Qualcosa non quadra


Il quarantennale della strage di via Fani, in cui persero la vita i cinque agenti della scorta di Aldo Moro, ha riportato tragicamente alla ribalta quei fatti dolorosi.
I cinquantacinque giorni della prigionia di Moro, conclusisi con la sua esecuzione da parte dei brigatisti rossi, segnerà per moltissimo tempo ancora una delle pagine più buie ed incerte della nostra storia. I molti inquietanti misteri ancora irrisolti potranno essere svelati – forse solo in parte – quando verrà tolto il segreto di stato, tra una decina d’anni salvo proroghe.
Nel frattempo i protagonisti di quegli anni saranno trapassati e le responsabilità non potranno essere più addossate ad altri se non a delle lapidi.
Ma in questi giorni un’altra lapide è stata per l’ennesima volta oggetto di vergognoso insulto da parte dei soliti ignoti per i quali le telecamere di sorveglianza sono sempre spente: una mano sacrilega ha dipinto con la bomboletta rossa le lettere BR sul marmo appena inaugurato, dopo che alcuni mesi fa la stele posata quando i fatti erano appena accaduti era stata imbrattata da altre scritte contro la polizia.
Vista la situazione, uno spererebbe che almeno i colpevoli di quei fatti siano tutti in galera. Ma questo è il Paese delle Meraviglie di Alice, dove tutto va alla rovescia. Infatti Mario Moretti, sei ergastoli, vive a Torino, aiuta gli altri detenuti in carcere ma soprattutto aiuta se stesso a uscirne la mattina, avendo ottenuto da tempo il regime di semilibertà grazie a un comportamento corretto ed educato. In via Fani, quarant’anni fa, si era mostrato appena appena un po’ meno gentile: lui era l’ideologo, il regista sul campo, l’esecutore materiale. Arrestato a Milano nell’81 dopo nove anni di clandestinità, Moretti nel 1987 ammise pubblicamente il fallimento della lotta armata pur senza mai dissociarsi né collaborare con gli inquirenti; anzi, non si capisce perché i giudici gli abbiano concesso la semilibertà (nel luglio del 1997) giacché sottolinearono che il brigatista rosso “continua ad avere un atteggiamento altero” e “solo a tratti” ha dato la sensazione di “provare compassione” per il dolore causato alle vittime.
Anche Valerio Morucci era in Via Fani, considerato il numero due di quello squadrone della morte che aveva dagli undici ai diciannove elementi: venne arrestato nel 1979 e condannato a diversi ergastoli, oggi è libero ma non è poi molto pentito. Nel 1985, durante il processo d’appello per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, si dissociò ufficialmente dalla lotta armata. Fu scarcerato nel 1994. Attualmente vive a Roma, dove lavora come consulente informatico. Nel 2008, giusto per farsi un’idea sul pentimento di questo ex Br, un articolo del quotidiano francese Le Monde titolò: «Valerio Morucci, brigatista “senza rimorsi”».
Raffaele Fiore, invece, in via Fani, oltre a sparare e a uccidere, insieme a Mario Moretti estrasse dall’auto Aldo Moro e lo trasferì sulla Fiat 132 blu pronta a partire per il covo di via Montalcini. Dopo svariati omicidi, concluse la sua carriera criminale il 19 marzo 1979 quando venne catturato a Torino e condannato all’ergastolo. Non si è mai pentito e dal 1997 gode della libertà condizionale, confermata nel 2007.
Franco Bonisoli fu invece quello che uccise, in strada, l’unico agente che riuscì a reagire: il 1º ottobre 1978 fu condannato all’ergastolo nel processo romano Moro-Uno, nel 1983 si dissociò e attualmente fruisce (anche lui) di un regime di semilibertà.
Ma la lista dei brigatisti che a vario titolo sono stati indicati come membri del commando di via Fani sarebbe lunga: Alvaro Lojacono, cittadinanza italiana e svizzera, coinvolto anche nell’omicidio di Michele Mantakas, autore anche dell’omicidio del giudice Tartaglione, che in Svizzera ha scontato solo 11 anni ed è uscito per buona condotta., nonostante una condanna della giustizia italiana all’ergastolo ed è da anni libero. Su Alessio Casimirri, latitante in Nicaragua e titolare a Managua prima del ristorante Magica Roma e poi della Cueva del Buzo, molti si sono mossi per chiedere iniziative del governo sul fronte dell’estradizione. Ma non servirà a nulla. E gli altri? Qualcuno è morto, come Prospero Gallinari, tanti sono liberi, Annalaura Braghetti, l’affittuaria della prigione di via Montalcini, si occupa di informatica, Adriana Faranda fa la fotografa, l’ideologo delle Br Renato Curcio (che non ebbe però un ruolo diretto in via Fani perché già in carcere) tiene lezioni all’università come intellettuale. Poco tempo giorni fa Faranda e Bonisoli sono stati invitati a Scandicci a tenere un corso per i magistrati.
C’è poi Barbara Balzerani, membro negli anni Settanta e Ottanta della direzione strategica delle Brigate Rosse, le cui esternazioni di alcuni giorni or sono a Firenze rischiano comunque di tradursi in grattacapi giudiziari. Non rischia di tornare in carcere, beninteso, perché dal 2011 – dopo avere trascorso cinque anni in libertà condizionale – ha ottenuto una sentenza che dichiara scontata la sua pena: non è vincolata nè al silenzio nè alla buona condotta.
Nel pieno delle commemorazioni per il quarantennale della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro – cui partecipò in prima persona – la Balzerani ha scelto di polemizzare contro le vittime del terrorismo, «ormai la vittima è diventato un mestiere». Dichiarazioni che sono suonate oltraggiose al figlio di un caduto di quella stagione, il sindaco di Firenze Lando Conti, assassinato dalle BR il 10 febbraio 1986. Lorenzo Conti ha annunciato che sporgerà querela nei confronti della ex brigatista. Nel frattempo la Procura del capoluogo toscano ha già aperto un fascicolo, acquisendo la relazione della Digos con il testo integrale delle esternazioni della Balzerani a margine della presentazione di un suo libro al Csa, il centro sociale dell’ultrasinistra fiorentina. Allo stato si tratta di un fascicolo esplorativo, senza ipotesi di reato. Ma è il segnale che le esternazioni della donna hanno passato il segno. Come racconta anche la reazione di un’altra familiare, Olga D’Antona, moglie del giurista Massimo, ucciso nel 1999: le parole della Balzerani, dice, «sono un incitamento a un’ulteriore violenza e un’ulteriore eversione». E conclude amara: «Ha ragione la Balzerani quando dice che il nostro diventa un lavoro. Ma noi non lo abbiamo scelto».
A documentare le parole della «Compagna Luna» sono stati i microfoni di Pietro Suber di Matrix, che ne manderà in onda la registrazione integrale nella puntata di stasera. Sono frasi che vale la pena di riportare ampiamente: «Qui c’è una cosa in questo Paese che ci riporta altro che alla caverne. Ci riporta ad un livello insopportabile. C’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere. Non è che se tu vai a finire sotto una macchina sei una vittima della strada. Lo sei per il tempo che ti riaggiustano il femore, non è che lo sei tutta la vita! C’è questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l’hai solo te il diritto! Non è che la storia la puoi fare solo te!». L’ex ergastolana se la prende con le celebrazioni dell’anniversario: «Tutto questo marasma, questa isteria che c’è oggi ad dover ridurre la ricchezza di quegli anni, le conquiste di quegli anni, concentrati in un episodio, in una mattina. Come se il 16 marzo fosse venuto da Marte». Rende omaggio ai militanti no Tav della Valsusa, e ha parole pesanti per il ministro degli Interni Marco Minniti: «Questa spada di Damocle che questi signori intendono mettere sulle lotte attuali. Ai quattro ragazzi che avevano manomesso il compressore in Val di Susa gli hanno dato l’accusa di terrorismo, li hanno messi in 41 bis! C’è una sproporzione tra quello che accade e quello che i vari Ministri degli Interni con l’ultimo che Dio lo perdoni riescono ad elaborare, che mette paura, veramente».
Intanto, a vedersi presentare il conto per avere ospitato lo show della Balzerani potrebbero essere gli ultras del centro sociale Cpa di Firenze Sud. Il consiglio comunale del capoluogo toscano ha approvato ad ampia maggioranza una mozione che ne chiede lo sgombero immediato.
Ecco. Questo riescono a dire personaggi che dovrebbero popolare le patrie galere, e non invece i palchi dei comizi e le cattedre universitarie.
E invece in questa Wonderland per adulti rincretiniti dal calcio e dai social, che credono più ai no-vacs che ai luminari della medicina, questi pendagli da forca hanno facoltà di parlare, e di inorridire perché questa facoltà spetta anche alle loro vittime!
Anche i giornalisti che amplificano queste notizie senza metterci quanto meno una chiosa critica non fanno altro che soffiare su un fuoco nefasto, che nel tempo incancrenisce un modo di porre le notizie alimentato dal solo combustibile dell’audience e del denaro che questa si trascina seco.
Mi sembra giusto citare una collega, Elettra Santori di Repubblica: “Tutti i giornalisti che danno voce agli ex brigatisti dicono di farlo perché animati dal nobile desiderio di capire (che sarebbe nobile davvero se realmente fosse desiderio di capire). Solo che poi non pongono le domande giuste, quelle incalzanti e scomode, che riempiano i buchi della storia brigatista ancora vacanti. Si presentano come indagatori dell’occulto, e poi l’occulto resta lì, inviolato, protetto dalla deferenza che chi usa la penna nutre da sempre verso chi sa usare il mitra. Si ammantano di virtù e conoscenza, ma altro non fanno che del normale infotainment pescando nella necrocultura che si diletta con la morte violenta. Le Balzerani vengono fuori così, da questo incontro tra domanda e offerta di cultura necrofila, come circenses di un establishment che le mastica e le sputa, le mitizza e le normalizza, suscitando a un tempo ripulsa e appeal; e infine le disinnesca nei meccanismi dell’entertainment. O meglio, dell’entertai-rrorism, è il proprio il caso di dire.”
Come si diceva, nessuno dei carnefici, dei pluriassassini, dei fondatori storici è più in galera, ormai da tempo.. Hanno trovato lavori più o meno normali, aiutati in qualche modo dalle cooperative che hanno fatto capo al Pd (già Ds, già Pds, già Pci, …), a Comunione e Liberazione o alla Caritas. Molti, e qui siamo al paradosso, dalla clandestinità sono passati alla vita dei social, qualcuno continua a farlo dalla latitanza perché non tornò mai e nessuno più lo cerca. E’ il caso di Mario Moretti che vive in una casa dell’Istituto di previdenza dei giornalisti, a Milano: la moglie infatti è una giornalista, e non frega a nessuno che fu l’uomo che volle il rapimento di Moro e ne decise la sorte.
Anche Giovanni Senzani dal 2004 è in semilibertà e dal 2010 è un uomo libero. 73 anni, sordo e infermo, è stato uno dei protagonisti al funerale di Prospero Gallinari, un raduno tra l’inquietante e il patetico. Senzani, tanto per inquadrare il tipo, fu quello che tenne prigioniero e assassinò Roberto Peci, il fratello di Patrizio Peci, il primo pentito delle BR. Poi gli tolse la benda dagli occhi per vedere se dopo 11 colpi era morto. Raccontò che fu un gesto di pietà. Ma a contrassegnare il suo passato sono i legami coi servizi segreti. Al momento dell’arresto viveva in casa di un ufficiale, e fu tra quelli che frequentarono l’Hyperion, la scuola di lingue a Parigi che si ipotizzava fosse una centrale dei servizi deviati, sebbene nessuno lo abbia mai pubblicamente confermato. Senzani ha scritto anche un libro e un film con Pippo Delbono, ed è stato ospitato al festival di Locarno. Adesso è ufficialmente pensionato, ma appena è nella condizioni sfoggia ancora l’intelletto applicato alla lotta. Sposò la sorella di Enrico Fenzi, anche lui un intellettuale delle BR. Fenzi in carcere ha passato solo tre anni; oggi è pensionato anche lui, scrive e studia Dante e Petrarca.
Una storia a parte quella di Renato Curcio e Alberto Franceschini, fondatori delle Brigate rosse, ma senza nessun reato di sangue alle spalle: vennero arrestati a Pinerolo nel 1974, prima della stagione di sangue brigatista. Curcio dirige una casa editrice, ‘Sensibili alle foglie’, e fa il sociologo. Franceschini scrive libri e ha lavorato per l’Arci.
Perché vi ho raccontato tutto questo? A parte l’indignazione che mi travolge e mi fa avere conati di vomito al solo pensiero che nessuno dei colpevoli di allora sia più in carcere, mi viene spontaneo un paragone con un fatto di queste ultime ore: venerdì scorso, alla seduta di apertura della nuova legislatura, le votazioni per eleggere il presidente del Senato, seconda carica dello Stato, sono andate letteralmente in bianco: tale il colore di molte schede che i neo-senatori hanno depositato nell’urna, nonostante le raccomandazioni di un Napolitano insolitamente neutrale e fustigatore dei vinti del partito dei Poveri Diavoli.
In condizioni normali non ci sarebbe da stupirsi: spesso accade che l’accordo si trovi dopo alcune votazioni, ma ciò che fa gridare vendetta è il fatto che i grillini, dopo aver quasi accettato la candidatura di Paolo Romani la abbiano affossata perché la loro regola trappista non consente di eleggere un condannato!
Allora c’è qualcosa che non quadra: loro che hanno l’ideologo nonché fondatore condannato in via definitiva per omicidio (stradale) e una schiera di parlamentari, sindaci e consiglieri negli enti locali eletti nonostante condanne varie, loro che non hanno trovato nulla da dire a che una brigatista non pentita si esprimesse in quel modo sbeffeggiando le sue stesse vittime, fanno le pulci sull’elezione di un Paolo Romani che è stato condannato (nonostante la restituzione della somma) per aver lasciato usare alla figlia un telefonino che il Comune di Monza gli aveva concesso in uso come assessore? Ma siamo impazziti? Una buona dozzina di assassini sono ormai da anni liberi – grazie a giudici sui quali non voglio spendere nemmeno un pensiero, figuriamoci un parola – e non si elegge a presidente del Senato un uomo onesto, competente e affidabile solo per una leggerezza? Ma andate tutti a quel paese!