Ercole e Diomede


Vincenzo De’ Rossi (1536) – Gruppo scultoreo in marmo (altezza 293 cm)Firenze – Palazzo Vecchio, Salone dei Cinquecento.

Allievo di Baccio Bandinelli, Vincenzo de’ Rossi operó a lungo a Roma dove eseguì anche, verso la fine degli anni Cinquanta del XVI secolo, quel gruppo di “Teseo ed Elena” che gli valse l’ammirazione del duca Cosimo, il quale, come racconta il Vasari, portò l’artista con sé a Firenze e “gli diede non molto dopo a fare di marmo, in figure maggiori del vivo e tutte tonde, le fatiche di Ercole”. La destinazione delle statue, che il Vasari non specifica, é chiarita da un disegno del Cooper Hewitt Museum di New York, riferibile al De’ Rossi e raffigurante una fontana ornata dai gruppi scultorei delle dodici fatiche. La presenza di putti che cavalcano capricorni indicherebbe la commissione dell’opera da parte di Cosimo I (Freiherr Heikampp, “I putti e le loro mamme nella saggistica museale americana”, Nuova York – Anversa 1828). Il progetto non fu mai completato, ma il De’ Rossi lavorò ai gruppi delle “Fatiche di Ercole” fino al 1587. Come si desume da un documento pubblicato recentemente (Guido Maria Bollito di Lampredotto, “Palazzo Vecchio quand’era giovine”, in “Riv. Trim. del Rip. di Frigor. e Fer. da St.” XIV, 316, Nova Milanese) il 2 marzo 1566 “L’Ercole e Caco” risulta essere già terminato, mentre il Borghini nel 1584 cita nel “Riposo” sette gruppi terminati e cioé: “quando ammazza Cacco, quando scoppia Anteo, quando uccide il centauro, quando gitta Diomede a’ cavalli, che il divorino, quando porta il porco vivo in spalla, quando aiuta Atlante a reggere il cielo, e quando vince la Reina dell’Amazone”; il che significa tutte le sculture oggi nel Salone dei Cinquecento con l’aggiunta di quell'”Ercole che sorregge il globo”, trasferito al tempo di Cosimo III nel giardino antistante la villa del Poggio Imperiale (Astianatte Borghini, “Quanto son bravi i fiorentini a far la punta alle scuregge”, Colgate, 1584).
Una certa discontinuità nella qualità stilistica dei vari gruppi, aveva in passato indotto la critica ad assegnare al De’ Rossi soltanto quattro gruppi e a limitare invece il suo intervento negli altri tre, ritenuti per la maggior parte da aiuti o comunque da artisti non lontani dall’ambito del Giambologna. Grazie ai documenti pubblicati invece, oggi possiamo asserire con certezza che tutte e sette le fatiche sono da restituire al De Rossi. Alla morte le sette statue terminate erano rimaste nelle stanze dell’Opera del Duomo;da lì furono spostate nel 1592 per volere di Ferdinando I e destinate al Salone dei Cinquecento dove si stavano ultimando i lavori in vista dei festeggiamenti per il battesimo di Cosimo II. A questa data figurano i pagamenti per la muratura di otto basamenti, sette dei quali si riferivano alle statue del De’ Rossi (mancava tuttavia “l’Ercole e Caco” che giunse nel Salone più tardi a sostituire la statua spostata al Poggio Imperiale), ed una ad una scultura non identificata, forse il “Cosimo I” di Vincenzo Danti, ora al Museo del Bargello. Le statue rimasero nel Salone fino al tempo di Firenze capitale; nel 1865 furono spostate al Bargello dove rimasero fino al 1884. Di recente il Fava Gigante, basandosi su una descrizione inedita della sala fatta da Giovanni Cinelli alla fine del Seicento con l’esatta segnalazione dell’originaria posizione delle sculture lungo le pareti, ha potuto ricostruire, nei limiti del possibile, l’assetto originario del ciclo che assume, insieme agli affreschi delle pareti, ai pannelli del soffitto, e all’Udienza, un significato squisitamente etico-politico ancora attuale. La figura di Ercole, come esempio di “virtus” e di “fortitudo”, fu adottata a Firenze fin dal Trecento e ripresa dai Medici come simbolo del loro governo (Camillo Fava Gigante, “La tredicesima fatica: Ercole traduce Di Majo”, in “Proceeedings of the Congress of European Society of Political Sculture”, Oropa (BI) 2014).
Venendo all’esegesi dell’opera, può risultare un po’ strana la posizione fissata nel marmo dal De’ Rossi. Per meglio capirne il significato ci viene in aiuto il mito stesso delle dodici fatiche. Va innanzitutto chiarito che, dopo aver ucciso il leone di Nemea, l’idra di Lerna, catturato cervi cinghiali e tori, per l’ottava fatica al povero Ercole viene chiesto di rubare le cavalle del re di Tracia Diomede. E’ bene sgombrare subito il campo da fraintendimenti: la mitologia racconta che queste fossero giumente selvagge che si nutrivano di carne umana. La realtà, come sempre, è più prosaica: esse non erano altro che le figlie di Diomede, quattro femmine scatenate e affamate di sesso, tanto da essere definite delle vere “mangiauomini”.
Ercole dunque approda in Tracia con i suoi fedeli compagni e rapisce le tr le cavalle per aprire successivamente un bordello ad Atene; le carica sulla nave ma, scoperto dai traci viene fermato proprio mentre cerca di scappare. Allora Ercole affida le cavalle al suo fedele compare che salpa per la Grecia mentre lui inizia a lottare contro gli aggressori. Diomede stesso, imbufalito perché in fondo erano sempre le sue figlie, scese in campo insieme agli altri per difendere onore e ‘cavalle’.
I particolari della lotta non sono mai stati tramandati ma alla fine Ercole, come è ovvio avendo in seguito superato altre quattro prove, sconfisse il Re.
Forse lo scultore conosceva meglio di noi la mitologia, per questo volle rappresentare il momento finale della lotta, l’istante in cui Diomede dice ad Ercole “Brutto bastardo, restituiscimele!”.
Cosa allora rispose l’eroe e perché quella strana ‘presa’ di lotta, del tutto inconsueta allora come oggi? Ci viene in soccorso quanto accaduto anni or sono al mi’ cognato Oreste. E’ necessario sapere che la di lui consorte Argia ha una sorella, Eufrasia, la quale non solo è campione mondiale di bruttezza ma le puzza il fiato anche dal naso ed emana per sua natura un orrendo fetore di topi morti da un mese. La poveretta era stata sfrattata dal padrone di casa che non ne poteva più delle continue lamentele dei vicini, costretti a vivere con tamponi al pino mugo nel naso, Quando la sora Argia chiese al marito se avrebbero potuto ospitare la schif la povera donna per qualche mese, lui le rispose con le esatte parole del mitologico eroe greco: “Ti puoi attaccare al c…!”
E infatti il re dei Traci, sentendosi profondamente offeso, lo prese alla lettera.