L’affare della collana (2a parte)


Temendo, a ragione, le conseguenze di un processo pubblico, il Maresciallo di Francia, Marchese de Castries ed il Presidente del Consiglio delle Finanze, Conte di Vergennes, cercarono, con tutto il dovuto rispetto, di dissuadere la regina dal pretendere l’arresto del Cardinale Louis-René-Édouard de Rohan, Principe di Guéménée, Grande Elemosiniere del regno. Proposero al re di sistemare personalmente la questione dell’alto prelato, anche se il Ministro della Maison Royale, Louis Charles Auguste de Breteuil ed il Guardasigilli, Armand-Thomas Hue de Miromesnil, erano di opinione contraria. Maria Antonietta, irremovibile, chiese che il cardinale scegliesse, lui, la giurisdizione preferita, ed in fretta, perché la sua reputazione era sempre più compromessa. Senza ulteriori esitazioni, Luigi XVI ordinò che questa decisione venisse comunicata a Rohan, il quale optò per essere giudicato dal Parlamento di Francia, cosa oltremodo pericolosa, per la corona, poiché quella sede, che fungeva, sia da tribunale, che da ufficio di registrazione degli editti reali, si era sistematicamente opposta a tutte le decisioni regali, fin dal 1774. Considerati gli interessi in gioco, l’autorità del sovrano correva il grosso rischio di venir indebolita da quella inchiesta.
In effetti, le malelingue si erano già messe in moto e le chiacchiere maliziose trovavano eco nei giornali. La gente era incantata da quel dramma così inconsueto, che aveva come protagonisti una regina ed un principe della Chiesa. E, per quanto tutti si dividessero nel descrivere la depravazione del prelato libertino, Maria Antonietta non veniva affatto risparmiata. Molti ritenevano, che lei avesse accettato il dono della collana, in cambio di favori particolari. Si insinuò addirittura, che si fosse servita di Rohan, per trasmettere alcuni segreti di stato al fratello, Giuseppe II d’Asburgo-Lorena, Imperatore del Sacro Romano Impero il quale, peraltro, venuto a conoscenza dell’accaduto, non riusciva a credere che, nonostante un’esecrabile leggerezza, il cardinale potesse essere colpevole di una truffa così enorme. Comprese, altresì, i rischi, che una faccenda di quel genere comportava per la sorella.
Nonostante i balli, i concerti, le rappresentazioni, le battute di caccia e gli intrattenimenti che aveva programmato, la regina non era brava a nascondere la propria inquietudine. Quella donna, di solito così gentile e sicura di sé, era afflitta da una stanchezza, che rasentava il disgusto. L’affare della collana la preoccupava più di ogni altra cosa. Si teneva quotidianamente informata sull’inchiesta giudiziaria che, peraltro, non stava procedendo affatto come lei aveva sperato. Del resto, il compito dei magistrati non era facile. Breteuil aveva impartito i suoi ordini. Il cardinale doveva essere smascherato come truffatore, falsario e responsabile dell’intera macchinazione, mentre Madame de La Motte non doveva comparire come sua complice. Tuttavia, i parlamentari erano sempre più scettici, nonostante l’assoluta convinzione, che la matassa si sarebbe potuta dipanare, solo attraverso l’arresto ed il rigido confronto delle deposizioni, confronto non privo però di difficoltà e povero di testimoni fondamentali.
Jeanne de Saint-Rémy de Luz de Valois, contessa de La Motte, che tra l’altro morì, solo trentunenne, a Londra nel 1791, amante del Cardinale de Rohan, che si manteneva con i doni generosi del potente protettore, aveva intravisto in lui un uomo abbastanza ingenuo da diventare lo strumento di una truffa, che lei stessa aveva messo in piedi, completamente da sola. Per convincerlo di possedere uno splendido rapporto personale con la regina, in grado di offrirgli la garanzia della disponibilità di Sua Altezza a dimenticare l’alterco, peraltro banale, che l’aveva allontanata da lui, era ricorsa ad un sotterfugio, sfruttando la strabiliante somiglianza di una prostituta, tale Mademoiselle d’Oliva, incontrata dal marito Monsieur de La Motte nei giardini del Palais-Royal, una sera d’estate, con Maria Antonietta ed inscenare il fatale incontro notturno. Ed era stato così, che Rohan aveva creduto di rendere omaggio alla sua sovrana, mentre in realtà si era inginocchiato davanti ad una sgualdrina. L’importante, per la nobildonna, era non suscitare sospetti nel prelato, il quale avrebbe potuto sorprendersi del fatto che la sovrana continuasse ad essere fredda con lui, come lo era prima dell’appuntamento. L’intrigante contessa aveva previsto tutto. Aveva convinto Rohan, che la regina voleva intrattenere con lui una corrispondenza segreta. A tal fine, gli consegnava lettere, scritte invece dal suo corrisposto spasimante, Armand Gabriel Réteaux de Villette, il quale confessò poi di averne redatte circa un centinaio, “intime ed affettuose”, quelle stesse che Rohan distrusse prima di essere arrestato. Il conte Jacques-Claude Beugnot, che sarebbe poi divenuto ministro di Luigi XVIII, ma che all’epoca era solo un giovane avvocato, perdutamente innamorato di Madame de La Motte, aveva aiutato quest’ultima a bruciare quelle in risposta del cardinale. In seguito avrebbe ricordato, che il loro tono era equivoco, per non dire di peggio. La contessa, che aveva estorto ingenti somme di denaro al Rohan, ma voleva di più, ne intravvide l’opportunità, dopo un incontro con il gioielliere tedesco Charles-Auguste Böhmer. Gli aveva parlato del desiderio della sovrana di acquistare una collana ed aveva fatto redigere, dal suo amante falsario, il contratto firmato “Marie-Antoinette de France”. Il cardinale, caduto nella trappola, portò il prezioso monile a Madame che, con l’aiuto del marito e del de Villette, la smontò, vendendo singolarmente, a basso prezzo, i diamanti. Questo, in parole povere lo scenario che i giudici ricostruirono.
Il cardinale, che continuava a sostenere la propria versione dei fatti, non poteva provare nulla. I suoi parenti e gli amici, avevano capito che qualcuno ne voleva la rovina ed iniziarono a condurre un’indagine parallela. Erano stati loro a portare alla scoperta dei complici della contessa che, una volta arrestati, avevano fornito le prove mancanti. Mademoiselle d’Oliva e Réteaux de Villette, tra gli altri, avevano ammesso i propri crimini ed accusato la de La Motte.
Man mano che l’indagine proseguiva, l’umore di Maria Antonietta si incupiva. L’opinione pubblica riteneva che Rohan fosse vittima della regina e continuava a crederla colpevole. Mai, prima di allora, era stata trascinata in quel modo nel fango. Il processo del prelato divenne il suo processo. Insistendo perché venisse condannato per frode, contraffazione e lesa maestà, lei intralciava il corso della giustizia. Sebbene alcuni magistrati fossero assolutamente devoti alla monarchia ed alla persona di Luigi XVI, la maggior parte di loro criticava ferocemente quello che definiva “dispotismo reale” e rifiutava di farsi imporre una decisione legale, soprattutto dalla regina. Del resto, per loro la principale colpevole era la de La Motte, perciò ritennero opportuno punire lei ed i suoi complici. Quanto al cardinale, il suo crimine era stato solo quello di lesa maestà. Il 30 maggio 1786, tra una folla tesa ed emozionata, con tutto il clan dei Rohan, che attendeva l’udienza in abito da lutto, il procuratore ricapitolò le argomentazioni, si dilungò sulla posizione dell’imputato sottolineando, con solennità, che il suo era stato un vero “insulto”, commesso contro la persona della regina e, di conseguenza, di Sua Maestà il Re, definendolo “un crimine che esige la più autentica e solenne riparazione”, ed accusò Madame de La Motte, che continuava a dichiararsi innocente, di essere una pericolosa avventuriera. Il giorno seguente, dopo un’attesa iniziata alle sei del mattino e terminata alle dieci della sera, fu emesso il verdetto, sul quale erano state ipotizzate valanghe di scommesse. Giudicata colpevole, la presunta discendente di Enrico II di Valois, che aveva regnato poco più di due secoli prima, fu condannata ad essere pubblicamente frustata, marchiata con i ferri arroventati recanti la “V” di “voleuse” (ladra) ed imprigionata a vita. Suo marito, fuggito in Inghilterra, venne condannato in contumacia. Fatta eccezione per Réteaux, bandito dal regno, gli altri complici furono “solo” espulsi da corte. Quando giunse la notizia dell’assoluzione del cardinale, una folla esultante, accorsa sotto la Bastiglia, dove doveva trascorrere ancora una notte, incominciò a gridare, per ore, “Vive le Cardinal!”.
Per la regina fu davvero una grossa sconfitta ed il fatto che i magistrati non avessero eseguito i suoi ordini, lo lesse come un ulteriore crimine di lesa maestà. Il re, indignato dal verdetto, pretese le dimissioni del Principe de Rohan dalla carica di Grande Elemosiniere e lo esiliò nella sua abazia di La Chaise-Dieu, nell’Auvergne.
Quel provvedimento offese i partigiani del cardinale, sia nobili che borghesi. Luigi XVI si inimicò del tutto, e definitivamente, un parlamento che, peraltro, fin dalla sua ascesa lo aveva contrastato in diverse occasioni, valutando il proprio potere in rapporto a quello del re e rafforzando la censura nei confronti dell’assolutismo reale. Quell’incredibile scandalo macchiò per sempre l’immagine della regina. Fu biasimata per aver interferito, sebbene di ciò non vi fu nessuna prova concreta a confermarlo. Si ipotizzò, che avesse architettato tutto per rovinare la reputazione di un uomo che disprezzava e si sollevarono molti interrogativi sul suo vero ruolo nella faccenda. Gli anni trascorsi nell’irresponsabilità e nella frivolezza deposero a suo sfavore. In più, se Rohan, che conosceva molto bene la corte, aveva permesso che una truffatrice approfittasse di lui fino a quel punto, era stato certamente perché la regina era capace di atti di depravazione.
A causa di quella stupida infelice vicenda, Maria Antonietta venne giudicata una donna perfida e corrotta, che saccheggiava le casse del regno per il suo piacere personale ed approfittava della debolezza del re, tradendolo sia come marito, per soddisfare i propri istinti lussuriosi, e sia come sovrano, per favorire gli interessi politici dell’imperatore austriaco. Quella stupida infelice vicenda fu, per il popolo e, soprattutto, per l’avvilita borghesia, la goccia che fece traboccare il vaso, contribuendo pesantemente alla distruzione della millenaria ed inossidabile monarchia francese.
Lei, che per la storia è stata l’ultima regina di Francia, salì con spavalderia e provocatoria fierezza i ripidi scalini, che conducevano al suo patibolo. Era il 16 ottobre 1793.