La maratona che non si corre!


Normalmente, ogni generazione lancia una moda, o più. Moda. Questo termine indica uno o più steps collettivi, con criteri differenti, ed è spesso correlato al gusto di abbigliarsi. Ma non solo. Moda, è anche fare quelle cose che fanno tutti gli altri.
Durante la Grande Depressione americana, detta anche “Grande crisi” o “Crollo di Wall Street”, che sconvolse l’economia mondiale, alla fine degli anni Venti, con forti ripercussioni anche nel primo decennio successivo, una novità bizzarra prese piede e divenne popolarissima in tutti gli Stati Uniti, una moda che fece la fortuna di molti: la “maratona di danza”.
Questo tipo di competizione, che inizialmente non sembrava nascondere situazioni di pericolo, una volta portata all’estremo, offrì, con il tempo, una visione completamente differente.
Un famosissimo quotidiano statunitense, il “Washington Post”, scriveva di tali manifestazioni già nel 1910. Un pezzo, pubblicato il 14 aprile di quell’anno, commentava: “Le maratone di danza agonistica sono l’ultima forma che ha assunto l’asincronia dei responsabili nelle piccole e grandi metropoli. I combattimenti a premi sono condannati e proibiti in molte città, come le corride e le lotte tra galli. Eppure le maratone continuano indisturbate! La loro moda si sta diffondendo rapidamente in tutto il nostro Paese”.
In realtà, emersero su scala più ampia, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta. Iniziarono come una semplice e divertente competizione, per stabilire chi riusciva a ballare più a lungo e più velocemente. In palio, per la coppia vincitrice, solo un modesto premio in denaro ed un gran vanto nei confronti degli altri concorrenti. Niente di più. Ma la grave crisi economica, incentivò le speranze di ottenere facilmente ampi guadagni.
Il valore delle vincite salì vertiginosamente, grazie ad un pubblico disposto a pagare somme stratosferiche solo per vedere, sadicamente, coppie di imperterriti partners esausti, ondeggiare imbambolate e crollare, prive di sensi, rovinosamente a terra. Oltre a ciò, venivano costruite e pubblicizzate piccanti storie d’amore e di intrighi, tra i ballerini più famosi, per invogliare spettatori maliziosi ed un po’ perversi, a tornare ed assistere alle esibizioni peccaminose dei propri beniamini.
Il prezzo di un singolo biglietto di ingresso venne fissato a 0,25 centesimi (tre dollari attuali circa), che per quei tempi era realmente consistente. Ma ne valeva la pena, poiché, in quei locali pieni di fumo, al suono di languide e ritmate melodie, la gente dimenticava, magari sorseggiando dell’alcool proibito e mascherato, la tristezza del momento. Esistevano delle regole di gara ma, con estrema facilità, queste venivano cambiate ed adattate ad ogni esibizione. Comunque, le maratone prevedevano periodi di riposo, che permettevano ai partecipanti di sedersi, mangiare, fare la doccia e persino schiacciare un breve pisolino, prima di riprendere, ad un orario tassativamente prestabilito, il “piacevole” movimento.
Un articolo del “New York Times” del 1930, descrisse, in modo molto dettagliato, le caratteristiche di quei balli: “Intorno all’arena, dove si riuniscono i maratoneti, ci sono novantuno cabine, attrezzate con sedie, lettini di tela, con la presenza di massaggiatori e massaggiatrici svedesi. Il regolamento del concorso prevede, per ogni ora di ballo, quindici minuti di riposo, durante i quali [i ballerini] possono mangiare dormire o camminare, anche se per l’ultima cosa è stato previsto poco tempo”. Bisogna però ricordare, che quelle gare potevano durare giorni, settimane o persino mesi.
Una del 1928, a Chicago, andò avanti per 23 giorni. E nella stessa città, due anni dopo, un’altra durò più di 2780 ore (oltre 115 giorni!). Si iscrissero centinaia di coppie, per vincere un primo premio di 5000 dollari e svariati “sotto-premi” di 1500. Moltissimi i concorrenti, giunti da ogni angolo d’America ed attratti, oltre che dal denaro, dalla prioritaria possibilità di godere di vitto e alloggio, risorse agognate ed insperate, in quegli anni così bui.
Con le maratone di danza, freneticamente spinte alla ricerca di sempre più remunerativi “records”, arrivarono, inevitabilmente, anche seri problemi di salute. Gli eventi garantivano, ovviamente, la presenza di medici ed infermieri, pronti ad intervenire su svenimenti o ferite, per i ballerini. Un certo Ben Solar, un habitué di numerosissime competizioni, dovette essere più volte rianimato, sia in pista, con acqua fredda e sali profumati, che in infermeria, con prolungati massaggi cardiaci. I sanitari, temettero in molte occasioni che non ce l’avrebbe fatta. La sua partner abituale, tale Vera Sheppard, una volta vinse, ballando, con un “compagno di soccorso” assegnatole d’ufficio come sostituto, ininterrottamente per 69 ore.
Non furono rari, in questo quadro, i decessi. In molti, venivano portati in ospedale, per “comatosa” stanchezza, conseguente a disidratazione. Frank Quinn, durante un’esibizione a New York, fu ricoverato presso il “General Hospital”, per una fatale emorragia interna, di cui non si capì mai la causa.
Le forze dell’ordine ed i funzionari governativi cercarono, in tutti i modi, di fermare queste gare, mentre gli esosi e politicizzati organizzatori approfittavano, al contrario, della disperazione dei più bisognosi. Il Capo della Polizia di Chicago, Morgan A. Collins, già nel 1923, ebbe a dire: “Credo che questi balli di resistenza siano una forma di suicidio di massa e certamente la Polizia non può permettere questo stato di cose. E’ una moda molto in voga, ma è molto pericolosa”. Anche movimenti umanitari, come la “Società Missionaria Femminile” della Virginia, tentarono di porre fine a questo costume di vita, nell’interesse della salute e degli ideali cristiani.
I medici dichiaravano di avere però le mani legate, soprattutto perché i Commissari Sanitari Federali erano convinti che tali manifestazioni non incidevano negativamente sulla salute pubblica. Il Dottor Arnold Kegel, al contrario, Commissario per la Salute di Chicago, fu piuttosto chiaro nell’esprimere il suo parere sulle maratone di danza, definendole “eventi assolutamente vergognosi e dannosi per l’incolumità”. Affermava: “Le autorità locali non dovrebbero permettere spettacoli così disgustosamente continuati, anche se le persone vogliono autonomamente rendersi ridicole”.
Il Governo Distrettuale di Washington D.C., adottò un regolamento di polizia, nel febbraio 1932, che proibiva gare dove i partecipanti avessero dovuto ballare per più di 12 ore, nell’arco delle 24 consecutive.
Nel 1933, lo Stato della Pennsylvania, introdusse una legge che vietava, tassativamente, la maratona di danza. Era prevista una sanzione pecuniaria di 500 dollari, fino ad una pena di tre mesi di reclusione, per chi avesse trasgredito a tale norma. Da quel momento, un sempre maggior numero di città e Stati americani approvarono statuti che vietavano simili attività.
Da ricordare, però, che negli anni Settanta, negli USA vi fu una sostanziale rinascita di queste gare, motivate, altresì, dalla raccolta di fondi per beneficenze a favore di organizzazioni umanitarie. Ancora oggi, college o scuole statunitensi raccolgono, con questo sistema, denaro da destinare, ad esempio, al “Children’s Miracle Network” o ad altri enti similari.
Prima dello sviluppo dei reality shows, le maratone di danza oscurarono la linea tra teatro e realtà, spingendo la gente a competere, forse anche contro se stessa, per raggiungere fama e denaro.
Il film del 1969 e vincitore di alcuni Oscar, “Non si uccidono così anche i cavalli?”, del regista americano Sydney Pollak, basato sull’omonimo romanzo di Horace McCoy (un “buttafuori” che aveva assistito a diverse gare), rese popolare il fenomeno e spinse gli studenti di varie università a riproporle per scopi umanitari.
Anche se giustificate da lodevoli propositi e gestite con regole più attuali e sicure, le maratone di ballo rimangono pur sempre gare di inutile rischiosa fatica.