Un vero, grande successo la prima di Don Giovanni al Regio di Parma


Il bel libretto prodotto dal Regio di Parma riporta che il 27 ottobre 1787 alla Prima assoluta di Don Giovanni a Praga, ove Mozart aveva già spopolato con Nozze di Figaro, fosse presente anche Giacomo Casanova. È particolarmente importante questa citazione colta nella presentazione della bella produzione del S. Carlo di Napoli insieme anche ai Teatri di Reggio Emilia, dove l’opera presto approderà, in quanto “Il dissoluto punito, o sia Don Giovanni” viene avvicinato senza precisare al veneziano delle “Memorie” e dei mille amori. Ci tengo a precisarlo perché l’immaginario popolare rischia infatti di essere incoraggiato in una assimilazione impropria: la differenza tra i due grandi seduttori è infatti importantissima antropologicamente, per tutto ciò (moltissimo!) che significa il sentimento dell’amore presso l’umano. E parliamo ovviamente di “narrazioni”, riguardo ai personaggi di Don Giovanni e Casanova, in quanto le suggestioni che li riguardano sono ormai appannaggio della storia o delle drammaturgie che li hanno passati ai raggi x.


In quest’epoca ginecoforica, quanto mai attesa, i due sono da considerare nettamente diversi: Don Giovanni è un collezionista, un truffatore di sentimento, che compulsivamente aggiunge tacche al suo fucile; Casanova è invece all’estremo opposto, sempre innamorato. Per il primo, la donna è fuori, è una preda, per il secondo la donna è dentro, è un completamento della sua umanità, fatta di fusione con la bellezza e con il sentimento. Se “Madamina, il catalogo è questo…” delle donne cadute nella rete del dissoluto punito (in Italia 640, in Germania 231, in Francia 100, in Turchia 91, e in Spagna son già 1300…), non sarebbe giusto presentare la stessa numerica per Giacomo veneziano. Per Casanova, la donna è una sola, da apprezzare profondamente in tutte le sue sfumature, mettendosi sinceramente in gioco e lasciando dietro di sé miele e non Donna Elvira tradita, Donna Anna truffata e violentata negli affetti e Zerlina sottratta con arroganza e prosopopea alla sua forse opportunistica storia matrimoniale… Martone non sbaglia infatti il profilo sociopsicologico del suo protagonista: lo vediamo avvilire l’amore, ma anche quel po’ di amicizia che, volente o nolente, lo lega al servo Leporello, come accade spesso malgrado la condizione servile.
Fatta questa piacevole e doverosa precisazione tra i due famosi amatori dalla storia intersecata, allora a chi o che cosa deve essere attribuito il vero successo dell’arte operistica che il Don Giovanni di Mozart ha mostrato all’inaugurazione della stagione 2023 del Regio di Parma?


Prima di tutti, a Mozart e Rovaris, cioè alla Musica. Per chiarire il perché del primo applauso, riporto a memoria i contenuti di un’intervista a Gioachino Rossini (grande il programma del Rossini Opera Festival 2023 di Pesaro!). Alla domanda su chi fosse il più grande compositore a suo avveduto (e coinvolto…) avviso, Rossini rispose senza esitazioni: “Ludwig Van Beethoven, naturalmente!” L’intervistatore allora decise di provocarlo e gli chiese ancora: “E Mozart?” Lui sorrise e confermò: “No, no… Il miglior compositore è Beethoven. Mozart è… La Musica!”. Ed era vero, per sempre. Mozart e Vivaldi sono i veri genitori della melodia, che in tutto il mondo occidentale ha poi dato vita alla musica tutta, da quella colta a quella popolare, rielaborata dal grande pesarese e fatta germogliare insieme a molto altro da Giuseppe Verdi, in attesa delle destrutturazioni tardo ottocentesche e novecentesche. Ed è stato bravissimo Corrado Rovaris il 12 gennaio a dare ulteriore freschezza a questa musica sempreverde.
Secondo applauso a Mario Martone, la regia. Una interpretazione del personaggio di Don Giovanni riuscita benissimo. Come un corsaro, il libertino figlio della fantasia del non meno libertino librettista Da Ponte, attraversa la scena a destra e a sinistra, sopra e sotto: è un veloce predatore, un lupo aristocratico, astuto e gaglioffo, che non esita, nel suo crudo individualismo edonistico, a travolgere come detto amicizia e amore, convenzioni e tradizioni, sfruttando la loro presenza nell’uomo (e soprattutto nella donna…) per ottenere gratificazioni disperate, quanto quelle di un condannato alla perenne ultima sigaretta. Complessivamente, concept, scenografia e costumi pacificano conservatori e innovatori, due fazioni molto agguerrite a Parma, grazie alle esperienze degli ultimi 8 anni in particolare, ove a belle regie tradizionali si alternavano ricercate e spesso colte regie innovative. L’espediente della gradinata di sfondo, con sopra la presenza di una sorta di corte giudicante, che poi si anima per fornire voci del coro e comparse, è di ottimo effetto, facendoci sempre ricordare le scorrettezze di Don Giovanni, man mano che si dipana la vicenda. L’uso dell’intero spazio teatrale produce effetti di senso molto ben congegnati e la intera platea oltre al proscenio diviene area di manovra drammaturgica con il pubblico piacevolmente coinvolto. E bravo Martone!
Terzo applauso al cast. I personaggi femminili sono ben scanditi nelle loro differenze con i relativi uomini, quando del caso. Colpisce la Kamani, miglior Zerlina immaginabile, e la sempre più diva e padrona della scena Carmela Remigio, in Donna Elvira. Fassi è un ottimo Leporello e il personaggio di Don Ottavio prende bene Marco Ciaponi, che si esprime in modo accorato e formalmente perfetto proprio di fronte al pubblico nella scena quattordicesima “Come mai creder deggio”. Mattatore ben radicato nel personaggio di Don Giovanni, Vito Priante, baritono molto mozartiano, indossa con padronanza i mutevoli panni del figlio di buona donna.
Ed ecco il quarto applauso: c’era qualcosa di nuovo, a questa Prima. Il sovrintendente, Luciano Messi, di recentissima nomina, ha scelto di non farsi vedere troppo nel foyer: avrà tempo di farlo e la sensibilità di non rubare spazio oggi al ricordo di Anna Maria Meo, che è stata la principale artefice anche di questo cartellone 2023, lasciandoglielo in eredità, è segno molto apprezzabile. La Direttrice, già stupenda padrona di casa, era presente nei cuori di tutti, e la sua assenza pesava come una leggera nota triste. A risolvere questo lieve stato di lutto, in chiave di continuità, la sorridente Barbara Minghetti, ancora più radicata nell’istituzione parmigiana grazie alla venuta di Messi, un altro “marchigiano d’arte” come lei, già direttrice artistica allo Sferisterio del Festival di Macerata (e storica del Teatro Sociale di Como).
Insomma, un’opera che premia il pubblico e che vogliamo considerare apotropaica per l’intera stagione e per il nuovo corso del Teatro Regio di Parma. Sono certo che continueremo a vederne delle belle, tra cui speriamo anche il ritorno (di buon passo!) di Paolo Maier, vero maestro di cerimonia della importante istituzione teatrale, che ci auguriamo di vero cuore di salutare molto presto di nuovo nel foyer.