Dalla Russia con dolore!


Era il 16 dicembre del 1942. Una data questa che, con quella di Caporetto di venticinque anni prima, ricorda una delle più tragiche ed umilianti sconfitte del nostro Esercito.
L’8^ Armata italiana, in Russia, più conosciuta forse con il nome di “ARMIR”, venne ferocemente annientata, dando vita alla più tragica delle ritirate, con una marcia verso ovest, denominata del “davaj” (“avanti”, in russo). I soldati, a piedi e su piste ghiacciate, condotti verso i campi di prigionia, venivano asetticamente fucilati lungo il cammino se non riuscivano a mantenere il passo della colonna.
Si pensi che, nella Campagna di Russia, furono fatti prigionieri oltre 64.000 uomini. Di questi, tra la fine del 1945 e la primavera del 1946, a guerra da tempo finita, ne tornarono in patria appena 10.000. Nel campo di Tambov, cittadina a circa 480 Km da Mosca, uno dei tanti, che rinchiudeva 23.000 prigionieri, a fine giugno del ’43 se ne contavano in vita solo 3.400. Dei 7.000 Alpini della “Julia”, ne sopravvissero 1.200 e dei Bersaglieri del 3° e del 6° Reggimento, inquadrati nella Divisione “Celere”, solo 1.000.
In quel fatidico 16 dicembre, i Russi dettero il via, sul Don, alla massiccia offensiva, denominata “Piccolo Saturno”. A fianco degli italiani combatterono truppe tedesche, croate e rumene. Si infransero contro quattro armate sovietiche, di cui una corazzata. Le nostre truppe potevano contare su 230.000 uomini, con 50 carri armati leggeri e 1.600 pezzi d’artiglieria, a fronte di una massa di 425.000 soldati, 1.200 mezzi corazzati e 5.000, tra cannoni e mortai. Insomma, una lotta inverosimilmente impari.
Sul Don resistette solo il Corpo d’Armata Alpino, che ricevette l’ordine di ripiegare all’inizio del gennaio 1943, quando ormai era già circondato dalle truppe sovietiche. Finalmente il 26 gennaio, dopo la Battaglia di Nikolajevka (oggi Livenka), le “piume nere” raggiunsero le retrovie, al sicuro: era l’ultima vittoria di un’armata senza speranza che, il 6 marzo, iniziò a essere rimpatriata.
La Campagna di Russia rimarrà per sempre nella triste memoria storico-militare italiana, perché fu quella dove i nostri soldati furono più duramente messi alla prova, nello spirito e nelle sofferenze fisiche. L’equipaggiamento necessario, quello invernale, fu del tutto deficitario o, per meglio dire, completamente inesistente. Con armi a corto di munizioni ed il cibo che iniziava a scarseggiare, l’esercito si trovò accerchiato ed immobilizzato in una sacca di ghiaccio.
L’odissea della ritirata, vissuta personalmente, è stata raccontata, con maestria e passione, da Mario Rigoni Stern ne “Il sergente nella neve”: “Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don”.
Giulio Bedeschi, altro sopravvissuto, nel suo celeberrimo “Centomila gavette di ghiaccio”, racconta: “La popolazione non vi deve vedere, è l’ordine”, spiegò seccamente un ferroviere al più vicino grappolo d’uomini che si affannavano, sbracciandosi dal finestrino. Non abbiamo mica la peste, noi! Siamo gli alpini che tornano dalla Russia, cavallo vestìo da omo!”, gli gridò, esasperato, un certo Scudrera, mentre il treno già si muoveva. Che alpini o non alpini! Ma vi vedete?”, replicò allora ai rinchiusi il ferroviere, “vi accorgete sì o no, Cristo, che fate schifo?”.
Dovettero subire anche quella umiliazione, incredibile!
L’8^ Armata venne costituita per precisa volontà di Benito Mussolini. Composta, già dal luglio dell’anno precedente, da reparti inglobati nel “Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR)” ed impiegati sul fronte orientale e da divisioni provenienti da altri schieramenti di guerra, fu inquadrata nel “Heeresgruppe Süd” (Gruppo d’Armate Sud) tedesco. Comandata dal Generale Italo Gariboldi, le sue divisioni, “Torino”, “Pasubio”, “Cosseria”, “Ravenna”, “Sforzesca”, “Vicenza”, “Cuneense”, “Julia” e “Tridentina”, unitamente a tantissimi reparti di minor livello, parteciparono, da subito, all’avanzata nell’Ucraina orientale, combattendo fra il Donec e il Don.
Per un’Italia che era entrata nel conflitto, sia economicamente che militarmente, impreparata e già impegnata nei Balcani ed in Africa settentrionale, la guerra contro l’Unione Sovietica rappresentò uno sforzo enorme e, prevedibilmente, impossibile. Ma, come si sa, la nostra fu una guerra subalterna. Hitler aveva comunicato al Duce l’intenzione di invadere la Russia solo il giorno stesso dell’invasione, cioè il 22 giugno 1941. Il fronte orientale sembrò rappresentare, per l’Italia, un’occasione in più di essere al fianco del potente alleato ed il miraggio di condividerne le conquiste e le glorie.
Il 22 giugno, quindi, scattò la “Operazione Barbarossa”, l’attacco tedesco contro l’URSS. I vertici militari del Terzo Reich sottovalutarono, stupidamente, l’Armata Rossa, convinti di sconfiggerla in cinque settimane, cioè prima del rigido inverno, che era costato caro al Bonaparte, nel 1812. I sovietici attuarono una tattica già sperimentata in altre precedenti battaglie, quella cioè della “terra bruciata”, indietreggiando verso l’interno. Stalin, appellandosi con veemente ardore al nazionalismo russo, spinse l’intera popolazione civile ad una strenua e costruttiva resistenza contro l’invasore, mettendo in atto una fitta rete di atti di sabotaggio nelle retrovie, che avvilirono, nel profondo, il nostro contingente.
Il resto, fu opera del gelo, dell’inadeguatezza dei mezzi, del vestiario, della fame e della disperazione psicologica.
Gli alti Ufficiali si sentirono traditi e abbandonati dal Governo. L’eroico Generale Giovanni Messe, già Comandante del “CSIR”, morto a Roma nel dicembre del 1968, ebbe a dire, in seguito: “Mi ero ripromesso di non scrivere che delle note, delle note-ricordo, per poter aiutare la memoria a riandare al tempo trascorso; senza esprimere opinioni, fare critiche, giudicare. Ma non ne posso più! Non ho paura di dire che mandare avanti, in quella tragica odissea russa, delle truppe nello stato in cui si trovavano le nostre, senza mangiare, colle scarpe rotte, le uniformi a brandelli, prive di munizioni, perché ferme su autocarri senza benzina a 200 km di distanza, fu esattamente come commettere un assassinio”.