prende in mano la situazione il Console Riggio, dicendo alla Federazione Ferrarese: “Faremo da soli e sarà peggio” e scrive lui stesso i nomi. Sono quelli del vecchio Senatore Emilio Arlotti, intimo amico di Cesare Balbo, che ha rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, dell’Avvocato Pasquale Colagrande, Sostituto Procuratore del Re, del commerciante Vittorio Hanau e di suo figlio Mario, dell’Avvocato Giulio Piazzi, dell’Avvocato Mario Zanatta, del commissionario Alberto Vita Finzi, dell’Avvocato, socialista, Ugo Teglio.
Nino Furlotti riunisce i dieci morituri, li porta fuori, li conduce in Via Roma e li fa posizionare contro il parapetto del fossato del castello estense. Prima ammazzano Zanatta, con un colpo alla nuca, subito dopo tutti gli altri a raffiche di mitra, che rimbombano nel silenzio del primo mattino. Altrove, cadono nello stesso momento altre tre vittime, l’Ingegnere Girolamo Savonuzzi, il Ragioniere Arturo Torboli e il manovale Cinzio Belletti.
Sono le 6,15 ed incominciano ad arrivare, in bicicletta, le prime persone dirette ai luoghi di lavoro. Vedono i cadaveri, piantonati dai militi che fumano, con i mitra tra le gambe, la barba lunga, le facce gialle segnate dalla veglia e dalla fatica, non dall’orrore. Quando appaiono i bambini diretti a scuola, li costringono a passare davanti a quei corpi immersi nel sangue, perchè osservino, perchè la lezione sia fruttuosa di ammonimento per tutti.
Scrive il giorno dopo “Ferrara Repubblicana”, organo della federazione: “La nostra sete di vendetta è lungi dall’essere appagata. Tu, camerata Ghisellini, dal cielo degli Eroi e dei Martiri, illumina le nostre menti e falle più acute e perspicaci, al fine di rintracciare e perseguitare, ovunque si celino, i nemici della Patria, guidando la nostra mano perchè li colpisca”.
La Repubblica Sociale, nasce, come detto, all’insegna di questo eccidio. La sera della stessa domenica, di quel 14 novembre 1943, a Verona, l’Assemblea Nazionale del Partito Fascista approva i 18 punti del Manifesto Programmatico, che sancisce la struttura del nuovo Stato. Al punto n. 3 si legge, tra l’altro: “Nessun cittadino, arrestato in flagrante o fermato per misure preventive, potrà essere trattenuto oltre sette giorni, senza un ordine dell’Autorità Giudiziaria. Tranne il caso di flagranza, anche per le perquisizioni domiciliari occorrerà un ordine dell’Autorità Giudiziaria”. Quel “tranne” ha lasciato, nei pochissimi anni successivi, seri dubbi di interpretazione e molta libertà di azione agli operatori giudiziari. Ambiguità, volontarietà, oppure un grossolano errore di trascrizione? In fin dei conti, la cosa non stupisce più di tanto.
La storia è assai ricca di contraddizioni, con cui, anche ai nostri giorni, siamo abituati a convivere.