Chitarra Classica – Intervista al M° Edoardo Catemario


Edoardo Catemario, napoletano, concertista, compositore, arrangiatore e didatta di livello internazionale. È leggenda della chitarra incluso nel Gold guitar della Deutsche Grammophon nel 2014.
Ha dato concerti in grandi sale raramente appannaggio dei chitarristi: la Grosser Saal della Philharmonie di Berlino, la Grosser Saal del Wiener Musikverein, l’Auditorio Nacional ed il Teatro Real di Madrid, la Bolshoi Saal di San Pietroburgo, Tchaikowsky Saal di Mosca, St John’s Smith Square e Wigmore Hall di Londra, Weill Hall at Carnegie Hall di New York, Sidney Meir Bowl e Town Hall di Melbourne, etc.
È un apprezzato compositore di musica da camera e per coro. Ha al suo attivo decine di pubblicazioni di sue composizioni, ha anche composto canzoni per bambini incluse in una raccolta che si chiama “L’Abbecedario della Corona buona” ed un album di musica pop “Ladri di libertà”.
La sua produzione discografica come chitarrista classico include lavori per: DECCA records, ARTS Music e Koch Schwann. Le sue registrazioni hanno vinto numerosi premi della critica fra le quali: Cinque stelle di “Musica” (Italia), Scelta del mese di CD classica (Italia), Scelta dell’editore di Guitart (Italia), Joker di Crescendo (Belgio) fra le altre…
Edoardo è anche un didatta riconosciuto internazionalmente. Ha dato master class al Mozarteum di Salisburgo, a Lipsia, Parigi, in diverse università degli USA, in varie località italiane e alla Royal Academy di Londra. È autore del metodo che porta il suo nome, basato sui partimenti di scuola napoletana e di un trattato sull’ interpretazione.
I suoi meriti artistici e didattici gli sono valsi il riconoscimento di “Honorary Associate Professor” della Royal Academy di Londra. Solo in due nella storia di questa accademia lo hanno ricevuto (l’altro è John Williams ndr).
Ringrazio il maestro Catemario per il contributo dato a WeeklyMagazine.

W.M.: Buongiorno maestro, ci racconta dei suoi inizi musicali?

E.C.: Buongiorno a voi ed a tutti i lettori. Io ho cominciato come molti bambini, mio padre suonava molti strumenti ad orecchio (maluccio) tra cui la chitarra. Mi sentii attratto da questo strumento, a me piacevano le “cose difficili” e mio padre si lamentava di quanto lo fosse la chitarra, non ebbi dubbi. Dopo i primissimi approcci allo strumento con il mio primo maestro (Salvatore Canino) a sei anni studiavo circa un’ora al giorno, più avanti negli anni la chitarra diventò la mia occupazione principale. Non avevo ancora ben chiaro che sarebbe diventato il mio mestiere ma, siccome avevo una certa facilità, il mio maestro cominciò a farmi esibire qui e lì. La svolta vera e propria fu conoscere Titina De Fazio, un monumento della scuola napoletana, allieva di Longo, Rossomandi, Gubitosi, amica di Letterio Ciriaco e Zoltan Kodaly, che per prima mi fece capire che lo studio della musica non è mera ricerca delle proprie sensazioni ed emozioni ma era qualcosa in più: la ricerca e la cura della comprensione del “qui ed ora” della manifestazione sonora attraverso una meticolosa ricostruzione di tutte le parti che compongono il discorso musicale. Queste parti sono accessibili solo attraverso uno studio rigoroso, costante e approfondito. Non è possibile l’immedesimazione in un testo se non attraverso la comprensione di quegli elementi che il compositore sta usando. Sono elementi non casuali, frutto di “scuola”. Da compositore, oggi, capisco meglio quello che la mia maestra tentava di far comprendere all’allievo di allora, entusiasta ma un po’ sciocco ed egocentrico. Provo a riassumere: la musica è un apprendimento costante, non finisce mai il praticandato. Le componenti personali si sublimano accogliendo le emozioni e le strutture della musica che suoniamo. Un compositore trasforma un vissuto in un suono ed il suono in segno. L’esecutore deve fare il percorso inverso capire il segno per estrarne un suono figlio di un vissuto che non è più del compositore ma di entrambi, compositore ed esecutore. Da compositore la cosa non cambia, si tratta di imparare a combinare quegli elementi comunicativi e formali che ci colpiscono nei grandi musicisti del passato. Se potessi in poche frasi definire lo scopo dello studio musicale direi: “la capacità di cogliere l’Universale che ci lega tutti ed essere in grado di comunicarlo ad altri con facilità. Se sembra difficile non sono un virtuoso o semplicemente non ho capito. Non è possibile comunicare alcunché che non si sia previamente capito.”

W.M.: Lei è un rappresentante della scuola chitarristica napoletana…ha raggiunto importantissimi traguardi a livello internazionale. Come vede il futuro della chitarra in Italia?

E.C.: devo dire che non so cosa sia la “scuola chitarristica” napoletana. Ho studiato con diversi maestri a Napoli, con ognuno ho imparato qualcosa, spesso un solo dettaglio. Se non avessi conosciuto altro non suonerei così.
Quando si parla del futuro della chitarra spesso si corre il rischio di cadere in un grande equivoco. Direi anzi che parlare di “futuro della chitarra” sia uno dei provincialismi del nostro strumento. Non esiste un futuro dello strumento slegato dal futuro della musica classica. La Musica, quella con la M maiuscola, è in grave pericolo. Lo è perché è scomoda; permette alle persone di pensare, di evolvere in maniera creativa, di scoprire quella porta che si apre tra mondo fisico e metafisico quando accade il miracolo dei “suoni organizzati” (e organizzati bene aggiungerei). Un mondo come quello attuale, che ci vuole servi obbedienti di una vita preordinata, premasticata e predigerita non può avallare un esercizio di elevazione spirituale e di libero pensiero. Per questo è stata finanziata tanta “musica d’avanguardia” che è stata eseguita una volta sola, per questo è scomparsa un’educazione musicale degna di tal nome nelle scuole, per questo è spesso scaduta la qualità dei concerti anche in stagioni di enorme prestigio. Obiettivo dell’operazione: far credere che la musica, come la cultura, sia noiosa e inutile. Mero intrattenimento. La musica oggi è serva degli interessi economici e politici, delle clientele e delle amicizie. In un panorama del genere, che tra l’altro rappresenta meno del 2% del mercato globale dell’intrattenimento, focalizzarsi sul mondo della chitarra è un grave errore. Sebbene debba ammettere che è un errore che si perpetra ormai da oltre settant’anni e forse per questo in molti non riescono neanche più a vederlo. Eppure il risultato è sotto gli occhi di tutti i chitarristi: esiste un “mondo della chitarra” che ha i suoi festival, i suoi concorsi, i suoi concerti, che è regolato nel suo piccolo dagli stessi meccanismi spesso clientelari che si possono apprezzare anche altrove. La cosa che io trovo sconcertante è che il “mercato” è costituito per lo più di carne umana: gli allievi. Questi molto raramente sono consapevoli; perfino del piccolo mondo della chitarra dei festival e festivalini e perseguono senza immaginazione, senza slancio, spesso con poco o nessun entusiasmo una carriera preordinata fatta di certificato, diploma di conservatorio, concorso per insegnamento in scuola secondaria. Il corso di studi gli da titolo di fregiarsi del nome di maestro e credono di esserlo. Alle volte, per qualche punto da inserire in graduatoria, fanno qualche concerto in ambiti ristretti. Badi bene, non ho nulla contro i concerti per poche persone anche in luoghi non specificamente destinati alla musica classica, io stesso ne faccio ancora per motivi sociali, trovo però imbarazzante la discrepanza tra la presentazione iperbolica dell’esecutore che, alle volte, specie se esegue repertorio propriamente classico, si rivela un mediocre strimpellatore. Il danno nei confronti del “pubblico ignorante” è enorme. Chi va ad un “concerto” di uno strimpellatore e si annoia a morte, probabilmente non andrà mai più ad ascoltare un concerto di chitarra. Come dargli torto?

W.M.: Una ricerca molto scrupolosa dal punto di vista filologico, l’ha portata alla scelta dell’utilizzo di strumenti storici. Ci spiega del perché della sua scelta?

E.C.: Più che una ricerca filologica si è trattato di coincidenze (anche se secondo alcuni il caso non esiste!). Quando studiavo con Stefano Aruta a Napoli ebbi modo di suonare la chitarra che Maria Luisa Anido gli aveva regalato: una splendida Francisco Simplicio degli anni in cui ancora metteva l’etichetta del suo maestro Enrique Garcia. In quel momento (parliamo del 1987) suonare con una chitarra antica rovesciava tutte le superstizioni chitarristiche alimentate anche da nomi assai noti della chitarra classica. Si immagini che nel volume “La chitarra” ad opera di un musicologo chitarrista che peraltro sapeva anche il fatto suo, Ruggero Chiesa, si afferma che uno strumento da concerto dopo pochi anni perde qualità. Nel 1989 cominciai a studiare con Oscar Roberto Casares a Casale Monferrato. Allievo di Monina Tabora, la leggenda che aveva preparato gli Abreu, Angel Torrisi, il pianista Claudio Evelson ed appunto il duo Casares (Oscar e Luis). Lui mi fece capire che le mie chitarre (una Marin e una De Bonis) erano assai limitanti e che esisteva un mondo di “alta cultura liutaria” non dissimile per qualità da quello dei nostri cugini ad arco. Fu così che ebbi la possibilità di provare strumenti straordinari: Torres, Garcia, Simplicio, Hauser, Santos Hernandez, Pascual, Manuel Ramirez, José Ramirez I e molti altri. La differenza tra queste chitarre e le chitarre attuali, a mio avviso, pende ancora tremendamente verso quelle antiche in maniera non dissimile, un violinista, se può, suona con uno Stradivari e non deve convincere nessuno che si tratta di un suono unico.

W.M.: Oltre ad essere un concertista di chiara fama è anche un eccellente didatta e autore di un metodo molto interessante…

E.C.: Nel 1993 i miei primi allievi internazionali cominciarono ad insegnare nei conservatori di Mulhouse, Parigi, Pau, Tenerife, Las Palmas ed altri. Tutti, indistintamente, mi chiesero come far cominciare gli allievi debuttanti. A tutti passai gli studi che quando avevo cinque anni il mio maestro aveva scritto a penna su un quaderno a quadretti. Scoprii che erano troppo difficili e che quello che trent’anni prima era stato possibile per me non lo era più per la generazione successiva. Siccome mi rifiuto di pensare che un salto generazionale possa comprendere un logoramento delle capacità intuitive cercai di capire cosa mancasse al mondo attuale. La risposta che mi sono dato è che quasi nessuno cantava più ad orecchio. Anzi, una campagna diffamatoria senza precedenti andava avanti dagli anni ’70 tendendo a convincere che la vera musica era possibile solo sapendo “leggere e solfeggiare”. Ora, che questa sia un’eresia senza pari, mi sembra un’affermazione lapalissiana. Lo capirebbe perfino Forrest Gump ma partiamo da un’osservazione più semplice: un bambino impara prima a parlare e poi a leggere e scrivere. Ora, detto questo, immaginate cosa accadrebbe se ad un bambino imponeste di imparare prima a leggere e ad usare la prosodia prima di osare parlare ma anzi se lo facesse lo trattassimo come un rifiuto della società, un ignorante, uno che non ha “titolo” per parlare. Immagino che al primo bisognino corporale o alla prima richiesta di bere o magari semplicemente per dire “mamma” impiegherebbe anni di frustrazione. Così nasce il mio metodo. In realtà, è mio solo in parte. Sono andato a recuperare i fondamenti della scuola dei partimenti napoletani, l’ho semplificata e attualizzata. Mi sono domandato: come posso formare l’orecchio musicale oggi? Con i minuetti? No! Ho usato il pop che considero “portatore sano” di musica barocca essendo costruito per lo più con successioni di accordi fondamentali di una o al massimo due tonalità per canzone. Durante il percorso con il mio metodo si impara a usare i giri armonici, a cantare, a trasporre, a tirare giù ad orecchio introduzioni e riff, a capire i pattern ritmici e imitarli, a combinare più elementi appresi in precedenza, a personalizzare le proprie versioni delle canzoni che amiamo. Dopo qualche mese, un “absolute beginner” impara anche a leggere e scrivere la musica, ma sa già farla. Ha un primo repertorio di canzoni e qualche introduzione, usa il suo talento e il suo maestro per imparare divertendosi. Esiste già un’accademia Catemario a Campobasso fondata da un eccellente maestro che ha deciso di usare il mio metodo: Giulio Tavaniello.

W.M. Mi espone il perché della definizione di “ chitarra tiepidina” da lei attribuita ad alcuni chitarristi?

E.C.: Vede, uno dei risultati di vivere in un mondo ripiegato su sé stesso ed isolato dal mondo della musica, come è quello della chitarra, è di dare enorme importanza ad elementi extra musicali disconoscendo del tutto le cose importanti. Il mondo della chitarra offre il miraggio di “carriere internazionali” a tanti giovani a patto di seguire la strada già tracciata: questa consiste nella vittoria di concorsi in cui le varie parrocchie prediligono un certo tipo di allievo. Questi allievi vengono ottimisticamente chiamati “giovani talenti” o anche “giovani maestri”. Il prototipo di questo allievo è un esecutore “senza macchia”, uno che suona tutte le note, che ha imparato a fare le scale articolate (c’è un concorso che pretende le scale sciolte “i m”), che suona tutto senza dinamiche e che riduce la performance ad una prestazione atletica. La musica non conta, al fine di un’esecuzione corretta tecnicamente il testo viene stravolto e manipolato. C’è un salto di posizione? Ci prendiamo un respiro. Un arpeggio complesso? Rallentiamo e prendiamo respiri strategici. Nessun problema poi se si suona tutto mezzo piano. E infine, anche se è piatto, vuoi mettere la soddisfazione di poter esibire faccine contratte da paziente stitico? Ora, nel mondo della musica, una scala, come in una casa, serve a salire da un piano ad un altro. Esistono scale monumentali, scale a chiocciola, scale semplici, scale autoportanti, scale elicoidali ma, in fin dei conti sono sempre solo scale. Nessun architetto prenderebbe in considerazione di utilizzare una scala come principale parametro di apprezzamento di un edificio più o meno monumentale. In maniera analoga i chitarristi troppo spesso apprezzano elementi irrilevanti musicalmente facendone un parametro con pretese di rilevanza esecutiva oggettiva. Dare predominanza alla prestazione atletica, al suonare tutte le note pulite, a prescindere dal contenuto del testo musicale è un errore ciclopico. L’errore nella valutazione delle priorità e la chiusura al mondo della grande musica generano un prototipo, quello del vincitore di concorso, che è un esecutore che “non dispiace a nessuno”. Mi spiego: una giuria di concorso contiene teste diverse con pensieri diversi, la media di questi pensieri non può in nessun caso essere eccellente. Essendo una media tenderà, salvo poche eccezioni di eccezionali giurie, ad essere mediocre. Niente di male se questo “tipo” non fosse diventato l’archetipo, il modello desiderato a cui tendere nella spasmodica ricerca di avere successo nella “carriera prefabbricata” di cui parlavo. Musicalmente parlando questo archetipo è un “tiepidino”. Il risvolto drammatico del contesto è che non solo non si accorgono della temperatura bassa delle esecuzioni ma nemmeno notano che sono intercambiabili. Ad un vincitore segue quello dell’anno successivo, corredati di esecuzioni e registrazioni tanto poco memorabili che alle volte non durano nemmeno l’anno in corso della vittoria. Se questa è musica…

W.M.: Sempre più spesso si organizzano le cosiddette “Masterclass”. Si discute molto sulla utilità che possono dare ad allievi non ancora formati. Cosa ne pensa?

E.C.: Il contatto con un grande musicista giova sempre, a qualunque età e livello di formazione. Un grande musicista non è tale per caso, in lui si concentrano, checché ne dicano le male lingue, una serie di fattori che possono illuminare il cammino di chiunque, dal semplice ascolto del concerto alla lezione frontale. In un mondo ipocrita in cui gli allievi sono merce non si bada al benessere artistico dell’Uomo che stiamo formando ma solo all’interesse economico. Se un allievo è fortunato il suo maestro sarà bravo e non avrà paura di farlo confrontare con un grande musicista. Se non lo è e non ha cura di sé cadrà nell’equivoco che il confronto è inutile. Qualche anno fa, dopo molte insistenze da parte di un chitarrista italiano di partecipare come insegnante (portando i miei allievi?) ad un corso che affettuosamente chiamo il supermercato delle master perché assomiglia più a una sagra che ad un corso visto il numero di insegnanti, proposi di tenere gratuitamente una master per i migliori quattro allievi (potevano anche non essere i migliori, era un modo per condividere quello che so). Il risultato fu devastante. Scomparve chi mi aveva proposto la cosa e in diversi si affrettarono a far partire una piccola shit storm nei miei confronti. Eppure volevo solo offrire una giornata di master gratuita. In un mondo normale ci si sarebbe aspettati un “grazie”!
Per tornare in tema, i corsi che io ho fatto mi sono stati utilissimi. Devo dire però che io andavo ad imparare non ad aggiungere un nome al mio curriculum. Ho avuto la possibilità di studiare con Jose Tomas, Maria Luisa Anido, Aldo Minella, ho perfino fatto un corso di una settimana con Leo Brouwer. Sarebbe importantissimo restituire ai corsi “master” un po’ di verità facendo in modo che almeno il maestro scelto sia un “master”. Oggi si fanno “master” anche per gli allievi delle medie su metodi di dubbio valore tecnico e di valore musicale spesso meno che nullo.
Per dirla alla Catalano: “è meglio fare anche un solo corso con un grande maestro e imparare qualcosa che fare mille corsi inutili con persone mediocri”.
Giusto per capirci, c’è una grande differenza tra l’essere mediocre ed essere limitato: il mediocre è il “caporale” di cui parlava Totò. Una persona gretta, meschina, arrogante prima che incompetente. Quelli fanno danni, sarebbero disposti a tutto per conservare la carne umana da insegnamento. Un esecutore limitato conosce i suoi limiti ed insegna dicendo “fin qui io so e io posso”, oltre devi chiedere a Tizio o Caio che io stimo. Un vero Uomo. Il limite, quando accettato e vissuto con umanità, è una medaglia che ci fornisce l’occasione di fare Verità. Al mediocre la verità è preclusa, come lo è ai mediocri che scelgono di seguirlo.

W.M.: Ci parla della sua attività di compositore?

E.C.: Ho sempre composto in vita mia. Ho studiato con Titina come fare, i partimenti napoletani mi hanno offerto basi solide. Durante la mia carriera di chitarrista ho occultato queste mie capacità. Gli anni di pandemia mi hanno permesso di uscire allo scoperto, in due anni ho depositato un centinaio di nuove composizioni non solo per chitarra. La chitarra mi è sempre andata stretta, le riconosco un suono seducente e straordinariamente coinvolgente ma è pur sempre solo uno strumento. In questi due anni ho composto molta musica da camera: trio con pianoforte, quartetti d’archi, trio d’ance, arpa e mandolino, arpa e chitarra, flauto e chitarra, canzoni a due voci e liuto e altro. E poi ci sono i miei brani sinfonici, una decina in tutto, una suite per soli, coro e grande orchestra sinfonica, una messa nuziale (in sette movimenti), vari brani per coro a cappella ed un brano per coro e chitarra (su testi di Garcia Lorca, eseguito in prima al Comunale di Bologna). Sto anche scrivendo un concerto per violino e orchestra. Ovviamente ho scritto anche brani per chitarra, sei studi di livello medio alto (tra cui uno infernale che vorrebbe prendere il posto dello studio n. 3 di Villa Lobos che a breve suonerà uno straordinario virtuoso italiano), una Suite per chitarra sola (eseguita da me in prima al Quirinale per i concerti della RAI), vari brani sciolti e una quantità enorme di arrangiamenti e trascrizioni che io stesso ho difficoltà a ricordare. La suite nasce su richiesta di Roberto De Simone che considero il mio mentore per molti aspetti compositivi. Le sue telefonate fino alle due del mattino partitura alla mano sono state per me fonte di vita. A questo si aggiunge la produzione di canzoni per bambini (l’Abbecedario della Corona buona, Ninna nanna dell’angiulillo ed altro) e un concept album pop (Ladri di libertà). Sono convinto che il pop possa esprimere temi sociali per i quali la musica classica si presta male. Ultimamente ho scritto due canzoni napoletane su commissione di un tenore francese. C’è un aneddoto buffo su una di queste canzoni: l’ho fatta ascoltare ad un mio amico musicista esperto di canzoni napoletane ed era presente un chitarrista che ha accompagnato tanti cantanti napoletani. Al termine della canzone esplode in un “bella, non la conoscevo!”, gli ho dovuto dire che l’avevo appena composta, mi ha risposto che per quanto lo riguarda “è già repertorio!”. E so’ soddisfazioni come dice il mio amico Daniele Sepe.

W.M.: Ritornando ai suoi strumenti storici, crede che possano essere utilizzati nel repertorio moderno?
Ci parla degli strumenti rigenerati?

E.C.: La risposta alla prima domanda è ovvia: si! In vita mia ho suonato e registrato di tutto, compreso Ginastera, De Simone, Morales Caso, Garcia Abril, Muellenbach, Hattori, Marrone e tanta altra musica contemporanea. Tutto con i miei strumenti antichi. Ai compositori non è mai venuto in mente di chiedermi di cambiare chitarra. Anzi, in molti casi sono rimasti sorpresi da volume e paletta sonora. Questi strumenti, però, dato il costo elevato, restano per lo più appannaggio di musei e collezionisti.
Attualmente esistono diversi liutai che fanno strumenti eccellenti, anche in Italia. Nessuno che io abbia preso in considerazione come alternativa ad uno dei miei strumenti. Fa eccezione un liutaio piemontese: Walter Franchi.
Walter mi chiamò un giorno di una ventina di anni fa per propormi di provare una chitarra di Telesforo Julve, un mediocre liutaio valenciano delle prime decadi del secolo scorso. Presi a tergiversare perché suonando con Garcia e Simplicio il confronto con liutai di “seconda fila” è spesso imbarazzante. Dopo un paio d’anni me la fece provare per forza. Devo dire che rimasi sconcertato: come poteva una chitarra di un mediocre liutaio, una delle tante che avevo già provato, suonare in maniera così straordinaria? Ad occhi chiusi avrei detto una Torres o forse una Manuel Ramirez! Walter affermò di essere in grado di “rifarlo” con qualunque altra chitarra di fabbrica dell’epoca anche a mia scelta. Essendo un filosofo del dubbio, volli verificare se era in grado di farne un’altra. La risposta fu straordinaria “come vuoi che suoni? Torres?”. Un anno dopo avevo la chitarra fra le mani, suonava come e più di una Torres. Lo sconcerto divenne curiosità. Walter afferma che “bisogna dare a questi strumenti meno fortunati l’occasione di suonare come delle grandi chitarre”, per questo motivo le smonta, rettifica completamente e riassembla trasformando un’utilitaria in una fuoriserie. Lui chiama questa operazione “restauro rigenerativo”. Io ne ho due che alterno alle mie chitarre antiche. In moltissimi non notano la differenza.

W.M.: Il mondo della chitarra classica è molto frammentato, ci sono molte correnti di pensiero che spesso arrecano “danni” alla chitarra. Sovente, ai concerti che assisto a Napoli, non vedo la partecipazione dei chitarristi della mia regione.

E.C.: Questa è un’annosa questione. La partecipazione dei chitarristi ai concerti di musica classica, anche quando ero giovane io, è sempre stata rarissima. La chiusura nel piccolo mondo della chitarra fa si che oggi sia anche peggio: i chitarristi non vanno nemmeno a sentire i concerti dei loro colleghi. Alle volte, sporadicamente, se obbligati dal proprio maestro, sotto minaccia di ritorsione o promessa di crediti, qualche allievo più volenteroso partecipa. Per me rimane un mistero come sia possibile pensare di entrare a far parte di un mondo senza supportarlo nemmeno comprando un biglietto o un disco, rimanendo chiusi in casa a studiare scale e scalette senza mai provare la grande emozione di sentir suonare una leggenda. C’è di peggio, paradossalmente. Spesso si va ai concerti non con l’animo di imparare o comprendere ma per esaminare cosa ha in più quello che suona e perché lui è lì e noi no. Si arriva anche ad aberrazioni egocentriche: ho ascoltato ragazzetti commentare in maniera sprezzante concertisti leggendari e poi scambiarsi reciprocamente pacche sulle spalle per esecuzioni infime di qualche compagnuccio.
Andate ai concerti, ascoltate, emozionatevi, ascoltate musica classica! È facile ripiegare su repertorio commerciale per piacere al pubblico, ci sarebbe però da domandarsi come mai piace quello e non brani culturalmente più evoluti nelle mani di alcuni esecutori. Come potrebbe un esecutore ignorante trasmettere qualcosa di un tipo di musica che non conosce? Se non ascoltano e non vanno ai concerti cosa mai potranno suonare?

W.M.: Eccoci giunti alla fine di questa interessante intervista, come ultima cosa le chiedo perché è andato via da Napoli e se prevede di ritornarci un giorno.

E.C.: Totò diceva che a Napoli non si diventa, a Napoli si torna. Nel 1991 sono andato via, in quel momento mi sembrava la scelta migliore. Napoli mi è sempre mancata e l’ho sempre portata nel cuore. Dopo trent’anni fuori casa continuo a parlare napoletano e nessuno nutre mai dubbi sulle mie origini. Al massimo mi si è attaccato l’intercalare “Diobono” tipicamente toscano. Tornare? Forse…

W.M.: Grazie di tutto e buona musica.

E.C.: Grazie a voi per l’inestimabile lavoro di condivisione del nostro bellissimo strumento.