Le basi delle nuove scienze sociologiche ed economiche


Sono felice di avviare un dibattito sullo statuto epistemologico di alcune scienze sociali, tra cui di certo la mia Sociologia, mai più la stessa dopo l’esperienza clinica di circa 1000 casi di sociatria organalitica, Ma anche la sua importantissima parte che è l’Economia è coinvolta in questa revisione: è chiaro da questo fatto come l’economia sia una funzione sistemica della società umana e come dunque sia primaria nelle logiche di miglioramento complessivo di essa. Non è un caso come la struttura dell’economia industriale sia stato il casus scatenante delle più sanguinose rivoluzioni della storia: la rivoluzione francese del 1789, ove la nuova classe economica della borghesia acquisito il grande potere economico dovuto all’uso dei mezzi di produzione tecnologici (le macchine) affermava la sua esistenza nelle stanze del potere, la rivoluzione comunista in Russia nel 1917, ove al seguito delle teorie della lotta di classe e del materialismo storico marxiano la classe operaia rivendicava la proprietà di quei mezzi di produzione, e la rivoluzione culturale in Cina nella seconda metà degli anni ’60, che creava sanguinosamente (come le altre…) le condizioni per l’affermazione di una cultura propensa allo sviluppo economico industriale. Credo che sia una ipotesi del tutto sensata anche quella di attribuire alle due guerre mondiali e soprattutto alla seconda la caratteristica di confronto tra insiemi societari industrializzati per il predominio nel mondo, sotto una forma geopolitica che è perdurata sino quasi all’affacciarsi del terzo millennio, quando la geopolitica è stata superata, ma non annullata del tutto, dall’insorgere di nuovi poteri economici globali e apolidi.
Il punto più significativo dell’epistemologia delle scienze sociali riguarda la dialettica tra teoria e prassi: come già nella Psicologia, la prassi, la clinica, la modalità sperimentale ha trovato, nelle scienze sociali più operative (Sociologia ed Economia intanto), analoga anche se non identica, affermazione.
Il versante della prassi, organizzata metodologicamente e sistematicamente, come volle la loro specifica euristica, ha apportato a queste 2 discipline sostanziali innovazioni, a tutto scapito della teoria, del semplice pensiero, che non agisce nel caso dei sistemi aperti come nel caso dei sistemi chiusi. Il mito della esattezza a tutti i costi è fortunatamente decaduto anche grazie ad Heisenberg, Einstein, Freud, Adorno. E, mi si consenta, è una cosa da vecchi retori, da marpioni del pour-parler di vario livello, e sono generosi eufemismi, ributtarla in filosofia senza essere stati prima sul campo o avendo almeno ascoltato coloro che il campo l’hanno praticato in mode esteso e intenso con serie ipotesi scientifiche.
La disciplina filosofica, oltre che arte del pensiero, ha in sé il requisito della massima estensione del sapere documentato negli ambiti disciplinari di cui si occupa: quindi se ci sono novità significative deve proprio occuparsene, come fecero i marxisti di Francoforte con Freud. Inoltre, per suo statuto, la filosofia è anche l’unica disciplina che ha al suo interno la sua stessa critica come oggetto intrinseco. La “Storia del pensiero filosofico” è l’unica storia legittima del pensiero, il quale, però, non è più sufficiente per la psicologia. Infatti, la “Storia del pensiero psicologico”, ha lasciato il suo campo della riflessione teorica sull’uomo, il qui-unde-quo, per un nuovo campo conoscitivo creatosi col grande sviluppo della clinica, ove entra in gioco vigorosamente la prassi, con effetti di certo gnoseologici e non riconducibili alla semplice descrizione teorica, proprio perché espressione di sistemi aperti coi quali si dialoga operativamente e che per loro natura non sono racchiudibili in ambiti concettuali soltanto, come è proprio del lavoro filosofico.
La disperata resistenza di filosofi-e-basta a questa visione (e) pratica, a questa fonte di vero sapere ricco di metodo sperimentale nei campi delle scienze sociali, ha anche a che fare con alcuni requisiti psico-professionali del mestiere di sociologo, economista, psicologo (ma questi ultimi sono già arrivati: la clinica, lo spirito sperimentale ha vinto già da più di un secolo), che il bravo scienziato dovrebbe sempre considerare in una sua quotidiana autoanalisi e quindi detenere. Le abilità relazionali, le umiltà di approccio per entrare davvero nella fisiologia delle società umane che devono decidere di aprirsi per dare vera conoscenza allo scienziato, le capacità di organizzazione per arrivare ad avere campioni significativi della materia che deve essere condotta a sapere appropriato, ad esempio, non sono requisiti tipici del lavoratore del solo intelletto e della gran parte degli accademici in quei campi: diversa organizzazione del lavoro intellettuale, con l’immissione della clinica, non più protezioni ex-cathedra, esigenza di organizzarsi per moltiplicare l’esperienza, dato che la condizione di sistema aperto dell’oggetto sociologico (ma anche economico e psicologico) sono necessarie per il contatto esteso e continuativo con le società umane. Queste ultime, essendo sistemi aperti cioè dotati di autonoma discrezionalità, capacità evolutiva e varianze, richiedono il contatto stretto e la continua taratura delle cognizioni, in un dosaggio tra certe, meno certe e di diverso grado (spesso identificabile) di aleatorietà.
Che occorra fantasia, visione e onestà intellettuale per riconoscere nel ciclo del sapere della disciplina eventuali campi non praticati accademicamente, e fare i doverosi passi indietro che l’attualità richiede, per indurre passi avanti all’Università cioè all’Umanità, non mescolare le carte in tavola per difendere un sapere valido ma dal nome divenuto troppo esteso e quindi erroneo, mi sembra il minimo deontologico soprattutto per un professore, che ha responsabilità pedagogiche, e anche soltanto per un intellettuale serio.
La mia posizione, che è accoratamente contributoria riguarda quindi la differenza tra chi ha operato sull’economia e sulla sociologia in modo abbastanza esteso e intelligente, e chi non l’ha fatto, tra cui quelli che han fatto solo teoria nelle Università. Questi ultimi possono essere rispettabilissimi filosofi. Essere economista, sociologo, psicologo, e gli storici lo sanno benissimo data l’attenzione che prestano alla analisi delle fonti, è ben di più che essere semplici ottimi artigiani del pensiero. Perché, repetita iuvant, c’è la clinica di mezzo, che è la risposta alla condizione di apertura dei sistemi di riferimento. Cioè, l’unica risposta seria e matura dal punto di vista scientifico, e il vero salto epistemologico della disciplina.
Facile per un cocchiere criticare i mezzi a motore, puntando sull’avversione di intellettuali solo di nome, perché i veri intellettuali la questione se la sono posti da secoli, e hanno saputo fare onesti passi indietro. Se i confronti tra filosofie sono quanto mai legittimi e questioni di semplici filosofi, il rapporto con la prassi è un’altra cosa. E io non mitizzo, non è la mia, la cultura manageriale: essa è cosa da aziendalisti, un gradino inferiore rispetto ai sociatri. Ma i filosofi stanno ancora più sotto: perché gli “ottusi” aziendalisti hanno esperienza pratica e verificano i risultati del loro agire, i filosofi invece molto spesso non sanno di cosa parlano e non hanno prove delle loro idee, solo antichi e superati criteri di non contraddittorietà e semplice consenso ideale o addirittura ideologico. In breve, il ciclo della filosofia, bellissima e affascinante, non ha molto a che vedere con il completo sapere scientifico dato dall’empirismo prima e poi dal metodo sperimentale, utilizzato nelle diverse situazioni di sistemi chiusi e di quelli aperti delle scienze sociali e umane, con tutte le metodologie di appropriato riferimento.
Anche nella Sociologia la pura filosofia deve cambiare, specializzandosi in aspetti intuitivi e germinali e divenire attrezzatissima in termini di studio di qualsiasi prima fase del sapere, cioè nell’euristica, ma non assolutamente nella copertura dell’intero ciclo gnoseologico. E, in particolare, non esserne guida, nessuna supponenza possibile per questi filosofi, ma solo la loro schietta consapevolezza che il ciclo del sapere, che loro magari avviano con idee e ipotesi di ricerca, debba trovare consolidamento oa anche rivoluzione profonda lungo il percorso della prassi. Il sociatra rivendica questa dimensione della ricerca filosofica, opportuna e necessaria all’avvio di ogni sapere sociologico. Ma deve essere un clinico anche, un chirurgo in senso etimologico, mettere cioè le mani nelle società umane per ottenere la verifica sperimentale delle sue ipotesi e, in progressione, formularne altre per il caso in questione data la semovenza del soggetto d’intervento e poi, per sommatoria, altre ancora vieppiù generali, come effetto di verifica “sperimentale” di congetture e idee. Il lavoro filosofico si appoggia alla clinica nella sua dimensione di linguaggio, con cui documenta e interviene, e che produce sapere descritto e intervento e prova. Sempre quel ciclo linguistico, che produce il cambiamento, la verifica del sapere e dunque l’appropriato grado di certezza scientifica. Insostituibile la clinica nei sistemi aperti.
Tutto normale, no?
E perché non prenderne atto, riconoscere i mammouth e collocarli dove meritano, cioé nei libri di storia?