PsicologicaMente: il fascino dell’etichetta


“ Le «etichette» servono alla società per imprigionare i suoi sudditi, per ghettizzarli entro spazi definiti. Sono come le parole: servono a strappare i concetti dalla loro indefinitezza, sono camicie di forza del pensiero.” (Gianni Monduzzi)

Cari lettori in questo numero della rubrica affronterò un argomento, meglio ancora, un fastidioso problema col quale, ne sono certo, ognuno di noi si confronta quotidianamente, sia in veste di “mittente” che in veste di “destinatario”: le “etichette”.
Mi piacerebbe partire da una frase di Walt Whitman: “Sii curioso, non critico” per dire che in genere nella vita non è facile stabilire drasticamente ed a priori se qualcosa è buona o cattiva. Tra l’altro, laddove per alcuni sembrerebbe esserci un problema, per altri potrebbe viceversa aprirsi un’opportunità.
Purtroppo tutti noi abbiamo la tentazione di classificare ogni cosa e quando etichettiamo gli eventi li trasformiamo irrimediabilmente e senza vie di mezzo.
Non ci rendiamo, tuttavia, conto che ogni volta che giudichiamo, ingaggiamo una battaglia contro la realtà che quasi sempre ci vedrà nella veste di sconfitti e questo perché attribuire delle etichette è un meccanismo di reazione rudimentale con il quale finiamo solo per limitare la realtà.
Certo, devo ammettere che capitano casi in cui le etichette possono essere così utili che risulta davvero difficile fuggirle.
Talvolta ci rendono la vita più facile perché diventano dei punti di riferimento e creano un sistema di orientamento rapido in grado di innescare quei meccanismi di risposta già appresi e senza dover riflettere eccessivamente. Si mette in moto un sistema finalizzato a collegare una realtà complessa a una risposta semplice e in maniera diretta.
La tentazione delle etichette origina, prevalentemente, dalla necessità di sentirci al sicuro e di tenere sotto controllo l’ambiente in cui viviamo: la risposta rapida che rappresenta l’etichetta ci da la sensazione di mantenere il controllo, anche se si stratta, in effetti, di una percezione meramente illusoria.
Quando etichettiamo una persona o una situazione come “spiacevole” ovviamente faremo in modo da evitarla senza necessità di compiere ulteriori indagini.
Il problema è che non è tutto sempre così semplice. Quando giudichiamo o categorizziamo qualcosa, come ho già detto, poniamo dei limiti e quindi annulliamo la ricchezza di ciò che procediamo ad etichettare.
Considerando gli eventi semplicisticamente come “buoni” o “cattivi”, non abbiamo più una visione completa ed esaustiva delle cose. Si pensi a quanto detto dal saggio Kierkegaard: “Quando mi etichetti, mi neghi”, ed è esattamente così, ogni volta che emettiamo, rispetto a qualcosa o qualcuno, una sentenza senza possibilità di appello, neghiamo la sua complessità e ricchezza.
Tutto questo è talmente vero che si parla addirittura di una teoria dell’etichettamento, la quale servirebbe a spiegare in che modo le etichette che usiamo danno forma alla nostra realtà.
In psicologia si è iniziato a parlare di “etichette” intorno agli anni ’30, in particolare a seguito dell’interesse manifestato dal linguista Benjamin Whorf. Egli riteneva che le parole che adoperiamo per descrivere quanto vediamo non sono semplici etichette, ma finiscono per determinare drasticamente ai nostri occhi l’essenza delle cose, non solo, ma le etichette oltre a modellare la nostra percezione, cambiano anche il modo con cui approcciamo alle situazioni più complesse. Anche una semplice etichetta, apparentemente innocua e oggettiva, attiva ad esempio una serie di pregiudizi o idee preconcette che finiscono per determinare la nostra immagine delle persone o della realtà e quindi la modalità con la quale noi decidiamo di interagire con esse.
Il problema va molto oltre, le implicazioni dell’etichettamento sono immense.
Molto interessante a tal proposito è quanto scoperto da Robert Rosenthal e Lenore Jacobson. Entrambi psicologi educativi, costoro dimostrarono che se un insegnante considera un bambino meno intelligente (anche se a torto) lo tratteranno con modalità che riflettono questa loro visione delle cose ed il bambino finirà per rendere effettivamente meno di quanto potrebbe, e questo non perché carente delle abilità necessarie ma perché ha ricevuto un trattamento diverso.
In effetti è una profezia che si avvera: nel momento in cui ci convinciamo che qualcosa sia in un certo modo, possiamo renderlo veramente tale attraverso il nostro comportamento.
Va poi detto che nessuno è immune all’influenza delle etichette, la nostra identità e i nostri comportamenti sono determinati e fortemente influenzati dai termini che noi o altri utilizziamo per definirci.
Ma se è vero questo è altrettanto vero che le etichette svelano più cose di chi le usa che di chi le subisce.
Per meglio spiegare questo concetto mi piace citare Toni Morrison, scrittrice e vincitrice del premio Pulitzer e del premio Nobel per la letteratura, la quale ha detto che: “le definizioni appartengono ai definitori, non ai definiti”.
Potrei, ancora, chiamare in causa il poeta Pietro Metastasio che scrisse: “Ciascun dal proprio cuor l’altrui misura”.
Queste citazioni per spiegare come ogni etichetta che applichiamo, con l’obiettivo di limitare gli altri, in realtà riflette il nostro mondo e la nostra persona: è l’espressione del nostro sentirci incapaci nell’affrontare situazioni incerte, inaspettate.
Spesso infatti adoperiamo le etichette quando ci confrontiamo con una realtà così complessa da travolgerci psicologicamente, o quando siamo privi di quegli strumenti cognitivi utili a valutare ciò che sta accadendo in un dato momento.
Sotto quest’ottica, ogni etichetta si presenta come un velo che offusca la visione di una realtà più ampia e complessa. Il vero problema sta nel fatto che se non abbiamo una percezione reale e globale di quanto sta accadendo, non saremo certamente in grado di rispondere in modo adattivo. Laddove decidiamo di attribuire un’etichetta non rispondiamo più alla realtà ma iniziamo a reagire all’immagine distorta della realtà che in tal modo si è venuta a costruire nella nostra mente.
Altra considerazione da fare in merito al tema delle “etichette” è che, quando sono flessibili, riducono lo stress. infatti ricorrere a termini fissi per descrivere persone, cose ed eventi, oltre ad essere limitante è anche stressante. Viceversa, pensare in modalità flessibile aiuta a ridurre lo stress, come del resto indicano molti studi sociali.
Una visione elastica del mondo ci garantisce una maggiore tolleranza rispetto ai cambiamenti, e quindi una maggiore resistenza allo stress. Oltretutto, comprendere che tutto è mutevole (compresi noi stessi, le persone e le cose che ci circondano) ci impedirà di cadere nel negativismo, aiutandoci a sviluppare una visione ottimistica.
Ma allora come possiamo sfuggire alle etichette?
Un punto di partenza è certamente ricordare che “bianco” e “nero” appartengono alla stessa medaglia, dobbiamo liberarci da un pensiero dicotomico ed evitare assolutamente di diventare vittime delle etichette che noi stessi applichiamo.
Ancora, bisogna sempre comprendere che se qualcuno fa qualcosa di sbagliato dal nostro punto di vista, ciò non significa che si tratti di una persona cattiva, ma semplicemente abbiamo a che fare con qualcuno che ha fatto qualcosa che, in quel momento, non corrisponde al nostro personalissimo sistema di valori.
A volte proprio le persone dalle quali nessuno si aspetta molto riescono a fare cose che nessuno immaginerebbe: basta aprirsi alle esperienze, senza lasciare che i pregiudizi ci suggestionino, e lasciare che queste ci sorprendano.

Notazioni Bibliografiche:
– Andrea Carnaghi e Anne Maass; (2000) Effetti delle etichette denigratorie sulle risposte comportamentali; PSICOLOGIA SOCIALE n.1, gennaio-aprile 2006.
– West, R., & Turner, L. (2005). Teoría de la Comunicación. Análisis y Aplicación. Ed. McGrawHill. Madrid.