Attenti alle pubblicità ingannevoli


In questi giorni circola in televisione lo spot pubblicitario di una nota marca di tonno che promette di aiutare l’ambiente raccogliendo ben seimila chilogrammi di plastica dal mare in collaborazione con un’organizzazione di nome Ogyre.
Occorre però fare una premessa: c’è tonno e tonno. Delle numerose specie di tonno esistenti, sono due quelle che possiamo trovare più di frequente in scatola: il tonnetto striato (Katsuwonus pelamis) o Skipjack e il tonno pinna gialla (Thunnus albacares) noto anche come Yellowfin e il tonno obeso (Thunnus obesus). Queste sono considerate specie altamente migratorie e si trovano nelle acque tropicali dei tre oceani. Nulla a che vedere, naturalmente, con la squisita e assai più costosa varietà Tonno rosso (Thunnus thynnus), detto anche – con la coerenza di un prete bigamo – ‘tonno pinna blu’, presente nel Mediterraneo e in alcune zone dell’Atlantico, ossia quello pescato dalle nostre tonnare. Tuttavia la diffusione dei tonni oceanici e la loro maggiore economicità fanno sì che siano essi a finire assai più frequentemente in scatola. Tra di essi, il tonno pinna gialla è il pesce che, dopo la lavorazione, meglio risponde alle richieste del consumatore italiano, sia per il gusto sia per l’aspetto della carne, compatta e rosea. Il tonnetto striato, invece, è caratterizzato da una carne tenera e più chiara, ha quotazioni inferiori ma costi di produzione maggiori per via delle dimensioni più piccole. Questa specie viene inoltre spesso associata alla pesca con FAD (dispositivi aggregatori di pesci), metodo criticato dalle associazioni ambientaliste perché favorisce la cattura di specie di piccole dimensioni. Nel mercato del tonno in scatola sottolio le “marche del distributore” (MDD) hanno una presenza significativa, rappresentando circa il 19% delle vendite. Sugli scaffali dei supermercati si trovano confezioni di tonno con il marchio dell’insegna, confezionate dalle grandi aziende del settore che però possono utilizzare una materia prima diversa. È il caso di alcuni tonni all’olio di oliva, prodotti da marchi famosi secondo un preciso capitolato. Nei supermercati è possibile rilevare sullo stesso scaffale le confezioni di entrambi i marchi con la differenza sostanziale che per il marchio del distributore si usa tonno della specie pinna gialla mentre quelli a marchio inscatolano il connetto striato anche se entrambi provengono dallo stesso stabilimento. Lo stesso Skipjack è presente nelle confezioni a marchio dei grandi Discount, grazie al miglior prezzo che questi riescono a spuntare sul mercato.
Fatta questa doverosa premessa, che ci aiuterà (soprattutto voi) a capire il seguito, Ogyre è una piattaforma per il recupero di rifiuti dal mare che opera (dice) in tutto il pianeta facendo una campagna di ‘crowd funding’ per finanziare i pescherecci che ogni giorno raccolgono e separano la plastica che finisce nelle loro reti. Quella della plastica in mare è indubbiamente una delle grandi emergenze planetarie e l’azione di questa e altre organizzazioni è assolutamente meritoria benché ancora su piccola scala. La plastica non è biodegradabile e rimane in mare per millenni. Si stima che nel 2050 se si andrà avanti di questo passo in mare ci sarà più plastica che pesce. Basti pensare che ciascuno di noi ingerisce ogni settimana 1,5 grammi di microplastiche disperse in mare e nell’ambiente. E’ come se ogni settimana ingoiassimo una carta di credito: sicuramente ci farebbe risparmiare ma siccome non siamo dei POS non sarebbe così salutare.
Ogyre deriva da Ocean Gyres, correnti oceaniche circolari, oggi tristemente note per intrappolare le plastiche galleggianti in enormi isole di rifiuti. Per far si che le Ocean Gyres tornino ad essere un circolo virtuoso e vitale per l’oceano, che ricordiamo essere la casa dell’80% delle specie viventi, Ogyre raccoglie fondi con cui finanzia i pescherecci che volontariamente raccolgono le plastiche che finiscono nelle loro reti, le smistano e le rendicontano conferendole quindi ai partner che le trasformano in qualcosa di utile, come ad esempio il pile. I tessuti di poliestere riciclato e altro ancora.
Fin qui tutto ok. Purtroppo c’è sempre qualche pubblicitario che furbescamente approfitta delle altrui azioni positive per dare una patente di bontà o di ecosostenibilità al suo prodotto, abbindolando il povero telespettatore facendogli credere che la Luna è di formaggio (non è vero, sapete? Sono solo sassi).
Tempo fa Report aveva svelato la bufala del Made in Italy della moda, con i maggiori stilisti che facevano produrre e tingere i propri tessuti in Cina, in condizioni igieniche e di sicurezza spaventose. Vi sono numerosi altri casi del genere, e infine arrivano i Marchi che dichiarano di raccogliere ben 6000 kg di plastica con l’aiuto di un’organizzazione a livello mondiale. Seimila kg?
Cioè sei tonnellate? Ma avete idea di quanto esigua sia questa quantità rispetto ai milioni di bottiglie e altro che ogni giorno finisce in mare? La stessa Ogyre ha l’obiettivo dichiarato per il 2024 di raccogliere 1,5 milioni di kg di plastiche dal mare, che è comunque poco, ma almeno è una quantità significativa, mentre 6 mila kg è veramente un’inezia, giusto per darsi una veste di amici dell’ambiente, mentre poi vendono anche tonni di bassa qualità.

Fonti:
ogyre.com
ilfattoalimentare.it
wikipedia.it