
Il dirottamento dell’Achille Lauro e l’affaire Sigonella (1a parte)
N.d.A.: La storia del dirottamento della nave da crociera “Achille Lauro” e della crisi di Sigonella, vista la lunghezza, è raccontato in due volte.
Questa è la prima parte e domenica prossima sarà pubblicato il seguito.
Il Cairo ore 19,00 locali del 7 Ottobre 1985, Ambasciata italiana in Egitto:
Un Capitano di fregata della Marina Militare, un Tenente Colonnello dell’Aeronautica e un Colonnello dell’Esercito Italiano, tutti e tre in uniforme da sera, erano stati distolti da un noioso ricevimento all’Ambasciata indonesiana al Cairo, nel quartiere di Garden City, sulla riva destra del Nilo, e si erano portati d’urgenza, non senza un tratto di cupezza, nell’ufficio militare dell’Ambasciata italiana situata nello stesso quartiere, circa centocinquanta metri a sud ovest.
Il Colonnello italiano alzò la cornetta del telefono e chiese ansiosamente di parlare con l’Harbor Master – il Capitano Direttore del porto – di Port Said:
“Capitano, è già arrivata l’Achille Lauro? Secondo gli orari dovrebbe avere attraccato da un paio d’ore, proveniente da Alessandria”.
“Non ancora, ma è un ritardo che per una nave passeggeri rientra nei limiti del normale” replicò il Capitano egiziano.
La nave da crociera “Achille Lauro”
L’Achille Lauro (indicativo di chiamata IBHE – India Bravo Hotel Echo), in crociera nel mediterraneo, aveva da poco lasciato Alessandria d’Egitto per fare scalo a Port Said, dove era attesa in serata. Avrebbe dovuto poi procedere alla volta di Israele.
“Può collegarsi via radio e sentire se a bordo tutto procede regolarmente?” – replicò il Colonnello – “Roma ha avuto segnalazione di un possibile dirottamento e l’ambasciatore ci ha spedito in ufficio dal ricevimento dell’ambasciata indonesiana…”.
“Un dirottamento? Di una nave? Non è cosa comune” – sentenziò quasi seccato l’Ufficiale egiziano all’altro capo del filo – “Se non sbaglio l’unico precedente risale agli anni Cinquanta. Ad ogni modo restate in linea mentre provo a collegarmi con la Lauro”.
Qualche minuto e la voce dell’harbor master risuonò di nuovo nel telefono. Il tono era cambiato, divenuto a un tempo piatto e formale:
“Colonnello, credo che debba informare subito Roma. Io penserò al Cairo”.
“Allora ha avuto conferma del dirottamento…”, rispose laconicamente l’Ufficiale italiano.
“Non esplicitamente. Ma l’operatore che risponde alla radio del transatlantico parla solo arabo e per di più con un forte accento palestinese. Non mi pare normale”.
Fu così che, più o meno direttamente, le Autorità italiane ebbero conferma della notizia del dirottamento dell’Achille Lauro durante il pomeriggio del 7 ottobre 1985.
Il quadro generale della situazione:
Il Medio Oriente negli anni ‘80 era dilaniato da forze interne ed esterne. Erano i tempi dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il cui presidente era Yasser Arafat e della sua costola paramilitare al-Fatha (il cui capo era lo stesso Arafat) e di quella, più marcatamente terroristica, denominata FPLP fondata da Abu Abbas (nome di battaglia di Muhammad Zaydan) in perenne contrasto con Arafat sulla possibilità di un eventuale accordo politico con Israele.

Il presidente degli Stati Uniti era il repubblicano Ronald Reagan, l’ex attore a capo della Screen Actor Guild, mentre in Italia il ministro degli esteri era Giulio Andreotti, quello della Difesa Giovanni Spadolini mentre Bettino Craxi incarnava il ruolo di Presidente del Consiglio. Il Presidente della Repubblica era invece Francesco Cossiga (appena fresco di mandato presidenziale, che sarà denominato il Presidente delle picconate, quello che ammetterà con fierezza, in un’esternazione a Edimburgo nel 1990, la parte avuta come Sottosegretario al Ministero della Difesa tra il 1966 e il 1969 nella messa a punto di Gladio, l’organizzazione paramilitare appartenente alla rete internazionale “Stay-behind” (restare indietro) nata per contrastare una possibile invasione nell’Europa occidentale da parte dell’Unione Sovietica e dei paesi aderenti al Patto di Varsavia (in particolare la Jugoslavia di Tito) autodenunciandosi con un documento inviato alla Procura di Roma, in seguito al coinvolgimento giudiziario dell’ammiraglio Martini e del generale Inzerilli individuati come responsabili di Gladio, scrivendo: “Rivendico in pieno la tutela di quarant’anni di politica della Difesa e della sicurezza per la salvaguardia dell’integrità nazionale, dell’indipendenza e della sovranità nazionale del nostro Paese nonché della libertà delle sue istituzioni, anche al fine di rendere giustizia a coloro che agli ordini del governo legittimo hanno operato per la difesa della Patria”.

Dal punto di vista militare, gli italiani erano appena andati via dal Libano dove si erano recati dal 1982 al 1984 come forza di peacekeeping nell’ambito della missione “Italcon” – “Libano 1” e “Libano 2” – che si erano succedute in quegli anni, insieme a francesi, statunitensi e inglesi, per garantire un corridoio di uscita proprio ai sopravvissuti dell’OLP della sanguinosa guerra civile libanese, consentendo loro di trovare rifugio negli stati arabi confinanti garantendo, allo stesso tempo, che i civili palestinesi nei campi profughi non sarebbero stati nuovamente armati.
Negli occhi della popolazione palestinese era ancora vivido l’orrore dei massacri perpetrati nei campi profughi di Sabra e Chatila (le vittime del massacro sarebbero state 400 secondo fonti libanesi, circa 3.500 secondo fonti palestinesi, mentre gli israeliani parlarono di 700 caduti) come ritorsione a seguito dell’uccisione del presidente della repubblica istraeliana Bashir Gemayel, e di 25 dirigenti cristiano maroniti, a seguito di un attentato dinamitardo che, probabilmente, non fu nemmeno opera dell’OLP ma forse compiuto da elementi afferenti al PNSS (il partito nazionalsocialista siriano).
L’oppressione patita dalla popolazione palestinese in quegli anni e in quelli che seguirono causò poi la prima “intifada”, ossia la sollevazione di massa contro il dominio israeliano, che vide assurgere agli onori delle cronache i così detti “fedayyn” (letteralmente “i devoti”, coloro che si sacrificano, ossia i combattenti dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina contro lo Stato israeliano), terminata solo con la firma degli accordi di Oslo del 1993 che furono propiziati da negoziati più o meno segreti condotti tra il governo israeliano e l’OLP.
Ma facciamo un salto indietro tornando nuovamente al giorno del dirottamento dell’Achille Lauro.
Mediterraneo, lunedì 7 ottobre 1985 ore 13,07, largo delle coste egiziane:
I palestinesi, Bassām al-Askar, Aḥmad Maʿrūf al-Asadī, Yūsuf Mājid al-Mulqī e ʿAbd al-Laṭīf Ibrāhīm Faṭāʾir, forse scoperti dal personale della nave mentre pulivano le armi, avevano fatto irruzione prima nel salone della nave da crociera, esplodendo numerosi colpi di Kalašnikov, poi avevano condotto il Comandante Gerardo De Rosa nella plancia di comando intimandogli di fare rotta verso il porto di Tartus in Siria. I quattro si erano imbarcati a Genova sotto mentite spoglie usando passaporti ungheresi e greci allo scopo di raggiungere illegalmente Israele e unirsi al Fronte per la Liberazione della Palestina (FLP) ma, in realtà, come aderenti a una sua fazione minoritaria filosiriana denominata FPLP, una formazione di guerriglieri antisionista di estrema sinistra di matrice ideologica marxista-leninista, che sin dalla nascita aveva perseguito i suoi scopi con numerosi attacchi terroristici, causando anche l’uccisione di molti civili, per compiere una missione nel porto israeliano di Ashdod (una delle tappe dell’itinerario della crociera della Achille Lauro).
Del resto era stato facile imbarcare le armi poiché all’epoca non si considerava concreto il rischio di un dirottamento armato di una nave da crociera e i bagagli dei passeggeri non erano ispezionati ma veniva solo fatto il controllo – peraltro non approfondito – dei documenti personali.
Durante la navigazione verso Tartus i terroristi, in cambio dell’incolumità delle persone a bordo, avrebbero chiesto la liberazione di 50 prigionieri palestinesi.
In quel momento sulla nave erano presenti 201 passeggeri e 344 uomini di equipaggio (di cui 78 portoghesi, tutti gli altri italiani).
Blitz militare o soluzione diplomatica?
Avuta conferma del sequestro e dei dirottamento la sera stessa 60 incursori italiani del Col Moschin arrivarono alla base militare di Akrotiri (Cipro), dove cerano già i Delta Force americani pronti ad intervenire. Anche alcune componenti della Brigata di Marina “San Marco” erano state mobilitate.
Ma la Achille Lauro batteva bandiera italiana e furono quindi gli incursori di Marina italiani a dover agire seguendo un piano (denominato “Operazione Margherita”) sviluppato dagli appartenenti del “Team Torre”, il braccio operativo dell’UNIS (le Unità di Intervento Speciale) del COMSUBIN, specializzato in azioni di contrasto al terrorismo che, nel frattempo, si erano acquartierati sull’incrociatore Vittorio Veneto, allora nave ammiraglia della Marina Militare Italiana, che era stato dislocato opportunamente nel Mediterraneo orientale e che seguiva come un’ombra la nave dirottata.
Il piano contemplato dall’Operazione Margherita era semplice ma rischioso: si doveva abbordare la nave dal ponte superiore calandosi dagli elicotteri con la tecnica della “discesa a barbettone” (fast rope). O addirittura, secondo alcune fonti (non confermate), centrando il ponte della nave con un lancio coi paracadute da 5000-1000 piedi. E, contemporaneamente, tentando di abbordarla anche dal basso con gommoni veloci.
Sul Vittorio Veneto, in attesa della luce verde al blitz, il tempo trascorreva tra una esercitazione e l’altra, studiando i progetti della Achille Lauro che nel frattempo erano pervenuti, cercando di addestrarsi nel procedere nello stretto dedalo di corridoi, scale e passi d’uomo che avrebbero incontrato sull’Achille Lauro nel modo più efficace possibile.
Come avrebbero reagito i terroristi? Certo l’azione degli incursori non sarebbe passato inosservato ed eventuali perdite tra i civili, e forse anche tra gli operatori, era da mettersi in conto.
Insomma gli incursori di Marina del Team Torre sarebbero stati pronti al momento opportuno ma tutti sapevano che non sarebbe stata una passeggiata anche perché, almeno sino a quel momento, gli apparati militari occidentali non avevano mai davvero sviluppato veri e propri programmi addestrativi per tali scenari.
Alla fine, tuttavia, non si decise per il blitz militare e prevalse la via diplomatica ma la vicenda dell’Achille Lauro diede impulso allo studio di specifici programmi addestrativi degli Incursori di Marina per fronteggiare le specifiche peculiarità degli scenari operativi conseguenti al sequestro di navi da parte di terroristi.

Giulio Andreotti, ministro degli esteri del Governo italiano, si assicurò la piena collaborazione del suo omologo egiziano Boutros Boutros-Ghali per convincere il governo siriano a consentire l’attracco della nave nel porto di Tartus. Si era, inoltre, assicurato la collaborazione anche di al-Fatah, la costola più importante dell’OLP (che in quel periodo aveva trasferito il quartier generale dal Libano a Tunisi proprio a causa della guerra del Libano) e a cui capo c’era Yasser Arafat, che aveva indicato Abu Abbas, guarda caso tra i fondatori del FLP e capo del FPLP, tra i negoziatori che dovevano convincere i terroristi alla resa in cambio della promessa dell’immunità se non fossero stati commessi uccisioni di ostaggi o altri reati di sangue.
Sembrò raggiungersi la quadratura del cerchio ma nelle ore seguenti l’ebreo statunitense Leon Klinghoffer, paraplegico, scomparve dalla nave, ucciso dai proiettili dei terroristi, il cui corpo era stato gettato fuori bordo per occultare la cosa.

In realtà le vere cause della scomparsa di Klinghoffer furono inizialmente taciute al Governo italiano anche dallo stesso Comandante De Rosa, forse per timore di rappresaglie dei terroristi, per cui l’Achille Lauro si diresse nuovamente verso Port Said dove i terroristi sbarcarono impunemente, apparentemente convinti alla resa dal mediatore Abu Abbas (che poi si scoprirà con un ruolo diverso nella vicenda), per poi proseguire muniti di salvacondotto in aereo verso la Tunisia, paese arabo a loro gradito.
La nave coi passeggeri fece invece ritorno ad Alessandria d’Egitto e, alla fine, fece rotta alla volta di Napoli (suo naturale porto d’ormeggio) quando la CIA passò un’informazione, forse proveniente dai servizi egiziani, relativa alla possibile presenza di esplosivo su alcune casse caricate ad Alessandria.
Non potendo verificare la veridicità dell’informazione il SISMI, ossia il Servizio Segreto Militare itaiano dell’epoca, concordò col Comandante della Achille Lauro di gettare in mare le casse senza aprirle per timore di una loro esplosione.
In queste circostanze così poco chiare il Segretario Generale del Comitato Centrale di al-Fatah ipotizzò che l’omicidio di Leon Klinghoffer fosse stato commesso dalla moglie della vittima, Marilyn, per poter riscuotere il premio dell’assicurazione sulla vita contratto dallo stesso Klinghoffer. Poco tempo dopo, tuttavia, lo stesso OLP smentì questa ipotesi riconoscendo l’attentato come un atto terroristico perpetrato dai quattro appartenenti al commando del FPLP.
Il cadavere di Klinghoffer venne infatti ripescato dalle autorità siriane al largo delle loro coste tra il 14 e il 15 ottobre. Sul corpo ferite d’arma da fuoco.

…continua domenica prossima con la vicenda del dirottamento dell’aereo dei terroristi, la crisi di Sigonella e il rientro a Roma dove Abu Abbas scomparve…