Mio padre ha visto…


Pacchi su pacchi di schede. “Così grossi – raccontava mio padre – che ci si potevano infilare le braccia”. Tutte schede già votate e tutte con la croce sullo stesso segno: a sinistra, sull’Italia turrita, che simboleggiava la Repubblica, contro la Monarchia rappresentata dallo scudo dei Savoia. Il giovane Brigadiere Beltotto vide quelle schede, negli scantinati del Ministero degli Interni. Era la notte del 4 giugno 1946 e i risultati del referendum non erano stati ancora annunciati, ma la voce, nei palazzi romani, già girava: vittoria alla Repubblica! Umberto II si preparava all’esilio di Cascais.
Di ombre su quel risultato si è sempre parlato. Ma ora, a settant’anni di distanza, arriva il ricordo di un testimone oculare dei brogli. Tommaso Beltotto allora aveva venticinque anni e già alle spalle una vita intensa. Controfirmò la relazione del Duca Giovanni Riario Sforza, Comandante in Capo dei Corazzieri Reali, con la descrizione minuziosa di quei sacchi nelle cantine del Viminale. E proseguì la sua vita da carabiniere. Sono passati settant’anni e Beltotto è morto nel 2001. Di quei sacchi non ha più parlato, se non in famiglia. E’ suo figlio Gianpiero a raccontare l’immagine, quasi fotografica, del referendum truccato, così come riferita dal padre. A cosa dovessero servire quei sacchi di schede truccate, il giovane Brigadiere non lo sapeva e non lo sappiamo noi oggi. Erano già state conteggiate come vere o dovevano servire, in caso di bisogno, per ribaltare un risultato sgradito? Di sicuro, erano la prova concreta di un referendum fasullo. Beltotto si era scandalizzato, a quella vista? Era un uomo concreto, realista, a detta del figlio. Quando in televisione o sui giornali qualcuno ipotizzava brogli nel referendum del 1946, sorrideva con ghigno ironico. “C’è poco da ipotizzare, i brogli li ho visti con i miei occhi”, diceva.
Il brigadiere Tommaso Beltotto non era lì per caso, la notte del 4 giugno. Nel settembre del 1943, quando comandava la Stazione dei Carabinieri di Monterotondo, aveva avuto l’ordine di arrendersi ai tedeschi e consegnare le armi. Se ne era ben guardato e si era unito alla Resistenza con i suoi fucili e i suoi militi. Fungeva da anello di collegamento tra le truppe partigiane di montagna e i reparti che operavano a Roma. Fu testimone dei vani tentativi del CLN di bloccare l’attentato di via Rasella. “Insomma – dice suo figlio – aveva la fama di persona equilibrata e devota. Sono convinto che il maggiore Riario Sforza quei sacchi di schede truccate li avesse già visti prima e che avesse bisogno di un testimone affidabile”. Qualcuno, cioè, che non andasse a raccontare al bar l’incredibile scoperta, ma che fosse pronto, nel momento del bisogno, ad attestarne la verità.
Così, quando il Duca Sforza (che pochi giorni dopo verrà ritratto nel salutare per l’ultima volta Umberto II che lascia il Quirinale), dovette scegliere qualcuno che controfirmasse il suo rapporto, la scelta cadde inevitabilmente su Beltotto, che non era suo subalterno, ma che aveva avuto modo di conoscere in quei frangenti delicati e complessi. Erano due uomini perbene e rigorosi, il duca e il brigadiere. Il primo, devoto di Casa Savoia, il secondo, carabiniere fin nel midollo, “che al referendum – dice il figlio – aveva votato Repubblica. Hanno messo per iscritto ciò che hanno visto, convinti di aver fatto il proprio dovere”.
Dell’esistenza del rapporto si seppe casualmente nel 1986, nell’aula bunker del processo di Palermo, per la presunta trattativa Stato-mafia, diventato, alla fine, una bizzarra ricognizione giudiziaria dell’intera storia della Nazione. Ma non se ne dette grande importanza. I fogli erano stati forse custoditi nella cassaforte della Prefettura di Palermo, che venne svuotata nel 1982, poco dopo l’uccisione del Prefetto Alberto Dalla Chiesa. Ma che fine abbiano fatto il rapporto, insomma, non si sa; rimane uno dei tanti misteri, delle nebbie impenetrabili che avvolsero quegli anni. D’altronde Riario Sforza è morto da tempo e sono morti anche i suoi due figli. La nuora, Elisa, racconta che “in casa, di questa vicenda, non ho mai sentito parlare”. Ma, per fortuna, nelle cantine del Viminale, il Duca non era da solo. C’era con lui il brigadiere Beltotto, nato, nel 1918, a Trinitapoli, in provincia di Foggia. Si racconta che l’unica vera marachella della sua vita sia stata l’essersi aumentata l’età, per arruolarsi nell’Arma prima ancora di essere maggiorenne. La sua biografia, negli anni convulsi dopo l’armistizio, è simile a quella di tanti italiani disabituati a decidere, ma che, nel momento di fare una scelta, non si tirarono indietro. Beltotto, per orientarsi, aveva la sua stella polare: l’Arma. Perché gli alamari da carabiniere li aveva cuciti sulla pelle. E scelse la sua strada, liberamente. Il paese di Monterotondo, dove Beltotto era Ccomandante di Stazione Carabinieri, divenne teatro di uno dei primi e più cruenti scontri tra reparti italiani e truppe tedesche, paracadutate dalla Luftwaffe sulla cittadina, per conquistare Palazzo Barberini, sede provvisoria dello Stato Maggiore dell’Esercito. Fece la sua parte, con semplicità e concretezza, non immaginando che, di lì a poco, si sarebbe trovato in quella cantina del Viminale, testimone di un crocevia della storia. Della sorte del suo rapporto, probabilmente, non si preoccupò più, perché il suo dovere lo aveva fatto e concluso firmandolo. Di come una copia, o l’originale, potesse essere presumibilmente arrivata nelle mani di Dalla Chiesa forse non lo seppe mai e, comunque, in famiglia non ne parlò. “Sono convinto” – dice il figlio Gianpiero –“ che un esemplare fosse comunque approdato a re Umberto e che, se si cercasse attentamente nelle carte di Cascais, qualcosa forse salterebbe fuori”. Una sola volta Beltotto ne parlò e fu con un politico. Avvenne ad Ortisei, dove negli anni Sessanta, ormai maresciallo, indagava sugli attentati degli indipendentisti. Un politico passava spesso le vacanze in zona e Beltotto gli confidò la storia dei sacchi di schede. Il politico si chiamava Giulio Andreotti e, ovviamente, non lo disse a nessuno.
Oltre 12,7 milioni di italiani (il 54,3%) votarono a favore della Repubblica. 10,7 milioni invece si dissero fedeli alla Monarchia. E’ questa la storia che conta.