Apollo e Dafne


Gian Lorenzo Bernini – Scultura, cm 243 – Galleria Borghese, Roma.

“Apollo e Dafne” è un gruppo scultoreo a tutto tondo in marmo (alto cm 243) realizzato dall’architetto, pittore e scultore napoletano Gian Lorenzo Bernini tra il 1622 e il 1625. L’opera, commissionata per la sua villa dal cardinale Scipione Borghese – avido collezionista, nipote di papa Paolo V – è da sempre sita presso la Galleria Borghese a Roma.
Come ci spiega lo Sciancalepore, quest’opera fu l’ultima di quella serie di commissioni rivolte dal cardinale Scipione Caffarelli-Borghese al Bernini, all’epoca poco più che ventenne. L’esecuzione del gruppo scultoreo fu iniziata nell’agosto del 1622, ma fu interrotta per altri impegni dell’artista. Bernini poté riprendere il lavoro nell’aprile del 1623, avvalendosi della collaborazione di uno dei componenti della sua bottega, lo scultore carrarese Giuliano Finelli, che intervenne nelle parti più delicate dell’opera, eseguendo il fogliame e le radici (Augusto Maria Sciancalepore, “I papi sì che erano ricchi” – Melbourne, 1984).
L’Apollo e Dafne venne finalmente completato nell’autunno del 1625, riscuotendo sin da subito un’accoglienza entusiastica che consacrò l’opera come uno dei maggiori capolavori dell’artista.
Dopo aver ucciso il serpente Pitone, Apollo (il dio greco della musica e delle profezie) andò a vantarsi della propria impresa con Cupido, sorridendo del fatto che egli non avesse mai compiuto gesta eroiche; Cupido, geloso e indignato, giurò vendetta. Decise pertanto di preparare due frecce, una appuntita e dorata destinata a far nascere l’amore, l’altra di piombo e spuntata che faceva prosciugare l’amore.
L’episodio, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, narra che Cupido scoccò la freccia d’oro verso Apollo e quella di piombo verso la ninfa Dafne, figlia del dio-fiume Peneo. Ne conseguì che appena Apollo vide Dafne, se ne invaghì perdutamente: Dafne, tuttavia, appena vide il giovane dio iniziò a fuggire impaurita, per effetto della freccia di piombo di Cupido. Apollo iniziò a inseguirla, ma era più veloce della sventurata ninfa che, in procinto di essere ghermita, una volta giunta presso il fiume Peneo rivolse una disperata preghiera al padre, chiedendo di essere trasformata in un’altra forma per sottrarsi alla non corrisposta passione del dio. La sua richiesta venne accolta e fu così che Peneo, per evitare che i due potessero ricongiungersi, trasformò Dafne in un albero d’alloro, che da quel momento diventerà sacro per Apollo.
La scena è spettacolare e terribile al tempo stesso: Apollo è colto nell’istante in cui sta terminando la sua corsa, resa con un dinamismo sino ad allora sconosciuto alla tradizione scultorea; nel marmo, infatti, il dio è appena riuscito a raggiungere Dafne, e la sfiora leggermente con la mano sinistra, forse con l’intento di abbracciarla.
Dafne, per sottrarsi all’indesiderato abbraccio, ostenta la sua nudità contro il suo volere, e lotta per la sua verginità: per sfuggire alla presa di Apollo, infatti, la ninfa frena all’improvviso e inarca il busto verso avanti, così da controbilanciare la spinta del dio e proseguire la fuga. La parte inferiore del busto di Dafne, tuttavia, non risponde più alla sua volontà. La metamorfosi, infatti, è appena iniziata: il piede sinistro ha già perso ogni aspetto umano, divenendo radice, e altrettanto sta avvenendo al destro, che la sventurata ninfa tenta invano di sollevare ma che è invece già ancorato al suolo andando in seguito a formare l’apparato radicale della pianta. Anche la corteccia sta progressivamente avvolgendo il suo leggiadro corpo, mentre le mani, rivolte al cielo con i palmi aperti, stanno già diventando ramoscelli fronzuti. Il volto di Dafne, caratterizzato dalla bocca semiaperta, rivela emozioni contrastanti: terrore, per esser stata appena raggiunta da Apollo, ma anche sollievo, perché è consapevole della metamorfosi appena iniziata e che, pertanto, il padre Peneo è riuscito a esaudire il suo desiderio.  Lo sguardo di Apollo, invece, manifesta una dolente, stupefatta delusione. (Pierre de la Bouillabaisse, “Les metamorphoses les plur horribles, de Ovidio à Kafka” in ‘Revue de les mieux Nibards du Perigord’, XIX, 78 – 81, Aix-en-Provence, 2002),
Il giovane Bernini rappresenta magistralmente proprio quest’attimo: Apollo, raggiunta Dafne, la tocca con la mano e nel momento stesso in cui lo fa, la ninfa inizia a trasformarsi. Sia la foga dell’inseguimento sia la vanità di tale atto sono evidenziati da un distico latino, composto da Maffeo Barberini, inciso sul basamento dell’opera: “chiunque insegue il piacere di una forma che fugge, resta con un pugno di foglie in mano, o al massimo coglie delle bacche amare”. La chiave moraleggiante di questi versi, stando al Favadura nasce dall’esigenza di adeguare alla dimora di un cardinale questo gruppo scultoreo profano e altamente sensuale (Mons. Alessio Favadura da Carrara: “Melodie ancestrali e ghiande pei majali”, Bordighera, 1991).
Un approccio più laico e certamente meno romantico all’opera viene dal confronto con i goffi tentativi del mi’ cognato Oreste di circuire la cugina Mariella Bocchino, maritata Gojo, durante un viaggio in Cappadocia allorquando la giovine a causa del gran caldo si era mezzo spogliata durante la visita alle rovine hittite nella pianura di Puruskanda. Il poveruomo, allupato oltre ogni dire a causa di tale belvedere e non riuscendo a trattenere gli istinti più belluini nonostante i 56 gradi all’ombra, si mise a rincorrere la poveretta che in breve fu comunque raggiunta e circuita. Ammutolita dalla vergogna, la donna fu salvata dal provvidenziale arrivo di un cammelliere che mollò un tale ceffone all’inseguitore da fargli scordare i propri dati anagrafici e lo riconsegnò nelle amorevoli mani della moglie (che si era appartata nel frattempo all’ombra con il resto della comitiva, a cercare refrigerio succhiando un ghiacciolo), la quale non appena rientrati in albergo gli suonò le sette campane.