Laocoonte


Musei Vaticani – I sec. a.C. – m 2,42 – gruppo marmoreo di scultori ellenisti.


A dare la notizia del giorno della scoperta è, in una lettera del gennaio 1506 Filippo Casavecchia che così scriveva a Francesco Vettori:
“Mercoledi, che fu il 14 di questo mese [gennaio], fu trovata in questa città [Roma] una mirabile statua di marmo, la quale mostra un uomo di 60 anni in mezzo a due figlioli di 12 anni, i quali sono morsi da due serpenti […], e tutta Roma giudica questa essere le più mirabili statue che si siano trovate in ogni tempo. Dicono questi uomini letterati essere questo Laocon Troiano sacerdote, del quale fanno menzione Plinio e Virgilio.”
Così in quell’inizio del 1506 venne data la notizia che era stata riportata alla luce una delle opere d’arte più famose dell’antichità, o almeno una sua copia in marmo. Oltre alla data è noto anche il luogo del ritrovamento e il nome dello scopritore. Infatti la statua venne trovata da Felice de Fredis nella sua vigna sul colle Oppio presso S. Pietro in Vincoli, una zona ricca di rovine romane, come le Terme di Tito, quelle di Traiano e la Domus Aurea di Nerone. Come ci narra la Anolini, il de Fredis era caduto in una buca che si era aperta improvvisamente sotto i suoi piedi e si era trovato di fronte al capolavoro ancora semisepolto (Contessa Frida Anolini in Brodo del Menù di San Silvestro dei Gerosolimitani Digiunanti, “Che culo che ha certa gente”, Nuotate sul Dorso (MB), 1946). Fatto analogo accadde durante una passeggiata sul Monte Giusto, presso Terracina, allorché il mi’ cognato Oreste, che aveva convinto la consorte, con dolcezza e savoir-faire, a scarpinare un tre – quattro ore (“così butti giù un po’ di buzzo, che mi pari un bugliolo di strutto!”) sparì di colpo in un inghiottitoio chiamato “la chiavica del recinto” e ben noto ai pastori della zona che spesso ci perdono agnelli e vitellini. Il grido strozzato (“Argìaaaa!”) che si perse mentre il pover’uomo precipitava fu udito solo per un caso dalla moglie, intenta a raccoglier funghi un po’ più a valle, e ci vollero ore prima che i vigili del fuoco riuscissero a estrarre dalle viscere della Terra un essere somigliante più al Golem che a un umano.
Doline, inghiottitoi e foibe sono fenomeni comuni nelle aree carsiche, non certo nella Roma papalina del XVI secolo, sebbene solo quattro secoli più tardi l’orogenesi carso-laziale compirà un balzo in avanti provocando il fenomeno delle buche che oggidì ancora imperversa e travaglia l’Urbe (Don Fracazzo da Velletri, “Carsismo romano: opera naturale o incuria di quei manfruiti che gozzovigliano al Campidoglio?”, Civita di Bagnoregio [finché non crolla], 1996).
Tornando al fortuito ritrovamento, furono subito chiamati ad assistere a questo eccezionale ritrovamento l’architetto Giuliano da Sangallo, inviato dallo stesso papa Giulio II, e Michelangelo Buonarroti che aveva fama di esperto di scultura antica, anche perché aveva fatto dei falsi antichi in marmo. Sembra che proprio Giuliano da Sangallo fu il primo a identificare l’opera con il celebre Laocoonte, e la statua venne immediatamente comprata da Giulio II e destinata ad entrare nella collezione di antichità del Vaticano. Oltre a pagare 600 fiorini d’oro a Felice de Fredis per la magnifica opera, è probabile che il papa abbia assicurato allo scopritore anche una tomba nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli, dove ancora oggi, alla fine della navata sinistra, si può leggere l’iscrizione che ricorda il nome di questo personaggio e il suo merito nel ritrovamento del Laocoonte.
L’opera era già celebre perché a fornire informazioni su di essa è Plinio il Vecchio che nella Naturalis Historia (36, 37-38) così ricorda:
“Né sono molti altri [scultori in marmo] quelli che hanno meritato la fama: anche nel caso di opere eccelse, quando vi abbiano contribuito più artisti ciò nuoce alla celebrità dei singolo, poiché né uno solo di essi può prendere per sé tutta la gloria, né è possibile citarli tutti alla pari. E’ questo il caso del Laocoonte che si trova nella casa di Tito imperatore, opera da giudicarsi al di sopra di ogni altra, della pittura come della statuaria [in bronzo]. Lo scolpirono in un sol blocco di marmo, con i figli e i mirabili viluppi dei serpenti, lavorando insieme di comune intesa, i sommi artisti Agesandro, Polidoro e Atenodoro, Rodii.” (traduzione di Goffredo Schilirò, stalliere, già custode di Palazzo Grazioli negli anni dal 1994 al 2011, in “Le serate accanto al fuoco con Mubarak e famiglia”, Pedate nel Didietro (VB), 2020).
L’opera, somma sopra ogni altra, viene così solitamente datata alla seconda metà del I secolo a.C., periodo in cui operarono probabilmente a Roma i tre scultori. Questo Laocoonte, a differenza degli altri esemplari rappresentati in pittura o in bronzo, viene descritto da Plinio come scolpito in un solo blocco di marmo, ma le analisi hanno evidenziato la presenza di più blocchi distinti ma con le giunture tanto ben nascoste da creare la credenza dell’unico masso scolpito. Cosa rappresenta la statua è chiaro dalla descrizione del mito presente in Virgilio (Eneide 2, 40-231) che racconta come Laocoonte, sacerdote di Apollo, fu ucciso, insieme ai suoi due figli, da due serpenti perché si era opposto a far entrare nella città di Troia il cavallo di legno lasciato dai Greci:
“I serpenti con marcia sicura si dirigono su Laocoonte; e prima l’uno e l’altro serpente avvinghiano i piccoli corpi dei due figli e li serrano, e a morsi si pascono delle misere membra; poi afferrano e stringono in grandi spire lui che sopraggiunge in aiuto e brandisce le armi; stretto due volte alla vita, e due volte al collo con le terga squamose, lo sovrastano con il capo e con le alte cervici. Egli si sforza di svellere i nodi con la forza delle mani, cosparso le bende di sangue corrotto e di nero veleno, e leva orrendi clamori alle stelle.” (Eneide (cit.), traduzione di D. Santanché in “Memorie di una pitonessa”, Remate sul Lambro (MI), 2007).
Venendo all’esegesi, occorre precisar che il gruppo statuario raffigura il sacerdote troiano nel momento del supremo sacrificio, reso eterno dai versi di Virgilio, dopo aver messo in guardia i troiani (“O ciechi, o folli,/ o sfortunati!”), contro il “cavallone” di legno lasciato dai greci suscitando le ire di Atena e Poseidone che avevano decretato la sconfitta di Troia. Per loro ordine due serpenti erano usciti dal mare, avevano avvolto, soffocato e morso Laocoonte e, a maggiore punizione, i due figli. Nel disegno epico di Publio Virgilio Marone, Troia doveva cadere affinché Enea, figlio di Venere, potesse approdare su di una terra lontana (il Lazio) e i suoi discendenti potessero un giorno fondare Roma.
Complesso scultoreo di marmo bianco, pesante circa due tonnellate e mezzo, datato al I secolo avanti Cristo, da quel giorno di gennaio del 1506 è diventato il più celebre gruppo marmoreo dell’antichità che ogni artista doveva vedere, studiare, disegnare e tenere presente quando doveva rendere drammaticità dolore, lotta, e il soccombere ingiusto degli uomini agli dei, e tuttora séguita ad essere emblema di pathos, di forza, di orrore e di lirica accorata.