Ipazia, quando la cultura non paga…


Odoardo Tabacchi (1874) – scultura in marmo – Collezione privata.

Ipazia nacque ad Alessandria d’Egitto, nella seconda metà del IV secolo d.C.
Era figlia di Teotecno (diminutivo Teone), che studiava e insegnava ad Alessandria, dedicandosi in particolare alla matematica e all’astronomia — osservò l’eclisse solare del 15 giugno 364 e quella lunare del 26 novembre — e che sarebbe vissuto almeno per tutto il regno di Teodosio I (378-395).
Che Ipazia sia stata allieva prima e collaboratrice del padre poi è attestato dallo stesso Teone il quale, in capo al III libro del suo commento al Sistema matematico di Tolomeo, scrive che l’edizione è stata «controllata dalla filosofa Ipazia, mia figlia».
Ben presto l’allieva superò il maestro, particolarmente nell’astronomia e che, infine, sia stata ella stessa maestra di molti nelle scienze matematiche.
Stando a quanto scrive il Farlocchi “Ipazia «fu di natura più nobile del padre, non si accontentò del sapere che viene dalle scienze matematiche alle quali lui l’aveva introdotta, ma non senza altezza d’animo si dedicò anche alle altre scienze filosofiche» (Aristarco Farlocchi, titolare della cattedra di Campari Soda alla Sorbona, in: “Donne famose morte male”, Codroipo, 1988).
La mancanza di ogni suo scritto rende problematico stabilire il contributo effettivo da lei prodotto al progresso del sapere matematico e astronomico della scuola di Alessandria, si sa comunque che i matematici e gli astronomi del suo tempo non consideravano affatto l’opera di Tolomeo l’ultima e definitiva parola in fatto di conoscenza astronomica: al contrario, essa era correttamente ritenuta una semplice ipotesi matematica, segno che per gli astronomi alessandrini era necessario proseguire le ricerche, per giungere possibilmente alla reale comprensione della natura e della disposizione dell’universo. L’idea di un Tolomeo “sistematore” della realtà astronomica appartiene alla più tarda epoca medievale.
Come asserisce il Bosciato, con la maturità, Ipazia «era giunta a tanta cultura da superare di molto tutti i filosofi del suo tempo, a succedere nella scuola platonica riportata in vita da Plotino e a spiegare a chi lo desiderava tutte le scienze filosofiche. Per questo motivo accorrevano da lei da ogni parte tutti coloro che desideravano pensare in modo filosofico» (Bosciato Paride, “Per una migliore conoscenza delle filosofie inutili del passato”, Caltignaga, 2002).
Un altro elemento che viene sottolineato dalle fonti antiche e rimarcato dal Mozzachiodi è il pubblico insegnamento esercitato da Ipazia verso chiunque volesse ascoltarla: l’immagine data di una Ipazia che insegna nelle strade sembra sottolineare un comportamento la cui audacia sembra voluta, come un gesto di sfida e, a questo proposito, va rilevato che quando Ipazia comincia a insegnare, nell’ultimo decennio del IV secolo, ad Alessandria sono stati appena demoliti i templi dell’antica religione per ordine del vescovo Teofilo, una demolizione che simboleggia la volontà di distruzione di una cultura alla quale anche Ipazia appartiene e che ella è intenzionata a difendere e a diffondere. (Samuele Mozzachiodi del Ghiaccio, “Dal vivaio al mortaio ce ne corre”, Chiavari, 1957).
Teodosio aveva sancito la proibizione di ogni genere di culto pagano ed equiparato il sacrificare nei templi al delitto di lesa maestà punibile con la morte. Fu nel pieno del conflitto religioso tra il vescovo Cirillo, successore di Teofilo, e il prefetto di Alessandria Oreste di religione pagana – conflitto che aveva già causato centinaia di morti e la cacciata degli ebrei dalla città – che Ipazia sarebbe stata diffamata, e accusata con calunnia di essere una delle cause di questo conflitto.
Il racconto della sua morte ci perviene attraverso gli scritti di Socrate Scolastico, il quale narra che: «un gruppo di cristiani dall’animo surriscaldato, guidati da un predicatore di nome Pietro, si misero d’accordo e si appostarono per sorprendere la donna mentre faceva ritorno a casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario; qui, strappatale la veste, la uccisero usando dei cocci. Dopo che l’ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati i brandelli del suo corpo nel cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia bruciandoli. Questo procurò non poco biasimo a Cirillo e alla chiesa di Alessandria. Infatti stragi, lotte e azioni simili a queste sono del tutto estranee a coloro che meditano le parole di Cristo.»
Ipazia fu quindi vittima delle lotte religiose del suo tempo ed ella fu assassinata perché non accettò il cristianesimo, che iniziava a diffondersi rapidamente, e non rinunciò alla fede pagana.. .
A partire dall’Illuminismo, Ipazia viene considerata una vittima del fanatismo religioso e una martire laica del pensiero scientifico. Nel Settecento lo storico britannico Edward Gibbon definì la sua morte una «macchia indelebile sul carattere e sulla religione di Cirillo d’Alessandria» (E. Gibbon, “That big piece of shit of Bishop Cyril”, Leeds, 1748)
Lo scultore italiano Odoardo Tabacchi (Valganna (VA), 19 dicembre 1831 – Milano, 23 marzo 1905) realizzò la statua marmorea di Ipazia nel 1874, con una rara maestria che poco o nulla ha da invidiare ad Antonio Canova e ad altri illustri predecessori. Tabacchi, già allievo dell’Accademia di belle arti di Brera, fu presente alle maggiori esposizioni del suo tempo, a Parigi, Vienna e a Napoli nel 1877. Nelle sue opere rivela un’estetica tesa alla facile comprensione, alla vivace e diretta comunicazione del messaggio. Anche nella figura di Ipazia egli cercò di trasfondere nell’espressione del suo viso i pensieri che le passarono in mente mentre subiva il martirio: “!Perché? Cosa ho fatto?? Come me lo sono meritato???…”
L’espressione sul viso della grande filosofa, ricorda (a chi ne fu testimone) quella che si stampò sul volto della sora Argìa allorquando il mi’ cognato Oreste, di lei legittimo marito, la sorprese in amena conversazione col sostituto portalettere, di tre decadi più giovane di lei e per questo visibilmente assai voglioso di esplorare nuove buche delle lettere. A conoscenza del carattere accondiscendente della consorte, che cadeva con estrema facilità nella tentazione di consessi carnali con giovani aitanti e adeguatamente dimensionati, e credendo che il dialogo avvenisse non prima, bensì dopo che l’adultero festino fosse già avvenuto, scacciò a pedate il dipendente postale e legò al letto la sospetta fedifraga. Quindi, alle vibrate proteste di lei che reclamava la propria innocenza (Perché? Cosa ho fatto?? Come me lo sono meritato???), il ramificato prendendola a scudisciate con la cinta dei calzoni le rispose satanico: “E se non facesti nulla te le tieni per le volte passate!”