Il cinema italiano oggi, una bella sorpresa


Il Belpaese torna a esserlo anche nella Settima arte.


Alcuni anni fa, sostenni che era confortante riscontrare come le forze artistiche cinematografiche più periferiche italiane stessero resistendo con caparbietà alle estreme difficoltà finanziarie e organizzative indotte dal mercato globale del cinema e dalla temperie economica corrente. Furono risultati anche importanti, segni certi di profonda vitalità della pianta, ma gli effetti sul fusto complessivo della Settima arte in Italia, erano davvero irrisori e poco efficaci. Intanto, le strategie per la rivitalizzazione delle operazioni più importanti, le Film-commission regionali, con budget appropriati almeno al mercato italiano, soffrivano di politicizzazione e di guida approssimativa e dilettantesca. I più avveduti registi, attori e altri operatori tecnico-artistici del complessivo crocevia parnasiano dell’audiovisivo non-live, dovevano migrare a Hollywood in California per ottenere spazi marginali. Emigrazione utile però anche per conoscere le nuove tecnologie e il nuovo linguaggio filmico di un settore che è clamorosamente uscito dai movie-theater (le sale cinematografiche), accedendo ai grandi schermi ormai domestici (home-theater) e integrandosi così con le produzioni televisive di enormi soggetti economici come Netflix, Amazon, giganti dello streaming “remote-control driven”, condizionate dallo zapping con i suoi tempi istantanei. Ecco Artribune scrivere nel 2022 che “Il cinema italiano è in stato di grazia” e anticipare le mie considerazioni che seguono con un certo ottimismo, ma anche cogliendo il fenomeno positivo, fatto da registi dotati di nuovo linguaggio filmico, con l’architrave holliwoodmorfica Sorrentino-Muccino-Guadagnino e poi Mainetti, Di Costanzo e Andò, che oggi trovano validi emuli nello sviluppo verticale della qualità italiana nella Settima arte.
La rivoluzione della Globalizzazione ha ormai decantato i suoi grandi risultati. Oggi, terza decade del terzo millennio, un’era cinematografica è finita: l’espansione capillare nel mondo globalizzato della grande industria del sogno, dunque, in pratica di Hollywood di Los Angeles (che ha praticamente fatto fuori anche l’alternativa Bollywood di Mumbai) ha compiuto quasi per intero il suo percorso. In affannosa e frastornata rincorsa, le produzioni d’intermedia taglia industriale (in particolare europee) hanno annaspato in questi ultimi lustri, inanellando flop su flop e non riuscendo in gran parte a valicare il crinale tra cinema d’essai / finanziamenti pubblici e “vero mercato”. Come sta accadendo in Italia, anche le produzioni delle altre culture europee hanno rialzato, prima dell’Italia ma forse meno di essa, la testa: ciò è accaduto grazie a un’incomparabile ricchezza di contenuti e di varietà rispetto alle produzioni americane, su cui i critici nostrani (europei, non solo italiani), retrò e poco preparati sul linguaggio filmico, avevano sempre impuntato la loro obiezione no-global. Ho sempre pensato che su quel piano eminentemente drammaturgico loro avessero sostanziale ragione, e che la semplice civiltà USA avrebbe mostrato in extremis la corda, una volta consumate la retorica americanofila e il vantaggio delle enormi risorse tecnologiche e industriali che continuano e continueranno a caratterizzarla. Hollywood stessa ne era consapevole, ed è stata in grado di drenare fino a ieri una certa parte delle stupende ricchezze culturali non anglo-americane, diciamo neo-europee dopo Brexit. Francesi e tedeschi prima, e ora finalmente anche gli italiani, hanno imparato il nuovo linguaggio filmico assoluto nato a Hollywood, la sua architettura significante fenomenale, all’interno della quale, al posto della proposta drammaturgica a stelle e strisce fatta di 300 anni, hanno innestato la incomparabile ricchezza dei millenni del Vecchio continente: ben altri significati, messaggi e contenuti, che prima crollavano miseramente a causa di un linguaggio filmico ridicolmente arretrato, quasi un insopportabile latino maccheronico cinematografico.
Tecnologie ed esperienze professionali delle maestranze più elevate, il fascino del cinema, comunque, e quindi risultati economici possibili hanno dovuto attendere una generazione tardo-hollywoodiana per ritornare alle culture locali delle singole terre europee e fare della loro storia oggetto di memoria appropriata. Mentre Ridley Scott sposta Napoleone in una dimensione contemporanea globale, rendendo comprimarie la straordinaria temperie culturale europea dell’epoca e le sue profondissime espressioni, e lo spedisce in una sorta di soap opera (piacevolissima per me e direi per il pubblico, ma certamente inadeguata al complesso personaggio storico), la temperie culturale europea reagisce con magistralità d’uso delle nuove tecnologie cinematografiche, divenute via via più abbordabili. Francia, Spagna, Germania e oggi anche l’Italia, senza faciloneria trionfalistica, conquistano spazi di mercato importanti e gratificanti, non solo alla distrazione e ai contenuti superficiali-per-tutti, ma anche alla celebrazione delle civiltà locali-nazionali europee, dei loro contenuti e meravigliosa varietà. Non si discute l’intrattenimento globale hollywoodiano, ci mancherebbe: lì, nei kolossal, gli USA del bacino complessivo californiano (non solo quindi Hollywood di Los Angeles, ma quello letterario degli sceneggiatori di San Francisco, una filiera robusta ed efficientissima) sono leader e lo saranno di certo a vista d’occhio nel futuro. Ciò che riguarda la nuova cinematografia europea è il segmento di mercato intermedio, quello del cinema più colto e vicino per contenuti ai popoli del Vecchio continente, per i quali è passato il tempo dell’obiezione grammaticale e sintattica che lo rendeva quasi sempre inguardabile, causa l’abitudine all’evolutissimo linguaggio filmico hollywoodiano. Su di esso si è sviluppato l’imperialismo cinematografico americano che, a volte indossando panni d’agnello, ha cercato, con successi parziali, di penetrare nel piccolo, barattando con astuzia segni d’identità socio territoriale con allettanti prospettive di guadagni (ottica glocal). Fino a pochi semestri fa, il povero spettatore italiano (ma anche europeo…) era sommerso da fiction miliardarie non sempre intelligenti e costosissimi gadget tridimensionali proposti in sclerotizzati circuiti distributivi, trovandosi a fruire di un cinema che, con l’incedere del cambiamento epocale che stiamo vivendo, aveva sempre meno a che fare con la sua vita (che, oltretutto, assomigliava sempre meno a quella di New York, Seattle, Los Angeles).
Va detto, però, che, mentre il tallone dei globalizzatori hollywoodiani pesava sulle nostre schiene, sotto l’ombrello della loro industria cinematografica spuntavano irrefrenabili espressioni di cultura e civiltà locale. Oggi, senza farne un’ideologia, non è più la forza centrifuga della crescita economica mondiale a guidare le danze, è il risorgere (attenzione: non conflittuale, nessun oscurantismo!) delle economie e delle culture locali a ispirare una nuova estetica per le arti, ivi incluso il cinema. Poi, per ciò che concerne cinema e fotografia, le tecnologie che consentono produzioni di buona qualità, si stanno rendendo sempre più disponibili e l’ipermediatizzazione toglie vincoli a un certo tipo di comunicazione, inducendo una diversa architettura di prodotto-mercato nel cinema come in ogni settore, economico e non.
Il punto, infatti, non è più tecnologico: abbiamo sanato il gap. E dunque, il punto strategico anche nel cinema è ritornata l’intelligenza e la qualità della proposta semiologica e drammaturgica. Cioè, finalmente si può tornare a fare buon cinema senza essere a Hollywood se si ha qualcosa da dire e lo si sa dire nei modi di quell’arte.
Mi sento di affermare che proprio sotto l’ombrello di Hollywood ci sono oggi le condizioni per produzioni locali/nazionali di altro livello artistico, con investimenti finanziari appropriati ai mercati delle diverse culture europee, purché tali produzioni siano dotate di molta intelligenza semio-cinematografica. Infatti, questa condizione di qualità creativa si è già verificata, ed è stato possibile finanziare piccole produzioni intelligenti soprattutto grazie al mercato, con il semplice commercio dei biglietti, delle coproduzioni con canali televisivi quasi di quartiere, col digitale e con qualche sponsorizzazione. Il tutto a livello unicamente locale e meno che nazionale.
La condizione di ciò è stata giustappunto l’intelligenza semio-cinematografica. Rivolgersi al contesto locale significa parlare la sua lingua, il suo “dialetto”. Invece, la situazione odierna mostra che è l’Italia intera a creare nel cinema questo recupero d’identità, e così diventano scenografia le sue mille, bellissime e diverse città. Si è finalmente aperto quel bacino lobal (“lo” di local e “bal” di global), che produce per il contesto locale e s’affaccia al globale per sfruttarne la grande esperienza di linguaggio filmico, di tecnologia e di organizzazione e presenta, come “teatro” le centinaia di dimensioni culturali del nostro bellissimo Paese.
Ciò detto, è chiaro che il piacere di questo cinema lobal, ove il Locale è tornato di livello nazionale com’era nel dopoguerra e fino al Neorealismo, provenga da fattori d’intrattenimento diversi da quelli globali hollywoodiani. I budget commerciali possibili a livello locale/nazionale consentono lo stesso tutto l’essenziale e anche alcuni gradi del favoloso superfluo tipico del mito del Cinema. Rimane difficile la produzione sistematica di grandi animazioni o di grandi ricostruzioni almeno a breve medio termine, su cui è regina (e la rimarrà…) Hollywood. Invece, è disponibile solo all’intelligenza del cinema lobal il grande spettacolo della riproduzione romanzata della vita corrente di una terra europea, una città o una provincia, con molti esterni in posti riconoscibili, con comparse estratte dai vari ambienti sociali locali, con la ambientazione in bar e ristoranti conosciuti, le sue vie, i suoi monumenti. E poi gli usi e i costumi, lo stile d’interpretazione e le sfumature della lingua, lo stile di casa delle famiglie… Questi sono gli ingredienti che stanno dando vita a una nuova esperienza estetica del settore cinematografico anche in Italia, adatta a tutti i fattori del rinnovato rapporto tra il locale e il globale dovuta alla maturazione della globalizzazione e della sua filosofia e sostanza economica.
La sorpresa è che è stato sanato il deficit filmico dei cineasti italiani. Rimane che il futuro non è sicuro, e l’idea ingenua, dilettantesca e poveretta di “essere nel cinema” deve venire pesantemente moderata dalle dimensioni non principesche delle produzioni. Però, si inizia ad avvertire la presenza di aria nuova e più sana, con questo cinema italiano in netta ripresa. La prospettiva LO-BAL (il Locale che usa il Globale) in questi mesi, sta dando altri ottimi frutti, tra cui sempre Garrone, Adagio di Sollima, la Cortellesi, Enea di Castellitto. Non più alcuni casi isolati nei decenni, ma una stagione di bei lavori. Non più un’Italia di grandi registi che s’inchinano a Hollywood che s’inchina magari poi a loro (Antonioni, Bertolucci, Fellini, …) ma attenti studiosi dell’arte filmica che hanno capito, in particolare per il pubblico italiano, che Seattle non è più interessante di Firenze, e New York perché no di Roma, qualora se ne parli in modo sintattico e grammaticale (filmico) corretto. C’è stata un’epoca di ignoranti prepotenti. Oggi invece troviamo competenti avveduti e, anche (giustamente), più modesti.