Fujtevenne….!


Mi è stato chiesto di occuparmi di un tema ai più sconosciuto : Quanto costa allo Stato formare un suo allievo e la conseguente fuga di cervelli. Le cifre oscillano da regione a regione ma formare un allievo in Italia(dai 3/25 anni) costa tra i 90 e 124 mila euro si dirà “una bella cifra”, si indubbiamente considerevole se non si guarda alle altre nazioni ed ai loro investimenti in cultura, ma di questi 124 mila euro lo Stato cosa ci guadagna? In un Paese normale investire in cultura vuol dire formare almeno il 2% di PIL ma non Italia dove menti brillanti sono ostacolate dai figli e comare e molte volte dai figli delle comare dei Baroni Universitari. L’emigrazione di persone altamente qualificate è aumentata durante la crisi. Il numero di cittadini italiani con titolo di studio terziario che ha lasciato il paese è cresciuto rapidamente a partire dal 2010 e non è stato compensato da flussi di italiani di pari qualifiche che hanno fatto rientro in patria”, tanto che dal 2010 al 2017 la percentuale di soggetti con titolo di studio terziario (universitario), di età superiore a 25 anni, sul totale degli emigrati è cresciuto dal 24% al 30%, corrispondenti a un flusso emigratorio aumentato da 8mila a 20mila persone e a fronte di un “rientro” salito da 5mila a poco più di 6mila persone, con un saldo negativo esploso del 350%.
Ad aggravare, lo stesso rapporto ammette che le statistiche ufficiali dell’emigrazione altamente qualificata dal nostro paese è senz’altro sottostimata in quanto non tutti i cittadini che lasciano l’Italia si registrano presso le autorità consolari italiane nel paese di destinazione. Tra le ragioni di questa drammatica evoluzione, la Commissione ne indica soltanto di economiche : retribuzioni molto più elevate, superiore accesso a posti a tempo indeterminato, posizioni più corrispondenti all’effettiva qualifica, e ovviamente un’offerta d’impiego più alta, tutto questo addotto a spiegazione anche della bassissima propensione al ritorno. Si tratta quindi di una vera e propria fuga, e non della fisiologica e spesso positiva circolazione dei cervelli (formazione o esperienza temporanea all’estero) e tanto meno di scambio dei cervelli, in cui l’emigrazione qualificata è bilanciata da un’immigrazione altrettanto qualificata, tanto è vero che –secondo lo stesso rapporto – “la proporzione di cittadini stranieri residenti in Italia tra i 25 e 64 anni in possesso di un titolo di studio terziario è molto più bassa di quella dei cittadini italiani (11,5% contro 17,5%).” Confermando indirettamente quanto più volte sostenuto su queste colonne: al danno della partenza definitiva di tanti soggetti in grado di contribuire molto positivamente allo sviluppo della Nazione corrisponde paradossalmente un danno esiziale dall’accoglienza di masse crescenti di natura parassitaria. In quanto ai danni economici, che nei termini del rapporto Ue sono riferiti come rischi per la crescita potenziale, questi sono attribuiti alla “perdita netta permanente di capitale umano altamente qualificato, a danno della competitività dell’Italia”, che “può compromettere non solo le prospettive di crescita economica dell’Italia, ma anche le sue finanze pubbliche. La fuga di cervelli comporta un duplice costo finanziario: in primo luogo, in termini di spesa pubblica sostenuta per l’istruzione di studenti che poi lasciano definitivamente il paese e, in secondo luogo, in termini di futura perdita di gettito da imposte e contributi sociali che i migranti altamente qualificati avrebbero pagato lavorando in Italia”. Un quadro drammatico, aggravato se possibile dalla ultima posizione del nostro paese nell’Ocse per percentuale di laureati sulla popolazione totale e nella bassissima spesa per laureato rispetto ai principali partner e competitori. Ciò nonostante, e a dispetto dei ridicoli investimenti in ricerca e sviluppo nel 2017, l’1,26% del Pil contro la media Ue del 2% e all’esiguo numero di ricercatori 5 su mille persone in Italia contro gli 8,5 in Francia e Germania la ricerca italiana è settima nel mondo per impatto, specchio di una vitalità quasi eroica degli addetti del settore. Alla luce di tutto questo, provocatoria ma non del tutto fuori luogo appare una proposta rilanciata dal sito accademico specializzato Roars, sintetizzabile in questi termini: “Onde evitare che i dottori di ricerca formati a spese della nostra nazione vadano a contribuire alla ricchezza di altre nazioni, semplicemente smettiamo di formarne”.Più in dettaglio, la paradossale proposta muove dalla considerazione che “gli spropositati costi che il nostro paese deve sostenere la loro formazione (prevalentemente con fondi pubblici) finiscono per rappresentare un regalo immeritato ai paesi stranieri in cui questi ricercatori migreranno. Un regalo che, purtroppo, non è ricambiato quasi mai con dei flussi migratori in entrata”, e i costi sono davvero elevati, dato che solo per pagare la sua borsa di studio, la formazione di un dottorando ci costa circa 40mila euro in tre anni, “per non parlare dei costi operativi per la ricerca o del costo-opportunità rappresentato dal tempo in cui i nostri ricercatori sprecano a formare capitale umano che andrà arricchire spesso e volentieri la ricerca degli altri paesi, invece di passare il loro tempo a pubblicare per scalare le classifiche mondiali. Da qui, la drastica proposta di “abolire tutti i dottorati di ricerca in Italia (come primo passo verso misure ancora più drastiche), al fine di smettere di regalare menti positive alle nazioni concorrenti. Se tuttavia, si sostiene ancora, si potesse contare sul fatto che i ricercatori e le ricercatrici fossero dei Veri Italiani, si potrebbe appellarsi al loro senso di patriottismo: amate la Patria, non accettate di abbandonare il suolo italico per arricchire le altrui nazioni, ma l’esperienza insegna che troppo spesso i ricercatori e le ricercatrici sviluppano una cultura individualistica, poco attenta al senso della comunità. Una cultura che li porta ad arrendersi di fronte alla disoccupazione che purtroppo affligge l’Italia invece di insistere e lottare, preferendo piuttosto diventare mercenari al soldo di altre nazioni .I nemici della Patria potrebbero obiettare che questa manovra sia ingiusta continua il testo della proposta perché porterebbe all’Italia un eccessivo vantaggio competitivo rispetto alle altre nazioni nella guerra dei talenti. A questi obiettori di coscienza buonisti si risponde: l’Italia ha già regalato troppo, ora è giusto che riscuota la sua parte”.È evidente che abbandonare i compiti di alta formazione significherebbe rinunciare definitivamente alla prospettiva di un rilancio del paese nel caso di un radicale cambiamento del quadro politico e del sentimento comune, il che tuttavia non riduce l’incisività e il valore provocatorio dell’intervento, né soprattutto invalida la classificazione dei profughi qualificati come mercenari. Anzi, assai più vili perché non rischiano nemmeno la pelle. Come sostiene Barbara Reca, emigrata alla Michigan State University di East Lansing, negli Stati Uniti,
“E’ vero che nel mondo della ricerca è importante andare all’estero, ma è importante tornare nel proprio Paese. Siamo andati via con la consapevolezza che non ci sarebbe stato futuro per noi in Italia, dove il nostro soggiorno è stato difficile e doloroso per tanti motivi, principalmente per lo stipendio, che era bassissimo, e per i ritardi nel rinnovo dei contratti”.
In uno scenario così desolante, non c’è da stupirsi se nella ricerca italiana non si respira nessun’aria internazionale. Se è vero che, come dice l’ex ministro della Salute Ferruccio Fazio, “nel settore della ricerca la mobilità è fisiologica”, c’è da chiedersi come mai nessun ricercatore straniero si muove verso l’Italia. Nella loro normale mobilità, i ricercatori stranieri da noi sono rari come le stelle alpine in riviera.
Pietro Bertino, biologo piemontese che durante il suo dottorato in Medicina Molecolare è volato da Novara al Cancer center dell’Università delle Hawaii, dichiara che “non ha senso fare il ricercatore in Italia”. La speranza è che, con il commissariamento di Monti e il totale fallimento della politica italiana, anche le sacrosante esigenze del mondo della ricerca vengano evase da uno Stato che ha trascurato del tutto il valore dell’eccellenza.
E’ fondamentale che i tecnici del governo Monti si mettano all’opera per risolvere le difficoltà congenite della ricerca italiana. Qualcosa in questa direzione è stato fatto, nel senso che d’ora in poi, in seguito all’approvazione della legge 238/2010, scatteranno delle agevolazioni per il rimpatrio dei cervelli fuggiti all’estero (chiunque abbia maturato esperienze culturali e professionali fuori dall’Italia), che sono oltre ventisettemila all’anno. La legge, battezzata “Controesodo”, presenta tuttavia dei limiti. Uno di questi è il fatto che vi è un tetto retributivo: indicativamente, il reddito annuo agevolabile non può superare i 230 mila euro l’anno per gli uomini e i 200 mila euro l’anno per le donne. Il risparmio annuo sarà di circa 65 mila euro all’anno.
Una volta superata questa soglia, la tassazione verrà applicata in maniera standard per l’eccedenza. Alessandro Rosina, presidente dell’associazione ITalents, la quale si occupa della promozione dei giovani talenti italiani nel mondo, ha espresso alcune perplessità su questa legge, seppur riconoscendo che è un primo passo verso la risoluzione del problema:
“I dati sui cervelli in fuga all’estero sono sottostimati e molto limitati, così come le caratteristiche rilevate su chi vi risiede, che sono utili per avere un profilo preciso di chi se ne va. Pur con questi limiti, quello che sappiamo è che il fenomeno è cresciuto molto ed interessa sempre più giovani con alti livelli di qualificazione. Esiste poi una questione legata alla natura del fenomeno. Se ci confrontiamo con gli altri grandi paesi, l’anomalia italiana risulta soprattutto evidente nel saldo netto tra “cervelli” che se ne vanno e quanti tornano o riusciamo ad attrarne dagli altri paesi. È soprattutto sotto questa prospettiva che il problema diventa particolarmente rilevante, e ci fa capire che la questione non è tanto la “fuga” ma la mancanza di capacità di ri-attrarre”.
Secondo i dati dell’Eurostat Force Labor Survey (Peri, 2002, la voce.info), nel 1999 il totale dei laureati italiani che lavoravano all’estero rispetto al del totale dei laureati in Italia era del 2,3 per cento, mentre quello dei laureati stranieri che lavoravano in Italia (sempre rispetto al totale laureati) era lo 0,3 per cento. Vale a dire che la percentuale di laureati emigrati è sette volte maggiore di quella di laureati stranieri presenti nel nostro Paese. Considerando gli altri grandi Paesi dell’Unione Europea (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna), questo squilibrio c’è solo in Spagna, dove però i due valori sono simili: 0,8 per cento di laureati emigrati contro lo 0,5 di laureati stranieri nel Paese.
Nel 2010 l’Icom, Istituto per la Competitività, ha diffuso i risultati di uno studio sul tema della fuga dei cervelli, commissionato dalla Fondazione Lilly e dalla Fondazione Cariplo. L’indagine ha avuto come scopo primario calcolare con precisione quanto perde in termini economici l’Italia a causa della fuga delle sue migliori menti verso l’estero. I dati ottenuti dalla ricerca evidenziano che nel corso dell’ultimo ventennio l’Italia ha perso complessivamente 3,9 miliardi di euro, cifra che corrisponde al valore di tutti i brevetti realizzati dai nostri scienziati in giro per i vari laboratori del mondo. Se l’Italia avesse destinato risorse adeguate alla ricerca e fosse stata in grado di fornire un adeguato supporto infrastrutturale, con ogni probabilità le casse dello stato avrebbero potuto godere dei frutti che la ricerca produce.
L’Icom ha presentato l’indagine al Senato della Repubblica, in occasione della consegna di una borsa di studio del valore di 360 mila euro, elargita dalla Fondazione Lilly e conferita ad una giovane ricercatrice italiana, l’oncologa Tiziana Vavalà.
E’ opportuno sottolineare che l’esportazione di capitale intellettuale non è solo una perdita di persone e del denaro speso per formarle. Le innovazioni prodotte all’estero dai cervelli in fuga saranno proprietà dei Paesi in cui sono state realizzate, da cui il Paese d’origine dovrà in qualche modo ricomprarle, tanto che un’altra delle definizioni di “brain drain” è quella di “trasferimento tecnologico inverso”. In un momento di crisi come quello attuale, in cui vi è già un capitale nazionale seriamente insufficiente, una perdita secca di risorse umane qualificate è qualcosa che dovremmo evitare in tutti i modi possibili. Per questo è fondamentale cominciare da una nuova organizzazione e da un radicale cambiamento di modalità di approccio verso la ricerca, non necessariamente erogando fonti che sappiamo bene che non esistono.
Se davvero vogliamo continuare a crescere come Paese, e non solo in termini economici, ma ricominciando a costruire un’idea di cultura sopra le macerie che somigliano molto a quelle da cui è iniziato il risveglio dell’Italia nel secondo dopoguerra, bisogna pensare a un’ottica di lungo periodo in cui lo sviluppo passi obbligatoriamente per la valorizzazione del merito e del sapere, puntando così sulla capacità a guidare quel cambiamento di cui abbiamo tanto bisogno.