L’onore ai tempi del nuovo colera


Nella seconda orazione contro Verre e nella prima orazione contro Catilina, Cicerone era solito ripetere “O tempora, o mores!”, recriminando che con passare del tempo i costumi solevano, già in quel tempo, rilassarsi.
Se dopo duemila anni siamo ancora qui a ripeterlo, sarei curioso di sapere quale rigore morale aleggiasse sui fori della Roma repubblicana.
Eppure oggi ci troviamo a fare i conti con una vergognosa dissoluzione di concetti che a molti (spero) suonano ancora sacri: la Patria, la famiglia, la libertà sono solo gli esempi più eclatanti. Ma tra questi valori forse quello che più ferocemente è stato dilaniato e martoriato è l’onore.
Si badi bene: non quello ferito di Mimì metallurgico, e nemmeno quello del delitto d’onore o – peggio – dei camorristi e dei mafiosi di tutto il mondo.
No, stiamo parlando dell’onore verso un’idea, verso una bandiera, verso il proprio popolo e verso la stessa morte di chi ci ha affiancato in una lotta o in una battaglia.
L’onore è un concetto labile, lungamente descritto dalla Treccani e da mille commentatori. Ma in queste righe ne voglio portare due esempi attraverso le parole di due uomini che lo conoscono bene. Ci sono circa tre quarti di secolo tra i due virgolettati che seguono, ma ancora ci sentiamo di esclamare con Cicerone che i tempi sono decisamente peggiorati.
Il primo scritto è di Mario Abriani, Divisione Fanteria di Marina ”San Marco”, Battaglione ”Uccelli”, classe 1925.
“Poco prima di uscire dal campo di concentramento di Coltano, dove eravamo stati rinchiusi in circa 30.000 dagli americani, siamo stati passati in consegna dagli americani agli italiani, a quelli che noi chiamavano i verdoni perché portavano la divisa americana tinta di verde, i quali hanno istituito dei tribunali veri e propri per fare il processo soprattutto agli ufficiali. Naturalmente, quando siamo stati chiamati da questa commissione, ognuno di noi ha cercato di tirar fuori quello che rimaneva della sua divisa e di mettersi in bella tenuta. Abbiamo consumato un po’ di margarina per lucidare le scarpe e ci siamo presentati tutti in fila indiana. Davanti a me c’era un sottotenente della Folgore – riesco a commuovermi ancora ricordandomelo – a proposito di Onore, questo sottotenente si è immobilizzato sull’attenti.
Il maggiore che presiedeva il tribunale l’ha guardato e poi ha detto: “Anzitutto, vuoi dirmi che cos’è quello straccetto che porti sul braccio?”.
La Folgore portava il lutto con sopra scritto “Per l’onore d’Italia”. Ebbene questo giovane sottotenente, immobile sull’attenti, ha risposto: “È l’unico pezzetto di onore che è ancora rimasto, signor maggiore, il resto è merda”.
Ha fatto il saluto romano, si è girato ed è uscito senza che nessuno lo trattenesse o gli dicesse niente.
Ecco, questo era il concetto di Onore per noi.”

Veniamo invece alle parole del Gen. C.A. Domenico Rossi sul rientro dei nostri Militari da Kabul:
“La missione in Afghanistan, come ampiamente annunciato, si è conclusa e  il Comandante della Brigata Folgore insieme all’ultima aliquota di uomini e alla Bandiera di guerra del 186^ Rgt. è da poco rientrato in Italia, senza che nessuna autorità militare e/o politica di adeguato livello sia stata presente a riceverli.
Può darsi che sotto un punto di vista regolamentare o di cerimoniale non esista a riguardo nessun obbligo, ma è chiaro che l’assenza in questione è assolutamente inaccettabile quanto meno sotto un punto di vista etico e morale.
Essere presenti significava indirettamente  dire grazie non all’ultima aliquota di paracadutisti  ma alle migliaia di uomini e donne di tutte le Brigate che si sono avvicendati e che hanno operato per venti anni in ambito internazionale,  alzando però tutte le mattine al cielo il  nostro Tricolore.
Essere presenti significava continuare a rendere il doveroso omaggio ai nostri morti in quella terra lontana, morti per dare speranze di vita ad un paese martoriato, per ricostruire le infrastrutture e i servizi necessari, per dare la possibilità alle bambine  e alle donne di istruirsi e acquistare maggiore dignità e rispetto e per tanto altro.
Essere presenti significava ribadire  alle famiglie dei caduti non vi dimenticheremo, non dimenticheremo chi ha offerto la vita per rispettare il giuramento alla Patria.
Essere presenti significava anche rendere onore  ai tanti nostri feriti, molti dei quali portano sulle loro carni gli effetti nefasti e irreversibili del fuoco nemico e che oggi continuano con il gruppo paraolimpico a far sventolare alto il Tricolore.
Essere presenti significava far sentire, al di là dei discorsi e delle parole ufficiali, l’affetto di un Paese nei confronti dei suoi figli con le stellette.
E allora mi vergogno. Innanzi tutto di non essere stato lì, ancorché in quiescenza, anche solo per stringere la mano ai tanti o pochi in arrivo, per potere guardarli negli occhi per trasmettere loro il mio affetto, il mio rispetto, la mia stima, uniti da quelle stellette sul bavero che anche quando sei in pensione non ti abbandonano mai.
Mi vergogno soprattutto come Italiano, cioè come cittadino di un Paese che non ha avuto la sensibilità di pensare a tutto ciò, mentre con gli Europei di calcio in corso in tanti balconi sventola il Tricolore.
I dubbi che mi assalgono sono tanti, il primo dei quali è che ancora una volta non fosse comodo politicamente rendere omaggio al mondo in divisa, specie nel momento in cui si è dovuto ricorrere ad un Generale per portarci fuori da una emergenza vaccinale con serietà e competenza.
Ho però una speranza, che anche questa mia amara riflessione  serva per potere organizzare una cerimonia di conclusione della missione, come fatto a suo tempo per l’operazione “Antica Babilonia”, in cui questo Paese dovrebbe attraverso i massimi rappresentanti rendere onore al merito a tutte le Forze Armate per il loro impegno e contributo, testimoniato anche dal  sangue dei loro morti e feriti”.

Non vi è molto da aggiungere, non vi pare?