CookOut, un pasto al sole – Trippa alla romana


La trippa appartiene al quinto quarto, cioè quella parte dell’animale non considerata taglio nobile ma composta di frattaglie, interiora e altri scarti commestibili. Un tempo questi tagli erano destinati alla cucina povera, oggi invece grazie all’evoluzione gastronomica anche i ristoranti di gran grido hanno iniziato a proporli. Contrariamente a quanto si crede, le trippe sono molto digeribili, ricche di proteine, povere di grassi e, quindi, con poche calorie. Si parla di trippe al plurale perché la trippa è composta da più parti derivanti dagli stomaci del bovino (e non dall’intestino come qualche ignorante crede!). Abbiamo infatti esofago, rumine, reticolo, omaso, abomaso e duodeno, che in cucina assumono nomi meno anatomici e più intriganti.
La trippa è un piatto molto antico (si narra che venisse consumata cotta sulla brace già dagli antichi greci) e già dai tempi dei Romani è entrato a far parte della tradizionale cucina povera di tutta l’Italia. Ciascuna regione ha sviluppato una ricetta che nel tempo ha assunto quella tipicità che ancora oggi viene riconosciuta. Ad esempio la trippa alla parmigiana, ricca di sugo e di parmigiano reggiano, la trippa alla milanese (la famosa ‘busecca’) che contempla anche i fagioli, le trippe in bianco alla napoletana o la trippa alla genovese, con le patate o le fagiolane (fagioli bianchi della varietà Bianco di Spagna che viene coltivato nella val Borbera e nelle zone limitrofe) e addirittura (nella ricetta cosiddetta ’all’antica’) con i funghi secchi. I fiorentini poi, gente raffinata (o schizzinosa, fate voi) utilizza solo uno degli stomaci, l’abomaso, per fare uno dei più apprezzati cibi da strada del nostro Paese: il lampredotto. In Sardegna si sono inventati il ‘belu’, piatto di trippe ricavate dallo stomaco del tonno, ormai introvabile se non in famiglia. Una squisitezza tutta settentrionale è poi il minestrone con la trippa:piatto prelibato da gustare nelle fredde sere invernali. Cito solamente un’altra curiosità: la trippa di Moncalieri, ricetta piemontese che prevede di comprimere la trippa una volta cotta come fosse un insaccato e quindi tagliarla sottile a mo’ di carpaccio. Una squisitezza d’altri tempi.
In questa congerie di ricette non poteva mancare una ricetta che nel Lazio e soprattutto della città di Roma, si è trasformato negli anni da alimento povero a piatto nobile e molto ricercato. Era un alimento consumato dalle persone più umili, perché essendo la parte meno pregiata del bovino e snobbata dalla nobiltà e dalla borghesia come tutte le frattaglie, era alla portata delle persone meno abbienti. La trippa viene profumata con due ingredienti d’eccezione: menta romana e pecorino romano, proprio come la cucinava la mitica Sora Lella, attrice romana e proprietaria dell’omonimo ristorante, sorella del celebre attore Aldo Fabrizi. Per tradizione la trippa alla romana si mangia durante il pranzo del sabato, tanto che ancora oggi fuori da molte trattorie trasteverine spicca il cartello “sabato trippa”.

Cosa serve (per 4 persone):
1 kg di trippa mista
500 g di pelati (oppure passata liscia)
70 ml olio extravergine d’oliva
1 spicchio d’aglio
1 cipolle dorata
1 carota
1 costa di sedano
150 g di pecorino romano
1 bicchiere di vino bianco secco
Qualche foglia di menta romana
3 chiodi di garofano (facoltativo)
sale
peperoncino q.b.
pepe nero in grani da macinare
1 bicchiere d’acqua

Come si fa:
La trippa che trovate dal macellaio o nei supermercati di solito è già pulita e lessata; mettetela comunque a bollire per 10 / 15 minuti per sgrassarla meglio, dopodichè sciacquatela e tagliala a listarelle, puoi usare le forbici.
In un tegame versate l’olio, lo spicchio d’aglio, la cipolla affettata fine, la carota lavata pulita e tagliata a rondelle, e la costa di sedano tritata grossa. Non tagliale troppo fine la carota: è piacevole ritrovarsela in bocca e masticarla. Accendete la fiamma e appena il soffritto inizia a sfrigolare, unite la trippa. Insaporitela con il sale, il peperoncino, i chiodi di garofano e la menta, mescolate per bene con un cucchiaio di legno e lasciate cuocere a fiamma bassa per circa 20 minuti: la trippa dovrà insaporire e asciugare l’acqua che tirerà fuori, quindi ogni tanto controllatela e mescolate, anche per evitare di farla attaccare.
Attenzione: non sempre la trippa tira fuori la sua acqua, forse dipende dalla qualità o dalla bollitura subita, perciò in questo caso se vedete che resta abbastanza asciutta, dopo averla fatta insaporire con il soffritto, sfumate subito con il vino come descritto al passaggio seguente.
Appena sarà leggermente rosolata e priva della sua acqua, alzate leggermente la fiamma e sfumate con il vino bianco, quindi lasciatelo evaporare fino a che non ne sentirete più l’odore. Ora unite i pelati che avrete precedentemente schiacciato per bene con le mani (lavatevele prima e dopo, come quando andate in bagno!), mescolate e lasciate cuocere per dieci minuti con il coperchio, per insaporire bene tutto. Versate un bicchiere d’acqua, coprite di nuovo e terminate la cottura, mescolando ogni tanto, per due ore circa. Se dopo 2 ore la trippa non sarà ancora ben morbida ma risulterà ancora gommosa, proseguite la cottura anche per un’altra mezz’ora.
Il sugo dovrà ritirarsi bene, prendendo tutto il sapore di questo piatto favoloso. A fine cottura, spegnete la fiamma, lasciate riposare un paio di minuti e aggiungete una spolverata di pepe macinato di fresco e il pecorino, mescolando per mantecare tutto l’insieme. Impiattate la trippa ben calda con un’ulteriore leggera spolverata di pecorino e una foglia di menta per guarnizione, non dimenticando il pane per la scarpetta.
Esistono due versioni della trippa alla romana, praticamente identiche: l’altra prevede di unire il pecorino ad inizio cottura. Sicuramente quest’ultima conferisce tutt’altro profumo e sapore ma risulta più difficile da controllare in cottura, in quanto il formaggio potrebbe filare o attaccarsi al fondo regalandovi un disastro che potrete solo lasciare al vostro cane.
La trippa alla romana può essere conservata per 2 giorni in frigorifero, scaldandola poi all’occorrenza.