Mosè


Michelangelo Buonarroti (1513 – 1515 circa, ritoccata nel 1542)
Scultura in marmo – Basilica di San Pietro in Vincoli, Roma

Che Michelangelo fosse un genio non c’è bisogno di ribadirlo. Il Ghirlandaio quando lo vide all’opera nella sua bottega all’età di 12 anni esclamò: “Le sue mani sono guidate da Dio!” e quando Michelangelo osò porre mano ad una sua opera, questi anziché redarguirlo disse: “L’allievo ha superato il maestro!”
Intorno al Mosè sono sorte numerose leggende e aneddoti, a partire dal particolare delle famose “corna” sulla testa del profeta, dovute, sembra, a un errore di traduzione dell’Antico Testamento.
Nel Libro dell’Esodo il termine karàn, che indicava i raggi sulla fronte di Mosè, fu confuso con il termine kerèn, con il quale si indicano appunto le corna.
Alla celebre statua è legato il noto episodio del gonfaloniere Pier Soderini, tramandatoci dal Fringuelli, il quale sembra avesse da ridire sulle dimensioni del naso del profeta eccessivo rispetto al viso. Michelangelo, secondo l’aneddoto finse, con le spalle al Soderini, di riscolpire il naso per snellirlo e quando ebbe finito la messinscena si rivolse al gonfaloniere il quale non si accorse della presa in giro e approvò la finta modifica (Ematocéle Fringuelli, “Come pigliava p’icculo Michelangiolo nun ce n’è altri”, Siena (o Velletri, non è chiaro), 1611).
Il racconto popolare partorì anche un altro aneddoto secondo il quale Michelangelo alla fine, saltato dal suo stesso lavoro, un giorno si rivolse alla statua domandandole: “Perché non parli?”.
E furibondo la colpì con un martello al ginocchio destro, quello scoperto, dove in effetti si riscontra un piccolo avvallamento sulla superficie del marmo.
Da parte sua, il dell’Orto ci fa notare che osservando l’avambraccio del Mosè si può notare come vi sia scolpito un piccolo muscolo, ossia l’estensore proprio del mignolo che si  contrae solo quando si solleva (si estende) il dito mignolo. Il piccolo muscolo è stretto fra due muscoli molto più grandi, ossia l’estensore comune delle dita lateralmente e l’estensore ulnare del carpo e in assenza di estensione del mignolo non è visibile.
Tuttavia osservando bene il braccio destro dell’opera in cui il muscolo è ben evidente nel marmo scolpito, si nota che Mosè sta effettivamente sollevando il mignolo destro.
Un piccolo esempio della straordinaria attenzione  dedicata ai dettagli in questo capolavoro e della profondo da conoscenza dell’Anatomia Umana del grande artista toscano, acquisita anche grazie alla conoscenza con il priore Nicolò Bichiellini di Santo Spirito che gli permise di studiare l’anatomia studiando i cadaveri. Come si vede, la perfezione è fatta anche dai dettagli. (Saverio Pomodoro dell’Orto, in: “Saggi di anatomia e cretini di fisiologia”, Perth, 2008).
Ma un altro dei segreti della celebre opera è in una specie di messaggio esoterico che sarebbe stato inserito da Michelangelo nella statua e in particolare nel groviglio della meravigliosa barba che fu esaltata già all’epoca dal Vasari come incredibile prodigio.
Ebbene, nella barba, proprio sotto il labbro inferiore, leggermente a destra, Michelangelo avrebbe scolpito un ritratto in miniatura di Giulio II il papa al quale in fondo si deve la sua celebrità per tutte le commissioni che l’artista ottenne durante il pontificato.
Qualcuno (precipuamente lo Sfondacadrega, il Bigù et al.) ha anche avanzato l’ipotesi che oltre a questo ritratto, sempre nascosto nella barba, vi sia un volto di donna, verosimilmente l’amante dello stesso Giulio II, oppure un omaggio a una dama misteriosa, forse la stessa Vittoria Colonna, che Michelangelo aveva conosciuto proprio pochi anni prima della ultimazione della statua nel 1538 e che ebbe su di lui una notevole influenza.
Sia come sia, il Mosè, tecnicamente parlando, supera la ragione umana e tutta l’arte passata, presente e futura (Evasio Sfondacadrega e Orazio Bigù, “Le visioni oniriche nei capolavori d’arte secondo Frà Cotenna da Sugo e il Beato Giuliano Laprostata, tertium non datur”, ciclostilato per la Sagra del Miglior Fico del Bigoncio, Salemi, 2017 ).
La statua, realizzata intorno al 1515 dall’allora quarantenne genio toscano, fu commissionata per adornare la sontuosa tomba di Giulio II, progetto iniziato nel 1505 e portato a termine dopo la morte del pontefice, avvenuta nel 1513. Essa rimase per quasi trent’anni nella bottega romana dell’artista, incompiuta, finché il Maestro non decise di rimetterci le mani e di ultimarla, nel 1545.
Michelangelo scolpì dunque l’opera per ben due volte; la prima dandole una postura ed uno sguardo frontale, per poi modificarla dopo ben 6 lustri, voltandola verso sinistra. Girare su se stessa una statua di marmo, già abbondantemente scolpita, ha del sovrumano e solo un genio come lui poteva riuscirci. Girò letteralmente la testa di lato e ciò significava, come ci raccontano testimoni dell’ epoca, che la punta del suo naso corrispondeva alla gota del volto precedente. La barba scende dritta, poi ad un certo punto si contorce, volta verso un lato e scende con pochi boccoli, perché in quella zona, ormai, c’era poco marmo da scolpire. Ma è sulle gambe che il Maestro fece un capolavoro assoluto. Nella prima fase erano dritte e parallele, ma lui decise di piegarne una, però aveva un grosso problema: non aveva abbastanza marmo da scolpire. Soluzione: Sfruttò le pieghe delle vesti, rimodellò un ginocchio in una diversa posizione rimpicciolendolo di 6 cm, quindi scolpì nuovamente il piede riportandolo indietro rispetto al corpo, per dare dinamicità e movimento alla statua. Infine scolpì un drappeggio tra le gambe per nascondere il tutto, impedendo il confronto tra le due ginocchia.
Una potente immagine della genialità del Buonarroti ce la fornisce la seguente asserzione: “Se avessimo una macchina del tempo (o se potessimo oggi osservare la terra da un pianeta distante circa 500 anni luce, avremmo la possibilità di vedere la prima scultura, e il confronto farebbe ancor più grande il suo autore” (Andrei Konimaskij, in: “Atti del Congresso di Comparazione Utopica”, Leeds (UK), 2016).
E’ interessante citare, a corollario, quanto asserì la moglie del mi’ cognato Oreste quando col marito visitarono la chiesa di San Pietro in Vincoli con tanto di cicerone che illustrò il capolavoro michelangiolesco. Venuta a sapere dei ripensamenti dell’artista che ultimò l’opera dopo ben trent’anni da quando l’aveva cominciata, l’Argìa guardò schifata l’essere che si era convinta a sposare apostrofandolo, non senza una nota di scherno: “Non dico che un’omo ci debba sempre mette’ trent’anni, ma nemmeno trenta secondi ‘ome fai tu!”