Tumulti: quando si fa sentire la piazza


C’è un fil rouge che integra il tutto. La protesta, non emersa dalle urne, irrompe nelle strade. Dilania la chimera di un ritorno alla normalità e della retorica della ripartenza: la società non è solo economia. Permane al governo uno spirito quasi da ordinaria amministrazione di fronte alla straordinarietà, si sarebbe detto una volta, della situazione concreta.

La crudezza di una realtà, sul punto di squarciarsi, si intravede nelle piazze italiane, dove è massiccia la partecipazione di cittadini a cortei contro il Green Pass e la campagna vaccinale. E’ una fibrillazione che monta lentamente da mesi. In essa, si denota una capillare disapprovazione delle misure governative inerenti lo stato pandemico, che vede prevalentemente protagonisti pacifici manifestanti esercitanti i propri legittimi diritti costituzionali. Agli stessi talora si accodano intemperanti, qui inclusi purtroppo gruppi eterogenei di infiltrati, i cui fini reali potrebbero differire da quelli dichiarati. E sorgono disparate ipotesi, da una semplice intenzione di sabotare all’origine un’iniziativa di protesta popolare, delegittimandola, a più oscuri orditi eversivi.

Scorrono sui media scene di folla inizialmente riunita in angoli noti di centri urbani, che poi muove ordinatamente attraverso le vie verso punti nevralgici, laddove più forte può risuonare la eco del dissenso. Quindi, compaiono i facinorosi, che agiscono per bande, nel tentativo di bloccare il traffico, di fare scempio di beni pubblici e privati, che devono essere dispersi da agenti in tenuta antisommossa, con conseguenti blocchi alla circolazione dei mezzi. Seguono, infine, identificazioni e fermi dei responsabili da parte delle forze dell’ordine. Si spera sia fatta giustizia, non solo propaganda politica.

A Roma, sabato 9 ottobre, abbiamo assistito ad un salto di qualità, che ha assunto le sinistre sembianze della guerriglia urbana, culminando con l’assalto, esecrabile senza se e senza ma, alla sede nazionale del maggiore sindacato. Siamo rimasti frastornati dal turbolento e selvaggio sommovimento di un’orda, permeata da frange estreme, che, aldilà di ogni comoda e vana speranza di rimozione, rappresenta l’essenza di un pezzo di Italia che “mal sopporta” e costituisce il prodromo della rivolta. Si pone ancora la questione dell’ordine pubblico, perché, nonostante gli allarmi a più riprese lanciati, può esserci stata qualche sottovalutazione. L’escalation in atto giustificherebbe il passaggio dall’attuale strategia di contenimento, idonea fintanto che persista un accettabile livello di quiete civile, a più drastici metodi di repressione?

Nel bel mezzo di una ampia tornata di rinnovi amministrativi, che ha interessato la capitale e numerosi capoluoghi di provincia, non volendo giacere sepolto nel segreto delle urne o nel purgatorio dell’astensione, un rigurgito energico di disappunto ha attraversato il Paese, a partire dalle aree di disagio sfiancate da crisi e pandemia. Roma è stata soltanto la punta dell’iceberg. E’ stato il brusco risveglio dall’illusione di un facile ritorno alla “normalità”, come se tutto non potesse concludersi con la falsa retorica della “ripartenza”. Si è disvelato il lato oscuro di questa crisi: l’era Covid-19 non stabilisce soltanto una temporanea sospensione di ogni nostra precedente vita.

Se già è un miracolo che tutto non sia nero, la tentazione di vedere tutto rosa reca in sé il rischio dell’abbaglio, di non avvertire la gravità di un passaggio epocale segnato dalla fatica di “ricostruire”, socialmente e moralmente, un Paese “devastato” e prevenire quella rottura democratica, che forse si sarebbe già consumata, se non grazie ai primi cenni fisiologici di ripresa economica, in parte dovuti al Pnrr.

Ma il cuore della Nazione oggi non è più consolabile con i dati del Pil o dello spread; gli indici di borsa non leniscono la manifestazione plastica di una rabbia che non si placa nel momento in cui si è riguadagnata libertà di movimento e il virus, proprio grazie ai vaccini, sta infettando in misura minore. Lo sbigottimento innanzi al rumore delle bombe carta è, a sua volta, la dimostrazione palese di un Paese che arranca, cercando un punto di equilibrio, e sopravvive alle continue sorprese. Che non ha i sensori, che manca di capacità di integrazione, che anela a trovare capri espiatori su cui gettare vagonate di benzina.

E le sorprese arrivano dal Nord come dal Sud, dagli imprenditori come dai lavoratori, da ogni ambito post ideologico e culturale, si alimentano con la differenza tra le percezioni della “soggettività” pubblica e l’”oggettività” degli eventi per come si svolgono. Ecco perché, come d’incanto, ridiventa più forte la determinazione di gran parte della gente a tapparsi le orecchie, a voltare le spalle alle cerchie più sterili del dibattito pubblico che – rintanate su comode poltrone da salotto e, quando siano loro precluse le fanfare mediatiche, anche nelle viscere dei social – ancora ipotizzano fantasmagorici laboratori politici oppure alchimie di ruoli rivisti e corretti per partiti e sindacati. Spengano, costoro, i propri ardori da “leoni da tastiera”; disattivino i microfoni e vadano in piazza, se hanno veramente qualcosa di convincente da dire.

In conclusione, la responsabilità non può che ricadere tutta su questo governo che, dopo aver conseguito risultati straordinari proprio in termini di contrasto alla pandemia, è ora chiamato a scelte politiche vere, non da ordinaria amministrazione, al cospetto del numero ancora elevato di non vaccinati e della data del 15 ottobre, pena creare un pericoloso limbo, dove si annidano fobia, ira, frustrazione e focolai di tensione. Una volta giunti alla dead line, ormai ottenuto l’egregio risultato dell’80% di popolazione vaccinata, gli strumenti della persuasione di stato saranno esauriti, e meno convincente sarà ogni ulteriore monito a vaccinarsi per non avere problemi sul posto di lavoro. Si porrà dunque inesorabilmente una alternativa: una concessione di tamponi pressoché gratuiti o una assunzione di responsabilità nella direzione dell’obbligo vaccinale?