Chitarra Classica – Intervista al M° Eugenio Della Chiara


Nato a Pesaro, Eugenio Della Chiara si diploma all’età di diciannove anni con il massimo dei voti e la lode nel conservatorio della sua città sotto la guida di Giuseppe Ficara. Tra i suoi maestri vi sono Andrea Dieci e Oscar Ghiglia, con cui si perfeziona all’Accademia Chigiana di Siena.
Completa la sua formazione umanistica presso l’Università Cattolica di Milano, laureandosi prima in Lettere Classiche e in seguito in Filologia Moderna. Tra i premi ricevuti si segnalano le due borse di studio della Fondazione Rossini ottenute nel 2008 e nel 2010.
La sua attività concertistica lo ha portato a suonare in Giappone, Austria, Germania, Ungheria, Turchia, Spagna, Norvegia, Danimarca e Irlanda; in Italia ha tenuto recital solistici per alcune tra le maggiori istituzioni musicali del Paese, tra cui la Società del Quartetto di Milano, la Fondazione Pietà de’ Turchini di Napoli, il Festival di Martina Franca e della Valle d’Itria, la Società dei Concerti di Parma, il Rossini Opera Festival di Pesaro e l’Orchestra Sinfonica di Milano.
Ha registrato tre album per DECCA: “Schubert – A portrait on guitar”, interamente realizzato con strumenti costruiti a Vienna tra 1815 e 1840, “Guitarra Clásica”, antologia di rare trascrizioni chitarristiche da Haydn, Mozart e Beethoven, e “Paganini Live”, registrato dal vivo con Piercarlo Sacco. In precedenza – tra il 2012 e il 2016 – ha inciso per Discantica e per Phoenix Classics.
Appassionato camerista, suona in duo con il pianista Alberto Chines, con il chitarrista Andrea Dieci e con il violinista Piercarlo Sacco. Il suo interesse per la vocalità e per il teatro musicale lo porta a frequenti collaborazioni con cantanti lirici: su tutti il mezzosoprano Teresa Iervolino e i tenori Juan Francisco Gatell e Mert Süngü. Insieme ad Alessio Boni ha portato in scena “Tutto il resto è silenzio”, lettura dell’Amleto di Shakespeare accompagnata da musiche inglesi del Seicento.
Collabora con compositori appartenenti a diverse generazioni – come Carlo Galante, Orazio Sciortino, Roberto Tagliamacco e Paolo Ugoletti – che gli hanno dedicato più di venti nuovi lavori. Dal 2015 è direttore artistico di “MUN”, la stagione di musica da camera dell’estate pesarese. È titolare di cattedra al Conservatorio di Trieste e docente a contratto presso quello di Bergamo.

W.M.: Ciao, grazie del tempo che dedicherai a WeeklyMagazine. Come ti sei avvicinato alla chitarra e cosa ti ha ispirato?

E.D.C.: Ciao e grazie per l’invito! Una piccola premessa. Non vengo da una famiglia di musicisti: nessuno mi ha mai spinto a “professionalizzare” la mia passione per la musica e credo che questo mi abbia aiutato in due sensi. Innanzitutto, ho potuto conservare quell’approccio “ludico” senza cui anche un’attività bellissima come suonare rischia di diventare un mestiere come tanti; in secondo luogo, il momento in cui mi sono reso conto di voler vivere di musica è stato frutto di un percorso estremamente personale: nessuno ha scelto per me e di questo sono molto grato.

Recital a Tokyo, 25 gennaio 2019

Ma andiamo con ordine. Ho sette anni: ogni mattina, per arrivare a scuola, devo fare un viaggio di venti minuti abbondanti e in auto c’è sempre qualcosa da ascoltare; ultimamente mia mamma sta collezionando una collana di CD che si chiama “L’albero della musica”, in uscita con un settimanale: il volume dedicato alla sonata barocca è il mio preferito, soprattutto per la presenza del clavicembalo. Quel suono così netto, metallico e preciso mi piace tantissimo. Un giorno, a scuola, le maestre ci portano a incontrare alcuni insegnanti di musica venuti a presentarci i loro strumenti: mi bastano poche note suonate da Simona – che diventerà la mia prima insegnante – per capire che voglio suonare la chitarra. Evidentemente avevo colto un’assonanza con il suono del clavicembalo, ma anche qualcosa di più che non sapevo descrivere… sono proprio vere le parole – riportate anche nel programma dell’esordio parigino di Segovia – con cui Debussy descrive la chitarra: «C’est un clavecin, mais un clavecin expressif».

Recital al Rossini Opera Festival, 13 agosto 2013

W.M.: La tua formazione umanistica quanto ha influenzato ed arricchito il tuo modo di suonare?

E.D.C.: Sicuramente molto. Il fatto di essere venuto a contatto, nei miei anni universitari, con tanti grandi “racconti” – dall’Odissea all’Orlando furioso – mi ha aiutato a sviluppare la consapevolezza di quanto anche la musica stessa sia racconto. Quando suoniamo siamo un po’ come i rapsodi greci che tramandano le storie di Achille e di Odisseo, come Ariosto che narra le gesta dei suoi paladini: c’è una storia da raccontare, una strada da percorrere, una comunicazione che deve arrivare a chi ci ascolta, altrimenti i nostri sforzi sono vani. Ovviamente non parlo di sequenze narrative precise con significati univoci e impossibili da fraintendere, ma di un livello più emotivo e personale della narrazione racchiusa nelle note. La musica custodisce un senso che si lascia accarezzare, ma non afferrare del tutto: è poesia, non prosa. Un ultimo spunto, tornando alla domanda: trovo che il background umanistico sia incredibilmente utile quando ci si trova a dover creare un’analogia, un “ponte” fra la musica e l’esperienza altrui. Questo vale di fronte a uno studente, ma anche – in misura diversa – davanti a un pubblico.

Con Alessio Boni durante una lettura dall’Amleto di Shakespeare, 20 febbraio 2018

W.M.: Pur essendo tu un giovane concertista trovo il tuo modo di suonare vicino allo “stile segoviano.” È una mia impressione?

E.D.C.: Non è la prima volta che sento proporre questo accostamento, che ovviamente mi fa molto piacere. La mia passione per Segovia nasce essenzialmente da una profonda sintonia con la sua concezione della chitarra, da un comune sentire su quali siano le prerogative dello strumento e – in ultima analisi – la sua natura (su questo punto ragiono in modo piuttosto aristotelico: solo conoscendo la sostanza di un oggetto si possono padroneggiare tutti i suoi accidenti).

Registrazione al Teatro di Cagli, 19 gennaio 2022

Nel primo libro dei Re c’è uno dei passi più poetici della Bibbia: «Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero» e Dio era lì. Non nella tempesta, nel terremoto o nel fuoco, ma nel vento leggero: la chitarra per Segovia (e di riflesso per me) non è uno strumento pensato per travolgere chi l’ascolta, quanto piuttosto per sedurlo con i suoi colori e affascinarlo con le sue malinconie… che a volte sfociano in gridi laceranti e improvvisi come quello che si trova nell’Homenaje di Manuel de Falla (che in tre minuti di musica è stato in grado di cogliere la natura dello strumento in modo pressoché ineguagliato). Nella sua celebre lirica La guitarra, il primo sostantivo che Federico García Lorca associa allo strumento è «llanto», pianto: un pianto impossibile da fermare, quasi ossessivo nel suo perpetuarsi che ricorda lo scorrere dell’acqua e il sussurrare del vento. La chitarra piange «por cosas lejanas», è «freccia senza bersaglio»: il suo suono “breve”, di cui tante volte ci lamentiamo, è per García Lorca il simbolo di uno strumento che allude ma non afferma, che suggerisce senza però dare risposte definitive.

Registrazione con una chitarra di Hermann Hauser I, 29 marzo 2021

Tornando alla domanda, c’è un aspetto specifico su cui vorrei soffermarmi: quello relativo alla tecnica segoviana della mano destra. Ora, sicuramente al giorno d’oggi ci sono tipi di impostazione molto più semplici da gestire, eppure io non rinuncerei mai alla tecnica di Segovia, perché mi permette di toccare la chitarra (uso consapevolmente un verbo molto “carnale”) in modi diversi a seconda dell’effetto che desidero ottenere. Entrando nello specifico, questo tipo di impostazione mi permette di passare in modo istantaneo dall’attacco con la parte sinistra dell’unghia – perfetto per le melodie di ampio respiro che si giovano di uno scorrimento lento tra polpastrello e unghia – a quello più secco e diretto che si ottiene dalla sua parte frontale; non bisogna poi dimenticare l’attacco “da destra”, poco usato ma utilissimo nei passaggi in cui è necessario un suono con una personalità forte, frutto di uno scorrimento molto più rapido di quello che caratterizza il suono della parte sinistra dell’unghia. Questi tre attacchi ovviamente vanno poi declinati in varie intensità di tocco libero o – mai trascurarlo – appoggiato.

Dettaglio da un recital ad Amburgo, 24 marzo 2022

Concludo con una riflessione che esula da questioni tecniche. Segovia, tramite la chitarra, esprimeva il proprio amore per la cultura, per l’arte, per la storia, come testimoniato dal suo vastissimo repertorio che andava dai vihuelisti del Cinquecento fino ai maestri del secolo scorso: è vero che in quest’ultimo ambito Segovia ha mostrato di avere preferenze particolari, ma credo che abbia scelto legittimamente di commissionare nuove musiche solo agli autori che sentiva più vicini alla propria visione poetica. Qualche decennio dopo l’ascesa di Segovia, Julian Bream si è comportato esattamente allo stesso modo, lasciandoci in eredità un repertorio perfettamente complementare – da un punto di vista estetico – a quello segoviano, partendo sempre da una concezione dello strumento molto simile a quella del maestro spagnolo.

In concerto con il tenore Juan Francisco Gatell, 15 agosto 2021

W.M.: Per Decca hai inciso tre album, tra cui “Schubert – A portrait on guitar”, interamente registrato con strumenti costruiti a Vienna tra 1815 e 1840. Ci racconti di questa esperienza e del perché della scelta di strumenti storici di quel periodo?

E.D.C.: Negli ultimi quattro anni della sua vita ho avuto la fortuna di poter condividere del tempo prezioso con ad Alberto Zedda, grande direttore d’orchestra e studioso protagonista della Rossini reinassance. Durante una delle nostre conversazioni, il maestro mi raccontò di aver ascoltato un CD di musiche di Monteverdi, rigorosamente registrato con strumenti d’epoca eppure «tutto sbagliato, perché non serve a nulla usare gli strumenti antichi se manca il cuore antico». Questa idea di cercare il “cuore antico” mi ha molto affascinato: lo strumento d’epoca può esserci o non esserci, ma senza l’immedesimazione con l’autore (di cui Zedda suggeriva di consultare spesso i manoscritti, per avere una testimonianza diretta e “fisica” della sua personalità) ogni studio è vano. Partendo da questo presupposto, ho pensato a quanto sarebbe stato bello avvicinarsi alla prassi con gli strumenti antichi per soddisfare il mio desiderio di immedesimazione autentica e completa con la musica che più amavo; il percorso è durato anni: la conversazione con Zedda a cui accennavo risale al 2013, mentre il mio album schubertiano è stato registrato nel 2019. Ho avuto quindi tempo per conoscere più tipi di chitarre e capire cosa si sarebbe adattato meglio al repertorio che volevo proporre: il risultato di questo percorso è una schubertiade in cui sono presenti tre strumenti costruiti a Vienna da persone che Schubert aveva conosciuto direttamente, nel tentativo di ricostruire un’atmosfera che andasse oltre il semplice fatto musicale.

Schubert – A portrait on guitar, Decca, 2020

Vorrei però fare un passo indietro e tornare alla questione del “cuore antico”: a mio parere, se manca questo cuore lo strumento d’epoca diventa solo una foglia di fico con cui provare a mettersi a posto la coscienza, una sorta di asettica garanzia di star suonando “nel modo giusto”. Questo è per me uno dei grandi mali del mondo della musica, ma anche della società in generale: il predominio dell’etica sull’estetica, per cui l’idea di dover fare la cosa giusta ha soppiantato l’impulso naturale di voler fare qualcosa di bello. È chiaro che perseguire la bellezza porta prima o poi anche a trovare ciò che è giusto, ma non è la giustizia ciò che in prima analisi permette di prendere certe decisioni: per fare un esempio personale, quando mi sono sposato non l’ho certo fatto perché era la cosa giusta da fare; poi sì, era anche la cosa giusta, ma non ho scelto di farlo per quello. Credo che la scintilla all’origine di ogni intuizione grande o piccola abbia sempre a che fare con il desiderio di qualcosa di bello: tutto il resto per me viene dopo.

Con due chitarre Stauffer: una costruita nel 1840 da Johann Anton e una terzina del 1810 circa, opera del padre Johann Georg

W.M.: La tua attività concertistica spesso si avvale di colleghi violinisti, pianisti e cantanti lirici; a tuo avviso, in quale di queste formazioni il nostro strumento si “sposa” meglio con gli altri strumenti?

E.D.C.: Pensando a tutte le formazioni in cui ho suonato in questi anni, quella che valorizza maggiormente la chitarra è forse il trio con la viola e il violoncello; mi riferisco nello specifico all’Op. 68 di Paganini, capolavoro assoluto del nostro repertorio cameristico. Il violoncello – in questo tipo di ensemble – offre grande sostegno, mentre la viola è per la chitarra un partner con cui dialogare più “alla pari” rispetto a quanto accade con il violino, specialmente nella musica di Paganini. Restando all’autore genovese non posso non citare il sodalizio con il grande violinista Piercarlo Sacco: la registrazione di un nostro concerto del 2016 è stata pubblicata dalla Decca con il titolo di “Paganini Live”. Un altro musicista con cui ho spesso condiviso il palco è Alberto Chines, pianista dagli orizzonti culturali amplissimi e mio grande amico; il duo chitarra e pianoforte è sicuramente di una difficoltà estrema e richiede un grandissimo affiatamento per poter funzionare: credo che sia un tipo di formazione in cui è fondamentale essere affiancati da una persona con cui c’è grande intesa da un punto di vista umano, oltre che musicale.

Paganini Live, Decca, 2020

Tornando al repertorio cameristico della chitarra, se ne dovessi individuare le vette più alte – a prescindere da qualsiasi discorso legato alla comodità della scrittura – sceglierei sicuramente il quintetto Op. 143 di Mario Castelnuovo-Tedesco e tre dei quintetti di Boccherini: il G. 448, che si chiude con il celebre fandango, il “preromantico” G. 451 e il maestoso G. 453. Rimanendo sui quintetti per chitarra e archi, mi piacerebbe molto suonare Jeromita Linares di Carlos Guastavino, splendida composizione di rarissima esecuzione che ho scoperto in un LP di John Williams donatomi da Beppe Ficara.

Durante un esecuzione del quintetto di Mario Castelnuovo-Tedesco a Pesaro, 26 giugno 2018

Una postilla sulla collaborazione con i cantanti lirici, che merita uno spazio a parte. In primis mi sono reso conto che lavorare insieme ai cantanti non è qualcosa per cui tutti sono portati: la voce non è uno strumento come un altro, ma una persona che coincide con il proprio strumento. Per accompagnare un cantante bisogna conoscere (e soprattutto amare) l’opera, la liederistica, le caratteristiche delle voci in generale e della voce con cui si ha a che fare in particolare. Questo tipo di artista è poi abituato a contare su professionisti pronti a sostenerlo e a correggerlo, quando necessario, e per farlo servono conoscenze specifiche. Avendo partecipato molte volte a produzioni di opere liriche, sono stato a contatto con bravissimi direttori e soprattutto con grandi maestri preparatori, veri custodi del mestiere di accompagnare la voce: ho cercato di “rubare” qualcosa a ognuno di loro, soprattutto a Richard Barker e a Elisa Cerri, che ho spesso visto in azione.

Con il basso Michele Pertusi nel backstage del “Barbiere di Siviglia” al Rossini Opera Festival, 16 agosto 2018

W.M.: Diversi compositori ti hanno dedicato lavori solistici e da camera. Ce ne parli?

E.D.C: Negli ultimi anni ho lavorato soprattutto con Carlo Galante, che mi ha dedicato due pezzi per chitarra sola molto diversi tra loro – Elena o l’immagine d’aria e il Cammeo di Joseph Haydn – e due pagine cameristiche di ampio respiro: una per chitarra, violino, violoncello (Quattro stasimi per Andromeda) e una per chitarra e pianoforte (Domenico fragments). Come si può notare dai titoli delle composizioni, nella musica di Carlo sono spesso presenti suggestioni legate alla cultura classica e ad autori del passato: questo thesaurus è poi rielaborato in maniera estremamente personale, servendosi di un tipo di linguaggio perfetto per valorizzare tutte le peculiarità della chitarra.

All’Auditorium di Milano durante la prima esecuzione di Elena o l’immagine d’aria, 15 marzo 2015

Un altro compositore con cui ho collaborato di recente è Orazio Sciortino, che ha scritto un pezzo di grande effetto – Scarlattiana – per il mio duo con Alberto Chines: spero che questo sodalizio possa presto spostarsi sul terreno della musica per chitarra sola, a cui peraltro Orazio ha già dedicato una bellissima composizione intitolata Ofelia. Un autore da cui ho ricevuto pagine di grande spessore non solo compositivo, ma anche tecnico, è Paolo Ugoletti, la cui poetica neobarocca si trova perfettamente a suo agio sulle sei corde. Non mancano poi i compositori a cui ho chiesto musiche legate a suggestioni poetiche – penso alle Sei meditazioni su Eugenio Montale di Roberto Tagliamacco, attualmente direttore del Conservatorio di Genova – o pittoriche, come nel caso dei Fünf bildner che Alessandro Spazzoli ha composto ispirandosi ad alcune opere di Kandinskij, pittore che amo molto.

In concerto con Alberto Chines a Lonigo, 7 aprile 2019

Oltre che alle musiche nate su mia richiesta, mi sono dedicato anche ad alcune pagine di autori del Novecento che non hanno ancora raggiunto la meritata popolarità nel mondo della chitarra: mi riferisco in particolare a Virgilio Mortari, che ha scritto un bell’Omaggio ad Andrés Segovia, e a Luciano Chailly, di cui ho realizzato la prima registrazione della Sonata per chitarra, composta nel 1976 con dedica ad Alirio Díaz. Come interprete mi sento particolarmente vicino a quei compositori che sanno trarre linfa creativa dal passato – non a caso i due maestri del Novecento che amo di più sono Stravinskij e Bernstein – e sanno valorizzare i gesti strumentali inserendoli in un ambito “narrativo”, mentre come ascoltatore apprezzo anche musica piuttosto astratta: semplicemente, non credo di essere in grado di dare, strumento alla mano, un contributo particolarmente rilevante a un certo tipo di repertorio. Questo è un punto a cui tengo molto: tanti scelgono il proprio repertorio pensando a quel che una data composizione potrebbe dargli, ma quanti si chiedono che cosa loro sono in grado di dare ad essa? Puoi amare un pezzo quanto vuoi, ma devi anche capire se sei ricambiato.

A Pesaro con il Quartetto Antonelliano dell’Orchestra Sinfonica della RAI di Torino, 2 luglio 2019

W.M.: Per i tuoi concerti che strumenti utilizzi?

E.D.C.: Da fine 2021 uso una chitarra di Lucio Carbone, noto liutaio milanese: si tratta di uno strumento estremamente elegante, ispirato a una Enrique García del 1904 su cui Lucio ha potuto eseguire rilievi molto accurati. In passato ho utilizzato molto, anche in concerto, una splendida Domingo Esteso del 1935 di cui sono entrato in possesso in seguito a circostanze piuttosto fortunate, mentre la mia prima chitarra “seria” – con cui mi sono diplomato e che non ho mai abbandonato – è stata una Masaki Sakurai del 2009. I tre strumenti che ho citato sono chiaramente molto diversi fra loro, ma dispongono tutti, in misura diversa, delle prerogative necessarie ad assecondare quella natura “sensibile” di cui ho detto prima, parlando dell’estetica segoviana.

In concerto a Martina Franca con il tenore Mert Süngü e la chitarra Domingo Esteso, 18 luglio 2019

W.M.: Oltre che dedicarti all’attività concertistica sei anche docente presso i Conservatori di Bergamo e di Trieste: spendi parte del tuo tempo anche in masterclass?

E.D.C.: Sì, e mi piacerebbe tenerne di più perché la musica si capisce meglio quando si ha l’opportunità di insegnarla. Spesso nella comunicazione la verità emerge in misura maggiore rispetto a quanto accade nell’indagine solitaria: non a caso Platone ha scelto di tramandare la sua filosofia tramite la particolare forma del dialogo, quando avrebbe potuto benissimo scrivere dei trattati. A proposito di questa idea del “cercare la verità insieme” mi piace sempre ricordare l’esperienza più matura che ho fatto come allievo, quella con Andrea Dieci; era la primavera del 2015: avevo ventiquattro anni ed ero già piuttosto formato, ma sentivo che mi mancava ancora qualcosa di decisivo, qualcosa che potevo individuare solo insieme a una persona di cui potermi fidare totalmente. Quel che ho trovato insieme ad Andrea – che posso definire a pieno titolo mio mentore – non è una semplice ricetta o un trucco di magia, ma una strada che non ho più smesso di percorrere e che mi porta a essere sempre più felice di quel che accade quando prendo in mano la chitarra.

Alla fine di un concerto in duo con Andrea Dieci a Ravenna, 27 novembre 2016

Ora che mi trovo “dall’altra parte” mi rendo conto che aiutare un allievo a trovare la propria strada è quanto di più grande un maestro possa fare. Cercare di creare piccoli cloni di sé non può produrre alcuna soddisfazione in un didatta, oltre a essere una pratica umanamente aberrante: quando invece, da maestro, ti accorgi che l’alunno usa i mezzi che gli hai dato in modo autonomo, per trovare la propria strada, si prova un senso di pienezza difficile da esprimere con le parole.

A Napoli con il mezzosoprano Teresa Iervolino per la Pietà de’ Turchini, 25 settembre 2021

W.M.: Eccoci giunti alla fine di questa interessante intervista per i nostri lettori di WeeklyMagazine. Grazie ancora per la disponibilità e auguri per tanta buona musica.

E.D.C.: Grazie a voi per avermi dato l’opportunità di raccontarmi attraverso ciò che amo!

E.D.C.: Grazie a voi per avermi dato l’opportunità di raccontarmi attraverso ciò che amo!