Un’inutile strage


Sono accaduti fatti, nel passato del nostro paese, che la storia, non senza vergogna, ha voluto da subito nascondere, rimuovere, sottrarre alla conoscenza futura, per far dimenticare con più facilità.
Tutto cominciò a Milano nello stabilimento Pirelli, il 7 maggio 1898. L’Italia si stava, già da alcuni anni, abituando alle rapide e violente crisi sociali. Prendeva sempre più piede il convincimento di un imminente collasso dei liberali, detentori, all’epoca, del potere politico. E nel capoluogo lombardo furono rotti gli indugi: il governo, le autorità militari ed i conservatori decisero di reagire. In quegli stessi giorni ed in altre città, come Bari, Napoli e Firenze, la borghesia più ottusa sfoderava le armi, agitando il pericolo della rivoluzione socialista imminente.
“Di qui non si passa!”, aveva detto alla Camera, due anni prima, il Presidente del Consiglio, Antonio Starabba, Marchese di Rudinì (1839-1908), rivolto ai deputati socialisti. Costui non aveva molte idee ed il suo programma non godeva dell’appoggio unanime dei liberali; ma proprio per questo motivo, la sopravvivenza del suo mandato era legata alla capacità di resistenza, contro la forte pressione del neonato partito socialista, di autorevoli intellettuali. Così, appena formato il Governo, nel marzo del 1896, di Rudinì diede il via allo smantellamento di quelle associazioni e circoli, socialisti e cattolici, che, gestiti dalla solidarietà operaia e contadina (società di soccorso, camere del lavoro, cooperative), con i propri mezzi, aiutavano i diseredati. Nemmeno gli intellettuali riuscirono a salvarsi. Il filosofo Antonio Labriola si vide infliggere la censura dell’esecutivo per aver tenuto, presso l’ateneo romano, un discorso sul tema “L’Università e la libertà della scienza”. Lo storico Ettore Ciccotti, socialista, nel maggio 1898, fu sospeso dall’insegnamento e destituito (cercherà scampo in Svizzera).
La dignitosa fermezza dei socialisti ebbe risonanza in alcuni settori della borghesia liberale. A questa frangia di pensiero apparteneva il fondatore e direttore del “Corriere della Sera”, Eugenio Torelli Viollier (1842-1900). Ottimo giornalista, aveva “orrore per l’esibizionismo e la facile popolarità”. Questa cosa lo metteva spesso in difficoltà con gli altri comproprietari del quotidiano (Ernesto de Angeli, Giovanni Battista Pirelli, Luca Beltrami). Ed infatti, mentre in tutta Italia imperversavano gli stati di assedio, i processi militari e la legge marziale, Torelli Viollier si dimise il 1° giugno dalla direzione del Corriere. Due giorni dopo, farà al suo grande amico, lo storico ed uomo politico Pasquale Villari, una drammatica relazione di quanto era successo nella città ambrosiana. Da quella relazione, si ebbe il resoconto delle giornate che videro l’esercito del Generale Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924) fronteggiare, con le armi, un pacifico sciopero fatto passare per una rivoluzione.
“I moti di Milano”, scriveva Torelli, “li ha ingranditi la paura generale, li ha ingranditi non soltanto nell’immaginazione, ma nella realtà. Hanno avuto paura degli operai; ebbero paura gli industriali che chiusero gli stabilimenti (ed erano la maggioranza) ove gli operai avevano continuato a lavorare; ebbe paura la borghesia, che immaginò che il grande giorno della rivoluzione fosse giunto; ebbero paura le autorità che non fidavano nella resistenza dell’esercito. La paura gettò sulla strada tutti gli operai di Milano; la paura fece ammazzare un centinaio di persone e ferirne, più o meno gravemente, parecchie centinaia; la paura ha fatto credere, in tutta Italia, che la nostra città fosse a due dita da una catastrofe; la paura ha fatto sì che siamo fuori dalla legge e che sia stata sospesa ogni libertà, ogni guarentigia costituzionale”.
Com’era nata quella paura? Primo sabato di maggio: alla Pirelli, poco dopo l’inizio della giornata lavorativa, una parte degli operai, i più giovani, abbandonarono gli attrezzi e le macchine, riversandosi sul piazzale. Un centinaio di ragazze si misero alla testa di una sfilata che, al canto dell’inno dei lavoratori, si mosse da Via Palestro verso Corso Venezia. Lo sciopero era stato proclamato per un gesto di solidarietà con coloro che, in altre città, erano stati bastonati, feriti e processati per aver chiesto la riduzione del prezzo del pane. Il corteo fu subito tagliato in due da un drappello di cavalleria che separò gli uomini dalle donne. In Corso Venezia, i soldati dispersero la testa del gruppo, scomparendo, poi, oltre Porta Venezia; ma il timore che tornassero, spinse alcuni operai a fermare due tram e a metterli di traverso sulla strada. A questo punto intervenne un reggimento di fanteria che, accolto da una sassaiola, aprì il fuoco, uccidendo due persone. L’incidente si sarebbe concluso con questi due morti se, alla notizia dello sciopero della Pirelli, i proprietari di quasi tutti gli stabilimenti industriali e dei cantieri edili non avessero ordinato la sospensione del lavoro. Calata la sera su quella drammatica giornata, Torelli Viollier tornò al giornale e scrisse un articolo tranquillizzante. Ma qualcuno non la pensava come lui. Il segnale lo diedero due cannonate sparate la mattina di domenica, a Porta Ticinese, da cui sarebbero dovuti entrare, secondo voci sparse ad arte, gli studenti universitari di Pavia (che qualche tempo prima avevano condotto, nella loro città, una manifestazione contro la violenza della Polizia). Le esplosioni uccisero, invece, solo alcuni inermi cittadini. Bava Beccaris restò indeciso sul da farsi, ma telegrafò al Re per comunicargli che l’ordine era ristabilito. Nel pomeriggio si diffuse, però, la notizia che bande di emigrati anarchici e socialisti stavano affluendo dalla Svizzera e dalla Francia, per congiungersi con quei fantomatici studenti di Pavia. In tarda serata l’esercito prese il controllo di tutte le operazioni e, a mezzanotte, Torelli Viollier intercettò, al telefono, un messaggio del Comandante di Porta Magenta al Generale Bava Beccaris: “Siamo riusciti a fermare una pattuglia che fuggiva disarmata, ma il combattimento continua”. Nel corso della notte la cavalleria e l’artiglieria presero posizione nelle strade più importanti, facendo fuoco alla cieca ovunque fosse segnalata la presenza di “rivoltosi”. A Corso Garibaldi furono freddate due donne. Colpi di fucile e di cannone venivano ormai esplosi all’impazzata: Milano era sotto assedio e a decina si contavano i morti ed i feriti. Fu dato l’ordine di “sparare a vista”. “In fondo a Viale Concordia”, racconta Torelli, “ci sono le cascine Acquabella, ad un chilometro e mezzo; i contadini, udendo il frastuono delle armi, correvano alle loro case e cadevano sotto i colpi che partivano dal bastione. Da altre parti, i cittadini che rincasavano in Via Vivajo erano fucilati. Due impiegati del Monte di Pietà, che rientravano a casa, attraversando i giardini pubblici, furono uccisi; ad un mio redattore, che faceva altrettanto, fu sparata una fucilata, ma per fortuna lo lo colpì. Insomma, una quarantina di persone innocenti furono così uccise nella città tranquillissima”. Di fronte a questi avvenimenti, Torelli sentì che doveva prendere qualche iniziativa. Recatosi dal Sindaco, Giuseppe Vigoni (1846-1914), lo affrontò: “Tentai di persuaderlo che la rivoluzione era stata ingigantita. Non c’è stato incendio, né devastazione, salvo qualche tram tolto dalle rotaie per far barricate, né saccheggio. Non c’è stata violenza fatta ad alcuno. Questo ed altre cose dissi al Sindaco Vigoni e mi accorsi che erano poco gradite. Nei giorni successivi, non potendo dire nel giornale quel che pensavo, lo dissi ad altri pezzi grossi, senz’altro risultato, pare, che di passare per uomo che vuol tenere due piedi in una staffa e per un falso conservatore, un infido, un giornalista che mira soltanto alle “palanche” (quattrini, in gergo dialettale). Non potei parlare nel Corriere come piaceva a me, ma non volli neanche parlare come piaceva agli altri. Perciò, quando mi furono comunicati i telegrammi di felicitazioni, inviati dal Re, ahimè, e da di Rudinì al Bava, il secondo dei quali lo lodava pel “rigore” dimostrato, rifiutai di stamparli e rifiutai l’indirizzo dei cittadini al Bava, che lo esortavano a perseverare nel “rigore”.
Intanto il Generale proclamava lo stato d’assedio a Milano e provincia, mettendo in funzione i tribunali militari. Duemila persone furono arrestate: operai, dirigenti politici socialisti, radicali, repubblicani e cattolici, da Filippo Turati a Don Davide Albertario, che fu processato e condannato a tre anni di carcere, perchè ritenuto uno dei fomentatori. Aveva scritto che la miseria era il motivo fondamentale della protesta popolare. “Il popolo vi ha chiesto pane e voi avete risposto piombo”. Uomini di cultura, scrittori, giornalisti vennero gettati alla rinfusa nei cameroni del castello sforzesco; una dozzina di giornali e periodici furono soppressi e vennero sciolte le associazioni di mutuo soccorso di qualsiasi genere.
Ma al di là della elementare logica della violenza militare, a Milano, in quei giorni la borghesia aveva chiarito i propri propositi. “La borghesia”, commentava Torelli Viollier, “è stata feroce nel giubilo per la vittoria ottenuta, com’è feroce ora la reazione. Siamo in pieno “colpo di Stato”, fatto a beneficio della borghesia contro il popolo, ossia di una classe contro l’altra, dell’oppressore contro l’oppresso”. Pur nelle difficoltà create dallo stato d’assedio, Torelli Voillier cercò di utilizzare il “Corriere della Sera” non solo per sdrammatizzare una situazione artificiosa, ma per chiedere ai tribunali di essere miti e di non trascinare in giudizio persone di cui non si fosse accertato il reato. Era troppo per i conservatori e moderati milanesi che volevano continuare a riconoscersi nel Corriere: messo quasi alla porta, come un traditore, dal principale quotidiano meneghino, Torelli Viollier fu accusato di “spingere il popolo a fare le barricate”. Si dimetterà, per l’appunto, il 1° giugno dal giornale che aveva fondato nel 1876.