PsicologicaMente – La speranza


“Soffre più chi spera sempre o chi non sperò mai in nulla?” (P. Neruda)

Cari lettori,
Oggi vorrei parlare di Speranza. Questo sentimento che spesso invochiamo, perdiamo e poi ricerchiamo, quello stato d’animo che identifichiamo come un’attesa fiduciosa di un evento positivo che cambi in meglio le sorti di una situazione.
In psicologia la speranza non muta significato, rappresenta prima di tutto la volontà e poi la capacità di affrontare e sostenere alcune circostanze e situazioni quotidiane o straordinarie avendo fiducia nella personale abilità di trovare la migliore soluzione possibile.
Si tratta di un’attitudine che nasce e si sviluppa nell’individuo durante la crescita, un meccanismo di autodifesa che si rafforza pian piano, necessario per superare gli ostacoli cui la vita ci sottopone e che necessita della capacità di sopportare l’incertezza e l’assenza di soluzioni tempestive.
La speranza fu interpretata come spinta motivazionale per la prima volta da Karl Menninger, uno degli psichiatri più influenti d’America nel secondo dopoguerra, egli la definì come un’ “attesa positiva”, soprattutto evidenziò il suo ruolo primario nella probabilità di successo di un percorso terapeutico. Menninger sostenne che un approccio diffidente o, viceversa, fiducioso di un paziente rispetto al percorso terapeutico intrapreso è sicuramente il più importante elemento che consente di prevedere la possibilità di successo o le difficoltà che potranno presentarsi.
Altro studioso dell’argomento fu Erikson che si soffermò sul ruolo che la speranza gioca nell’evoluzione del bambino e nella formazione del Sè. Egli giunse ad affermare che un atteggiamento fiducioso è senza dubbio la fondamentale qualità che accompagna la spinta evolutiva del piccolo uomo, il quale nasce già teso alla ricerca di esperienze positive di accettazione ed affidamento.
Al di là della dimensione evolutiva, affermò Erikson, la speranza interviene anche sulla dimensione cognitiva e motivazionale perché stimola il raggiungimento dei propri obiettivi e rappresenta un nutrimento per la propria autostima e forza di volontà.
Durante l’infanzia il ruolo dei genitori, quali garanti nel trasmettere ai figli la fiducia nelle loro capacità di evolversi e realizzarsi, è decisivo.
L’atteggiamento di speranza che essi hanno nei confronti della vita e delle potenzialità, si trasmette ai figli e fa si che essi sviluppino quel misterioso sentimento che li supporta nell’affrontare quanto la vita gli riserva.
Sfortunatamente, sempre più spesso, mi accorgo che in molti genitori prevale un atteggiamento narcisistico ed a tratti manipolatorio rispetto ai figli. Essi vedono in loro un modo per riscattarsi e realizzare quanto in realtà essi stessi avrebbero voluto fare: non si accorgono che in tal modo ostacolano il sentimento di fiducia e quindi lo sviluppo di un atteggiamento positivo e speranzoso verso il mondo.
Ma se l’infanzia è l’età delle certezze, molti studi, e soprattutto la stanza di terapia, rivelano come l’adolescenza e l’età adulta mettono in crisi questa prospettiva. Ciò accade perché le esperienze fanno percepire la complessità della vita, talvolta ce la mostrano priva di senso e carente del rapporto di causa ed effetto tra gli eventi.
Ne consegue che il sentimento che può emergere, spesso inconsapevolmente, è l’angoscia, un’emozione negativa basata sulla mancanza di certezze e che cela il vero nemico della speranza, ovvero la sfiducia nelle proprie capacità, la sensazione di non essere pronti per affrontare l’imprevedibilità del nuovo giorno.
Il segreto per nutrire la speranza, allora, è la forza di non temere ciò che è mutevole ed inaspettato e di imparare a lasciare andare quanto necessariamente deve uscire dalla propria vita.
Anche Fromm, psicanalista e sociologo tedesco, sostenne in modo decisivo l’idea che la speranza, lungi dall’essere un mero vissuto passivo e fatalista, agisce da propulsore dello sviluppo e dell’autorealizzazione ed evidenziò che, al contrario, la mancanza di speranza genera diversi mali: la paura, l’isolamento, l’inazione, la povertà, l’indifferenza.
Tuttavia l’ideatore di una vera e propria Teoria della speranza è stato Charles Richard Snyder che negli anni ’90 elaborò non solo una riflessione, ma anche una serie di strumenti di verifica empirica volti a rendere misurabile e verificabile l’attivazione o meno della speranza nella vicenda di ogni individuo.
Egli scrisse: “La Speranza è uno stato motivazionale positivo che si basa sull’interazione tra il senso di successo nel produrre i percorsi cognitivi o le strategie cognitive da utilizzare nel conseguire un determinato fine desiderato e il senso di successo nel produrre l’energia mentale nell’utilizzare tali percorsi o strategie per realizzare la finalità desiderata.”
Secondo Snyder, cioè, ognuno di noi è intrinsecamente orientato alla finalità nei confronti del futuro, e cosa sia questa apertura alla finalità può essere in effetti dirimente per riconoscere l’atteggiamento giusto verso la vita.
L’orientamento alla finalità implica anche la possibilità o meno di raggiungere le proprie mete: ecco perché la speranza non è una mera aspettativa positiva.
Quest’ultima, infatti, si basa sulla valutazione di variabili positive e negative in una determinata situazione e quindi è legata alla previsione di realizzare un risultato positivo. Se, tuttavia, questo non si realizza allora interviene la delusione e la frustrazione, e si rischia di precipitare nel baratro della disperazione. Va da sé che queste sono le premesse per finire nel vortice della depressione.
L’attesa positiva, insomma, pur facendo leva su un’alta previsione e su un certo grado di controllo della realtà non la può determinare e questo può rendere l’eventuale insuccesso catastrofico.
Viceversa, la speranza può convivere anche con le situazioni più negative e può essere la spinta che permette di individuare obiettivi positivi e di riscatto motivanti e pertanto capaci di una buona riuscita.
Snyder osservò che i soggetti con un’alta propensione al sentimento della speranza gestiscono gli ostacoli in modo diverso da coloro non hanno questa attitudine: essi guardano alle avversità come sfide da superare e adoperano la capacità di pianificazione per attuare strategie nuove ed efficaci.
Ovviamente, come si diceva, l’alter ego cattivo della speranza è la disperazione, tratto tipico di molte psicopatologie e soprattutto di quelle di matrice depressiva, che sovente si accompagna a pensieri suicidari, apatia, gesti autolesionisti.
Essere disperati significa non saper affrontare l’incertezza del futuro, non avere fiducia che una situazione possa risolversi grazie alle nostre capacità o ad un supporto esterno.
Non bisogna sottovalutare il sentimento della disperazione, l’idea di non poter o saper affrontare il futuro e l’incertezza che esso comporta può, infatti, portare a conseguenze nefaste nella gestione della propria vita e addirittura a scelte autodistruttive. Bisogna sempre tener presente che tutto ciò può essere arginato grazie al supporto della psicoterapia.
A conclusione, si può certamente dire che promuovere la speranza rappresenta un traguardo emozionale piuttosto complesso: non si tratta di una predisposizione! Come lo stesso Snyder ci suggerisce, la speranza è frutto di un buon raccolto, e per farne una buona scorta nella nostra vita bisogna saperla coltivare, nutrire e proteggere, non disperderdola inutilmente.
Per far questo è importante lavorare sul piano cognitivo, emotivo e motivazionale: bisogna imparare a selezionare i propri pensieri, a scegliere quelli positivi, ad aprire il nostro orizzonte, fissando obiettivi raggiungibili ma in evoluzione, così da rafforzare la propria autostima ed auto efficacia.
Insomma, la speranza, tutto è meno che un’attesa passiva di un mondo migliore, ecco perché rientra proprio nelle virtù ed è il risultato di un lavoro intenso e profondo su di sé.

Notazioni Bibliografiche:
-“Imparare a sperare. La prospettiva psicologica di Charles Richard Snyder”, M. Szczesniak, L. Nderi, in Rivista di Scienze dell’Educazione 48(2010);
– “La rivoluzione della Speranza”, E. Fromm, Etas Universale.