La minestra di Domenico Trentacoste


Domenico Trentacoste (Palermo, 1859 – Firenze, 1933) – Calco di statua – Galleria di Palazzo Pitti, sala 21, Firenze.


Domenico Trentacoste, figlio di un fabbro di famiglia baronale decaduta, nasce a Palermo il 20 Settembre 1859 e muore il 18 Marzo 1933 a Firenze. Nella sua città natale fu allievo di Benedetto De Lisi (1830-1875) e Domenico Costantino (1840-1915). Dopo un breve soggiorno napoletano in cui studia la scultura pompeiana e rimane affascinato dalle sculture antiche nel Museo Archeologico Nazionale, nel 1878 si trasferisce a Firenze per completare gli studi e si innamora dei Quattrocentisti, di Donatello e di Michelangelo.
Nel 1880 ritorna a Palermo dove, per l’arco di trionfo apprestato per la visita del re Umberto I, plasma in gesso una grande Minerva seduta. Con i soldi guadagnati da questa commissione si reca a Parigi. Qui l’incontro con le opere di Rodin stimola in lui un’importante produzione ritrattistica; stringe amicizia con lo scultore Antonio Giovanni Lanzirotti e l’anno successivo espone al Salon des Refusés (istituito da Napoleone III nel 1863 per esporre le opere realizzate nell’ambito della nuova corrente dell’impressionismo) una testa di vecchio. A Parigi esegue anche una serie di sculture a soggetto idilliaco o mitologico e a destinazione decorativa. Tra il 1887 e il 1889 plasma due busti di donna, Pia dei Tolomei e Cecilia, che lo consacrarono scultore di forme leggiadre, di attitudine classica, allo stesso tempo capace di rivelare l’espressione psicologica. I suoi ritratti (busti, teste, medaglie e placche bronzee) hanno un tale successo che Trentacoste è chiamato nel 1891 dal pittore Edwin Long, ad esporre alla Royal Academy di Londra, ottenendo prestigiose commissioni. La sua Cecilia (Londra, Buckingham Pal., Royal Col.) infatti viene acquistata nel 1891 dalla Principessa di Galles.
Nel 1895 rientra in Italia da Parigi dopo un soggiorno di quindici anni ed espone alla Prima Biennale di Venezia, ottenendo il primo premio per la scultura in marmo  La derelitta (o ‘La diseredata’, ora al Museo Civico Revoltella di Trieste). La statua raffigura una fanciulla completamente ignuda che cerca di coprirsi pudicamente, in quanto la sua condizione sociale è tale da non permetterle neppure una veste per coprirsi. La ragazza rivolge lo sguardo per terra, evitando quello dello spettatore, e i suoi occhi sono socchiusi. Ella si chiude in un abbraccio protettivo, stringendosi in tutta sé stessa, e il suo corpo si contrae, come rivela la postura dei piedi, a simboleggiare il suo tormento silente. Stando al Miserere Bubbonis la principessa Sissi volle acquistare l’opera ma giunse in ritardo, quando la scultura era già stata venduta al museo dove ancora oggi è esposta (Mariso Sciagattato Miserere Bubbonis Schlein della Corte di Sinistra, “Critica post-sovietica dell’arte verista di inizio Novecento”, Fontanigorda (GE), 1968)
Il successo in ogni caso fu tale da convincerlo a stabilirsi definitivamente a Firenze dove divenne un artista celebre e molto ricercato per l’esecuzione dei ritratti della nobiltà, soprattutto femminile.
Di lì in avanti colse un successo dopo l’altro, vincendo premi a tutte le mostre in cui espose le sue opere. Tra le tante opere è doveroso ricordare “Il Ciccaiuolo”, scultura in bronzo così magistralmente descritta dal Paletta: un pover’uomo che cammina scalzo per la strada con i pantaloni girati alle caviglie che mostrano le gambe magrissime. Mostra una leggera torsione del busto perché con una mano tiene la lanterna e con l’altra sta mettendo in tasca una cicca raccolta da terra, per un po’ di tabacco (Cav. Aspasio Prosciutti della Paletta, in “Trattato sui trinciati economici da fumo – Cap. XIV: il Trinciato Marciapiede”, Coggiola (BI), 1978).
Venendo all’opera qui trattata, possiamo dire senza tema di smentita, Come assunto in prima istanza dal Gloglò, Trentacoste ha certamente avuto talvolta qualche inclinazione a rappresentare le umili verità e le miserie della vita, come appunto nel Vecchio che mangia la minestra. Così il suo verismo va dalla lanterna del Ciccaiuolo al pesante mantello del Vecchio medesimo. Così il vigore del suo realismo va dal Ciccaiuolo alla Testa di vecchio in bronzo esposta a Parigi. Ma egli è fatto per nobilitare con delicatezza la forza e per illeggiadrire la delicatezza. È lo scultore della puerizia e della donna (Icio de’ Dominicis Pestamerde Gloglò, alias ‘o strunfiapapure r’o Vesuvio”, estensore del trattato a tre mani “Metodo universale per curare la sinusite e per sgorgare i tubi intasati”, scritto con il Chiar.mo Prof. Gr. Uff. Licurgo Saccenti detto “mano mozza”, ordinario di macelleria equina alla Sorbona, Assisi, 1921) .
La scultura fu donata alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti da Fernanda Ojetti, erede fiduciaria di Trentacoste, nel 1933 (cfr. Archivio GAM, inserto Doni 1933: Verbale di consegna al Comune di Firenze dei modelli originali, calchi e ricordi dello Scultore Domenico Trentacoste, della Reale Accademia d’Italia, 14 dicembre 1933).
L’atto del mangiare la minestra è colto in tutta la sua normale quotidianità (o quotidiana normalità, se preferite). Il vecchio sembra innamorato del piatto da cui sugge col cucchiaio e della pagnotta che vi intinge con la calma e l’attenzione di chi sa essere quello l’unico pasto della giornata. Per meglio capire quanto sia vera e naturale questa immagine non c’è forse di meglio che citare le icastiche parole con cui il mi’ cognato Oreste raccontò durante la cena del torneo di scopone ai suoi sodali: “Guardate, per esempio io quando mangio la zuppa con la destra uso il cucchiaio, con la sinistra invece il tozzo di pane, faccio la scarpetta, la zuppetta nella zuppa. Mo’» continua il novello gourmet «io volendo politicamente potrei pure usare la destra per fare la zuppetta, ma con la sinistra il cucchiaio non ci riesco a usarlo, mi casca tutta la zuppa, mi sbrodolo tutto, viene uno schifo, viene. Capite? Non è vero che la destra e la sinistra sono uguali: sono differenti, anche se poi servono per mangiarsi la stessa minestra.” (citato da: Quinto della Triglia, chef stellato cinque volte, in “VERBA VENTUS AVFERT, BIROTAS LIBURNENSES (*) – Discorsi in taverna tra grilli, farine, ponci e conti da pagare”, Calafuria, 2002).

(*) Le parole le porta via il vento, le biciclette i livornesi.