Il Monte di Pietà


Domenico Induno, (Milano, 14 maggio 1815 – 5 novembre 1878) – olio su tela, 1879.

Domenico Induno è stato un pittore manierista italiano. Da giovane lavora come apprendista presso l’orafo Luigi Cossa, il quale lo convince ad iscriversi all’Accademia di Brera, trovandolo particolarmente dotato nell’arte del disegno. Così dal 1831 segue i corsi di Brera, sotto la guida di di Francesco Hayez, il cui influsso nella sua pittura si avverte pienamente nelle sue prime opere, più volte ufficialmente premiate.
La sua arte è stata riconosciuta ed apprezzata anche olte oceano, tanto che una delle sue biografie più complete vide la luce in Canada, per mano del De Musset, il quale ci spiega come “Nei suoi dipinti, con soggetti tratti da episodi della Bibbia, oppure dalla storia antica, egli inserisce elementi patriottici, come nella tela “Bruto giura di vendicare la morte di Lucrezia”, “Strage degli innocenti” e in altre tele con soggetti carichi di sentimento. “ (Donald De Musset “The Italian painters of wretches” – “I pittori degli sciagurati”, traduz. di Fernanda Pivano – Salt Lake City, 1977).
Nel 1840 Domenico Induno espone Saul unto re dal profeta Samuele, tela a lui commissionata dall’imperatore austriaco Ferdinando I, per la galleria imperiale di Vienna.
Negli anni della maturità, Domenico Induno abbandona la pittura di storia e preferisce soggetti di genere, come “La preghiera” o “Un episodio del Diluvio universale”: asseconda in tal modo le richieste di una committenza, composta da personalità dell’aristocrazia milanese colta e liberale. I collezionisti e il pubblico che visitano le mostre sono sempre più sensibili alla pittura di genere, che riguarda episodi domestici o teneramente patetici o sociali, e che talvolta ha come protagoniste persone umili o derelitte, oppure bambini poveri.
Divenuto consigliere accademico, nel 1863, non partecipa più alle annuali esposizioni a Brera. In questo periodo dipinge “Scuola di sartine”, “Posa della prima pietra della Galleria Vittorio Emanuele” (una rara opera di committenza pubblica, che il pittore rielabora in più versioni.) e, appunto, “Monte di Pietà”.
In questa tela, come ci fa notare il Matilevi, Induno mette in luce uno degli aspetti più tragici della Milano del suo tempo: l’assoluta mancanza di sale d’aspetto negli uffici pubblici, come ad esempio in questo Monte dei Pegni.
Il dipinto mostra infatti un gruppo di astanti di ogni età costretto a sostare per strada con i piedi sulla neve schiacciata perché nell’ufficio non esiste l’ombra di un’anticamera. La neve non ha ancora completamente cessato di cadere, come si può evincere da alcuni ombrelli aperti, e un fattorino sta esponendo il cartello di apertura dell’ufficio.
Come si può ben notare, la bimba sulla sinistra indossa solo un paio di misere ciabattine che non possono certo proteggerle i piedi dai morsi del gelo.
Il freddo e l’umidità rischiano per di più di peggiorare la salute già malferma della vecchina e dei bimbi in attesa di una visita medica che potranno pagare solo impegnando qualche bene. La giovane con la mantellina nera stringe in mano un tovagliolo con due posate d’argento che intende impegnare per pagare il consulto del dottore, sperando di avanzare qualcosa per comprare le medicine per la nonna e per i bimbi infreddoliti e malati (Alberico Matilevi Dilì: “Ne ho conosciuti di disgraziati, ma come i poveri…”, .Monteforte d’Alpone (VR), 1984).
In tempi più recenti successe anche al mi’ cognato Oreste di dover impegnare l’orologio di babbo per far fronte a spese impreviste: aveva infatti dovuto pagare una salatissima contravvenzione elevatagli dalla Buon Costume per essersi intrattenuto in amorosi sensi con tale Belardinelli Amelia, nota passeggiatrice dei Fossi di Livorno, senza curarsi dei finestrini abbassati della Cinquecento con grave scandalo per la sorella del sacrestano di Santa Caterina che passava di là proprio allora. E allorché la sora Argìa gli aveva chiesto dov’era finito quell’orologio che il marito teneva più caro della luce dei suoi occhi, aveva spudoratamente mentito: “Boia dé! L’ha fatto cadere quel pestamerde der tu’ figliolo, sicché ho dovuto portallo a sistemà dar Giusti. La prossima volta che fa un danno lo sgaìno.”; dopo di che riuscì a riscattarlo per il rotto della cuffia dando a pegno un ritratto autografato di Bartali e sei sottobicchieri di peltro regalo di una zia di Pisa e che l’Argìa non aveva mai sopportato, mentre l’omino del Monte dei Pegni già lo stava rivendendo a un marinaio congolese per pochi spicci.
L’insieme dell’opera rende magnificamente l’idea della condizione delle classi meno abbienti nella grande città lombarda prima dell’unificazione, allorquando la disperazione delle masse era la quotidianità. L’odiosa tassa sul macinato fu solo uno degli innumerevoli pesi che il popolo dovette sopportare e che portarono nel tempo a moti e rivolte culminati nelle 5 giornate (18 – 22 marzo 1848). Il ricorso al Monte di Pietà, come ci spiega il Telopone (Mardocheo Maria Telopone, Presidente Emerito dell’Accademia della Lisciva, nel suo “Storia delle lavandaie milanesi nel periodo della conquista sabauda, che per giunta cercò di imporci la bagna cauda”, in “Annali di Storia dei Moti e dei Peperoni Lombardi” – Vol. VI, Cap. 12 – Canegrate (MI), 1932), era cosa comune per i tanti poveretti che non riuscivano a sbarcare il lunario a causa della povertà devastante. Quest’opera racconta un frammento, un fotogramma di un lungo film che purtroppo durò ben oltre l’Unità d’Italia.