È carneficina nel Sinai: oltre 300 morti


Uno o più ordigni sono stati fatti esplodere nel nord del Sinai, la penisola egiziana a cavallo tra il Mediterraneo e il Mar Rosso, all’esterno della moschea sufi di Bir al-Abeddi, una cittadina a circa 40km a ovest della capitale del nord della penisola del Sinai El-Arish.
I testimoni hanno riferito che venerdì scorso (NDR: 24 novembre) hanno assistito all’attacco portato da uomini armati di armi automatiche e di razzi che hanno circondato la moschea bloccando ogni via di fuga. Il commando avrebbe poi aperto il fuoco sui fedeli convenuti per la preghiera del venerdì per completare la strage già iniziata con le esplosioni degli ordigni per poi allontanarsi sui loro fuoristrada.
La televisione egiziana ha riportato che vi sono stati almeno 300 morti (di cui alcune fonti dicono oltre 25 bambini) e almeno 120 feriti.
Il presidente Abdel Al-Sisi apparso nella TV di stato subito dopo l’attacco ha proclamato tre giorni di lutto promettendo un pugno durissimo contro i responsabili asserendo nel suo intervento mediatico che “Le forze armate e di polizia vendicheranno i nostri martiri e ristabilito la sicurezza e la stabilità con l’uso della forza”.
E, infatti, a tale attacco è seguita la rappresaglia dell’esercito egiziano che con la sua aviazione avrebbe localizzato e distrutto un certo numero dei veicoli utilizzati dai terroristi.
Il massacro sembra sia stato condotto dall’ISIL, l’Islamic State of Iraq and the Levant, una formazione dell’ISIS, che reputa la setta islamica sufita infedele in quanto costituita da eretici politeisti che venerano idoli e non Allah. Infatti Timoty Kaldas, professore alla Nile Unversity del Cairo, ha detto che le modalità dell’attacco collimano con le metodiche di guerriglia tipiche dell’ISIS. Tuttavia non è al momento escluso che possa essere anche un’azione di Al-Quaeda, formazione terroristica mai davvero eradicata dalla zona del Sinai e non nuova ad attacchi contro comunità sufi.
In realtà la questione sembra avere una connotazione diversa che un mero regolamento di conti tra sette religiose come in prima lettura appare e, infatti, l’analista mediorientale Yehia Ghanem del giornale Al-Jazeera (NDR: media che alcuni governi sostengono simpatizzi per l’ISIS) ha sostanzialmente addossato la responsabilità politica e morale dell’accaduto proprio al governo di Al-Sisi argomentando che l’intensificazione della violenza nel Sinai occorsa negli ultimi quattro anni, ossia dopo che il precedente presidente egiziano Morsi fu deposto dai militari di Al-Sisi nel 2013, è stata la conseguenza della dura repressione militare esercitata nella regione dall’attuale governo. L’analista di Al-Jazeera ha infatti sostenuto che: “Il regime egiziano ha iniziato le violenze nel Sinai” e ha chiosato laconicamente con: “La violenza chiama violenza. E’ una regola”.
In sostanza più che una guerra fratricida tra musulmani radicali e moderati sembra si sia trattato di un chiaro messaggio politico inviato dai terroristi all’attuale governo forte del Cairo.
Ma l’azione di venerdì scorso ha anche una valenza e una ricaduta internazionale che non può lasciare nessuno indifferente. Infatti il controllo della penisola del Sinai è questione strategica di notevole importanza (NDR: la penisola del Sinai è lo snodo tra Africa, Asia ed Europa, basti pensare a al vicinissimo canale di Suez) e per tale ragione lo stesso presidente statunitense Trump ha immediatamente offerto aiuto militare all’Egitto per fronteggiare la situazione e ristabilire il pieno controllo dell’area.
Inoltre quanto accaduto, fermamente condannato dall’ONU e da numerosi leader politici internazionali, è un chiaro esempio di quanto avverrebbe anche in altri paesi laddove fosse consentito l’attecchimento dell’islamismo e, inevitabilmente, anche delle sue frange più radicali.