Anacoreti nel deserto


Pietro Annigoni (1910 -1988) – Tempera grassa su tavola – (1947) – cm 75 x 75 – Quanshanshi Art Center, Hangzhou (Cina).


Pietro Annigoni è stato uno dei più grandi pittori del XX secolo. Nato a Milano, frequenta il ginnasio “Giuseppe Parini” di Milano e passa molte ore alla Biblioteca Ambrosiana per cercare di apprendere la tecnica dei disegni di Leonardo da Vinci.
Nel 1925 gli Annigoni si trasferiscono a Firenze per motivi di lavoro del padre di Pietro, ingegnere: ottiene la maturità classica presso l’Istituto degli Scolopi e i genitori gli danno l’autorizzazione di frequentare l’Accademia di belle arti con i professori Carena e Graziosi, perfezionando gli studi, poi, con lunghi viaggi, anche all’estero.
La sua prima mostra personale viene allestita nel 1932, presso palazzo Perroni. Fin dall’inizio si caratterizza per uno stile fedele alla realtà.
Nel 1947 con Gregorio Sciltian e i fratelli Xavier e Antonio Bueno, è tra i firmatari del manifesto dei pittori moderni della realtà. Servendosi con grande maestria dell’uso di antiche tecniche pittoriche (famose le sue tempere grasse) utilizzate nel Rinascimento, costruisce il suo percorso artistico in netto contrasto con gli stili pittorici propri del Modernismo e del Postmodernismo in voga negli anni della sua attività. Resta fedele al Realismo sino alla morte.
Una tale predilezione per il vero, lo pone velocemente in risalto nel campo della ritrattistica, dove chiaramente il committente vuol potersi riconoscere. La fama cresce negli ambienti nobiliari d’Italia. Nel 1949 si reca nel Regno Unito, dove realizza alcuni ritratti dei reali inglesi e di altri personaggi celebri, sino a che, nel 1955, riceve l’ambita commissione di ritrarre la regina Elisabetta II. (National Portrait Gallery, Londra). Ne riceverà grande notorietà. Il ritratto apparirà anche sui francobolli e su una banconota di Mauritius. Egualmente rilevanti, ma forse meno noti, quelli eseguiti per papa Giovanni XXIII, Filippo di Edimburgo, la principessa Margaret, la regina madre, Alcide De Gasperi, Mohammad Reza Pahlavi con l’imperatrice Farah in occasione dell’incoronazione avvenuta nel 1967, Margherita II di Danimarca e il non meno famoso ritratto di John Fitzgerald Kennedy pubblicato sulla copertina del Time. È un ritratto che fa parte della storia del ventesimo secolo: mentre Annigoni era nella stanza ovale con John Kennedy e gli stava facendo questo ritratto il Presidente discuteva al telefono se lanciare o no i missili su Cuba.
Nonostante sia ricordato come “Il pittore delle regine”, ebbe grande predilezione nel ritrarre anche “persone meno agiate e famose”, in cui era abile nel descriverne fedelmente tanto l’aspetto esteriore quanto l’interiore. Era solito dire: “Io ho scelto i poveri; i ricchi hanno scelto me”.
Dal 1966 alla morte, avvenuta nel 1988 all’età di 78 anni, la sua attività si caratterizza per un susseguirsi di mostre prestigiose, ma fra un’esposizione e l’altra, non manca di dedicarsi ad una delle sue grandi passioni: l’arte dell’affresco.
Annigoni si sentiva un pittore di altri tempi: come fu per molti pittori del passato la vera sfida era la tecnica dell’affresco, i colori diventano difficili da mischiare e sfumare visto che il pigmento viene assorbito dall’intonaco. Con gli affreschi Annigoni meditò su Dio e sul sacro: nei suoi diari l’artista scrisse: “Io sono un nostalgico di Dio […] ho bisogno di sapere che in quelle chiese ci sono uomini che pregano”. Gli affreschi che Annigoni eseguì nelle chiese furono sempre gratuiti, non volle esser pagato per questo tipo di lavoro. Il suo ultimo ciclo di affreschi si trova a Padova nella Basilica di Sant’Antonio (1978-1988), dove Annigoni ricerca un vero dialogo con Dio.
Una delle sue opere più importanti è il ciclo pittorico della chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo a Ponte Buggianese. Vi ha lavorato dal 1967 sino alla morte, con l’aiuto di vari allievi.
Nel 2008 è stato aperto a villa Bardini a Firenze il “Museo Pietro Annigoni”.
Il pittore è sepolto nel cimitero delle Porte Sante a San Miniato al Monte.
Il quadro intitolato “Anacoreti nel deserto” è considerato il suo capolavoro assoluto.
Col nome di Anacoreti o Padri del deserto si indicano quei monaci eremiti che nel IV secolo, dopo la pace costantiniana, abbandonarono le città per vivere in solitudine nei deserti d’Egitto, di Palestina, di Siria, sull’esempio di Gesù che trascorse quaranta giorni nel deserto per vincere le tentazioni del diavolo con il digiuno, la preghiera e la Parola di Dio, come raccontato nei Vangeli sinottici. La vita anacoretica è una delle prime forme di vita monastica cristiana e ha avuto origine prima della vita religiosa in comunità. Nell’ascesi solitaria, i Padri (abba) e le Madri (amma) del deserto cercavano la via della pace interiore. Testimoni di una fede cristiana vissuta con radicalità, ebbero numerosi discepoli e i loro detti o apoftegmi, in cui traspaiono sapienza evangelica e arguzia umana, furono raccolti e tradotti in varie lingue, dando vita al genere letterario dei Pateriká.
Uno storico dell’arte un po’ distratto che si fosse trovato a visitare nell’aprile del 2021 la mostra tenutasi presso lo Jiushi Art Museum di Shanghai, non avrebbe tardato a identificare nei quattro personaggi del dipinto, uno in piedi e tre seduti, dimessamente incorniciati nel paesaggio di un assolato deserto, i personaggi mutuati da un altro quadro famoso. La postura nobilmente assorta degli ascoltatori, il gesto misurato ma eloquente dell’oratore, i tratti dei volti immersi in una luce di superiore sagacia, gli sguardi ispiranti avvedutezza, prudenza, ponderata lungimiranza, tutto in quelle figure contribuiva a facilitarne l’attribuzione. Si trattava, non poteva trattarsi che dei cosiddetti “filosofi” dipinti da Zorzi (o Giorgio) da Castelfranco, detto Giorgione.
Si tratta in realtà di quattro mariti separati (non tragga in inganno l’apparente aspetto senile, causato in realtà dalle preoccupazioni che dal momento della separazione affliggono i poveretti), in attesa di parlare con gli avvocati che li patrocinano nelle rispettive cause di divorzio.
Nulla infatti come l’eventualità di vedersi mangiare in un sol colpo i risultati delle proprie fatiche di tutta una vita ha il potere di trasformare in giganti del pensiero dei semplici impiegati. Nessun, ragionamento, argomentazione, ipotesi, nessuna forma di sillogismo, nessuna analitica o sintetica sottigliezza poteva essere trascurata per accertare se non ci fosse veramente alcuna possibilità di ridursi in miseria a causa dell’esorbitante cifra richiesta per gli alimenti dalle ex-consorti.
Vediamo infatti che i quattro, già male in arnese e con gli ultimi vestiti rimasti ormai a brandelli, sono concentrati nella discussione al fine di sintetizzare le loro ragioni da portare di lì a poco ai legali per evitare che i giudici infliggessero ai poveretti una eccessiva rottura di coglioni.
La scena ricorda, con le dovute mutazioni nel panorama, l’episodio accaduto in casa del mi’cognato Oreste allorché la moglie se n’era andata una settimana a Montecatini. Forte del fatto di avere mano – e casa – libera, il buon uomo aveva invitato tre amici per una briscola il lunedì sera e nel pomeriggio della domenica i quattro avevano appena smaltito l’ennesima sbronza colossale e discutevano animatamente non avendo la benché minima idea di come far sparire le decine di bottiglie di chianti vuote, le relative macchie sul tappeto buono ma soprattutto di come far riapparire il prosciutto di Norcia intero, i quattro salami di Felino e gli otto etti di guanciale (usato per carbonara e gricia in dosi gargantueliche) che erano finiti nei loro stomaci insieme a chissà che altro.