Quel 3% che ci sta strangolando


Negli ultimi giorni, anche a seguito di promesse elettorali dei due partiti al governo, si è riaperta la querelle sul divieto di sforamento del 3% del rapporto deficit/pil che viene imposto dall’Europa agli Stati che fanno parte dell’Unione. Occorre innanzitutto dire che il rapporto deficit su pil al 3%; è un valore del tutto arbitrario che è stato concordato in sede UE parecchi anni or sono e che da allora non è mai stato riveduto, come invece sarebbe stato opportuno.
La scelta di un unico valore era dettata dal non voler accettare ciò che è sotto gli occhi di tutti: ossia che l’Europa viaggia a due velocità. La smania di voler omologare ogni cosa, dalla lunghezza delle banane (che l’Europa non produce) ai regolamenti bancari senza avere attuato l’unione bancaria ma solo monetaria, ha prodotto questa mostruosità economica che sta mettendo in ginocchio sia i Paesi più deboli sia quelli più virtuosi. Già, perché Stati come la Germania e l’Olanda, che si trovano una bilancia commerciale estera in forte attivo (oltre i parametri ammessi!) potrebbero tranquillamente sforare il rapporto a fronte di un maggiore livello di importazione. L’Italia e la Grecia, oltre ad altre nazioni, avrebbero invece bisogno di maggiore flessibilità per poter meglio organizzare le strategie finanziarie che consentirebbero una più veloce uscita dal pantano.
Inoltre il 3% è un numero pensato quando l’economia tirava, c’era l’inflazione e non c’era stata una crisi globale di proporzioni enormi come quella del 2008 che ha profondamente cambiato tutto tranne le teste dei geni di Bruxelles.
Infatti, dal 2008 quella regola è stata schifata da tutti; fuori dall’Europa nessuno sa che esiste (pensiamo alle curve di deficit e debito pubblico di Inghilterra, Stati Uniti e Giappone) e anche nell’Eurozona c’è chi l’ha rispettata e chi no. Soprattutto in contesti economici di forte recessione coloro i quali l’hanno rispettata hanno fatto molto peggio di chi non l’ha rispettata. Gli andamenti degli indicatori di finanza pubblica di Francia e Italia da allora hanno iniziato a divergere profondamente (in senso peggiorativo per l’Italia), proprio quando noi applicavamo il 3% e l’austerity e la Francia se ne fregava.
Questo accade perché, come detto in un precedente articolo, l’esempio citato fino alla nausea da chi se ne intende per far capire a chi non se ne intende il problema (e cioè che anche quando una famiglia ha i debiti bisogna stringere la cinghia) è completamente sbagliato. Nel caso dello Stato la spesa è pil, mentre per una famiglia il reddito è una variabile esogena e indipendente dalle spese. Se lo Stato interrompe i progetti infrastrutturali (come le grandi opere, l’ammodernamento di strade, ferrovie e vettori aerei), il pil scende. Se la domanda privata viene meno, per esempio per una crisi, lo Stato dovrebbe fare politiche anticicliche, ossia – per spiegarmi meglio – andare controcorrente e promuovere azioni di politica economica che frenino l’andazzo recessivo. È quello che è successo in tutte le economie sviluppate dal 2008 a oggi in cui i problemi «privati» sono stati curati a debito. La cosa incredibile, almeno per come è stato vissuto il fenomeno in Italia, è che a nessuno, «sui mercati», è importato niente. Quello che abbiamo imparato è che ciò che conta è preservare l’economia, che è l’unico vero garante del debito. Anche un mutuo molto grande non è un problema nella misura in cui non si perde il posto di lavoro; invece anche l’acquisto a rate della televisione è un problema se si perde il lavoro!
L’Italia è in avanzo primario da 27 anni; né la Francia, né la Germania si avvicinano minimamente a questo primato. Nel frattempo l’Italia si è venduta di tutto, erodendo il «patrimonio» pubblico e regalando enormi fortune ai privati. Vi ricordate la minaccia di Agnelli di far fallire la FIAT mettendo sul lastrico 200.000 famiglie se lo Stato non avesse concesso la cassa integrazione? E infatti lo Stato (che in fondo è composto da uomini, e gli uomini – si sa – si possono sempre comprare) ha calato le braghe, si è messo a 90 gradi e ha pure porto un bel vasetto di vaselina a un predone che in altre democrazie avrebbero sbattuto in galera. Dall’altra parte del confine invece abbiamo lo Stato francese che è il primo azionista della Peugeot nonché tra i maggiori player in svariate realtà multinazionali transalpine; la Germania che salva le sue banche a debito (e poi sbraita con l’Italia quando si tentava di mettere una pezza al disastro bancario provocato da malversazioni e nepotismi criminali. Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, poi, vediamo un piano di stimoli fiscali con il debito oltre il 100% su Pil!
E allora? Beh, allora forse la tavoletta che ci hanno raccontato per anni era un po’ ‘ammaestrata’ e forse, con la distruzione della domanda pubblica che ha compromesso l’economia si è danneggiato irrimediabilmente anche il debito. Chissà se qualcuno si è mai chiesto perché le nostre imprese di costruzioni sono state le uniche in Europa a trovarsi di colpo senza lavoro e senza mercato interno.
Certo anche il nuovo codice degli appalti, scritto da burocrati (nostrani) asserviti ad altri burocrati (a Strasburgo, Bruxelles e Francoforte) ha avuto parte attiva in questo disastro, ma non è stata certo la causa principale.
Proviamo però a immaginare che la storia non esista e che certi vincoli non vadano annoverati fra le cause del declino italiano. Ebbene, regioni dove la disoccupazione sfiora il 25% e quella giovanile supera il 50%, come la Calabria e la Sicilia, non possono ripartire con il privato che non avrà mai interesse a investire, visti i numeri per nulla promettenti. Anche puntare sul turismo è una chimera se non ci sono strade, ferrovie e aeroporti e magari anche una compagnia di bandiera che faccia utili anziché deficit strutturale. Questi investimenti nessun privato avrà mai voglia di farli, a meno di rendimenti garantiti dallo Stato con soldi pubblici. Il motore di certe aree è in stallo e servono spinte esterne che non possono arrivare dal «mercato» in un mondo dove i concorrenti non solo non hanno mai smesso di investire (a debito!) ma riducono anche le tasse. Il mercato in Grecia ha solo generato svendite che non hanno creato manco un posto di lavoro. Se passando dal 3% di deficit al 3,5% il Pil aumentasse, nessuno, sui mercati, si preoccuperebbe. I parametri di debito su Pil applicato a tutti, indipendentemente dai risparmi privati, è un’altra follia mitologica che non spiega, per esempio, come mai il Giappone con il suo debito su Pil al 250% sia ancora vivo e molto più vegeto di noi. Ma il fatto più folle è che mentre oggi i soloni della Commissione lanciano anatemi per un rapporto al 2,4%, negli anni dei governi amati dall’Europa (leggi: da Monti a Gentiloni, passando per l’Inutile e per il Bomba) il rapporto deficit/pil era arrivato a al 2,9% e per qualche mese aveva addirittura sforato il tetto tabù del 3%!
Se dunque l’Italia è costretta a rispettare questo parametro anche in fasi recessive mentre il resto del mondo se ne frega, l’unico epilogo possibile è il fallimento. Perché si alimenta un circolo vizioso.
Oggi le alternative sono solamente tre. Rispettare i vincoli europei e fallire come la Grecia: è solo una questione di tempo. Non rispettarli per pagare progetti strampalati, assunzioni pubbliche a caso e bonus insensati oppure non rispettarli per produrre lavoro, fare sviluppo, infrastrutture, e fabbriche. Con le prime due andiamo a sbattere, con la terza si può pensare a un’inversione di rotta.