Inverosimilmente un “grande” (1a parte)


Remy de Gourmont, famoso poeta, romanziere, giornalista, scrittore e critico d’arte francese, vissuto a cavallo tra il XIX ed il XX Secolo, scrisse: “Quell’uomo raccontò tanti di quegli episodi, che gli furono favorevoli, tutti con lo stesso spirito ed entusiasmo, che usò nel raccontare quelli che gli furono sfavorevoli”. Il critico americano Edmund Wilson, disse: ”Divino! Non ho mai letto un libro, autobiografico o romanzesco, capace di dare, così completamente, il senso della vita”.
Nel 1786 uscì un feroce libretto satirico, contro gli avventurieri, dal titolo “Soliloquio d’un pensatore”, firmato dal più famoso di questi amanti dell’avventura, Giacomo Casanova. Lo scritto prendeva di mira soprattutto Cagliostro (del quale si è già parlato), definendolo un volgare furfante, un rozzo venditore di fumo, un mago da quattro soldi. I due si erano conosciuti casualmente, molti anni prima, nella cittadina francese di Aix-en-Provence. Un incontro freddo e fugace, il loro. Il Conte di Cagliostro, alias Giuseppe Balsamo, era agli inizi della sua carriera, mentre Casanova ne era all’apice. Si videro solo quell’unica volta. Come mai non simpatizzarono? Entrambi erano massoni, entrambi affetti da una specie di delirio peripatetico, entrambi italiani e, soprattutto, entrambi imbroglioni. Forse si assomigliavano troppo, per non avvertire, fin da subito, una reciproca ed invincibile diffidenza. In comune avevano anche il livello sociale. Come Balsamo, anche Casanova veniva da un’umile famiglia.
Quest’ultimo era nato a Venezia il 2 aprile 1725, da un’attricetta, Zanetta Farussi, figlia di un calzolaio. Secondo i registri dell’anagrafe, il padre era Gaetano, di professione attore; stando alle malelingue, era un nobile, Michele Grimani. In ogni caso, i genitori non avendo i mezzi per mantenerlo, lo affidarono alla nonna materna, che a nove anni lo mandò a studiare a Padova, presso un certo Abate Gozzi, sotto la cui guida Giacomo imparò non solo a leggere e a scrivere, ma anche a suonare il violino. Una notte, mentre dormiva, la sorella del prelato, Bettina, si introdusse furtivamente nella sua stanza e si infilò nel suo letto, svegliandolo di soprassalto. Giacomo fu piacevolmente sorpreso da quella visita, cui ne seguirono puntualmente molte altre. Anni dopo confessò, che in quei convegni, per quanti sforzi facesse, non riuscì mai a perdere la propria innocenza. Bettina non volle mai concederglisi del tutto, limitandosi a tenerlo in uno stato di costante eccitazione.
Terminato il periodo padovano, il giovane salutò sia l’Abate che la di lui “allegra” sorella, e fece ritorno a Venezia. Non avendo il becco di un quattrino, decise di abbracciare la carriera ecclesiastica, considerata la più comoda, a quei tempi, per chi voleva sbarcare il lunario, senza fatica. Nel febbraio del 1740 ricevette la tonsura ed alcuni mesi dopo il titolo di abate. Invitato a tenere il suo primo sermone nella chiesa di San Samuele, si presentò completamente ubriaco, con gli occhi sbarrati, farfugliando incomprensibili parole, e svenne. Uno scandalo. Fu prontamente calato dal pulpito e trasportato in sacrestia, da dove, una volta ripresa conoscenza, se la diede a gambe. Ma non gettò la tonaca alle ortiche. La vestì ancora tre anni, comportandosi come se non l’avesse mai indossata. Non la trovava assolutamente incompatibile con la vita spensierata che stava conducendo, anche grazie alle sovvenzioni del Senatore Alvise II Malipiero, un vecchio scapolo, ricco e gaudente, che lo aveva preso a benvolere. Il patrizio aveva perennemente tavole imbandite con ogni ben di Dio, nel suo splendido palazzo sul Canalgrande ed organizzava feste da “Mille e una notte”, alle quali Giacomo non mancava mai, conteso dalle più belle donne veneziane. Il ragazzo era alto quasi due metri, spalle larghe, vita sottile, fronte un po’ sfuggente, naso adunco labbra carnose, occhi vivi e scrutatori ed un incarnato olivastro. Nonostante la mole, si muoveva con grazia, ostentava grande sicurezza, ispirava confidenza e simpatia. I suoi inchini ed i suoi baciamano erano perfetti, i complimenti che elargiva, mai gratuiti e banali. Sapeva leggere nel cuore del gentil sesso ed interpretarne ogni desiderio. Per soddisfare ciò, non badava a spese. A diciassette anni perse la propria verginità, seducendo contemporaneamente due sorelle, Nanette e Marton. Di quell’evento, nelle “Memorie”, scrisse di aver subito capito, che una ragazza sola si lasciava difficilmente sedurre, per mancanza di coraggio, mentre, quando era in compagnia di un’amica, si arrendeva con più facilità. “Le debolezze dell’una, causano la caduta dell’altra”, diceva.
Non esisteva ramo della scienza che non lo appassionasse. Era un insaziabile divoratore di libri, un insonne grafomane, un viaggiatore curioso ed instancabile. La vita ecclesiastica, tanto voluta dalla madre, incominciava però ad annoiarlo a morte, rendendolo titubante. Un bel giorno, piantò in asso il Vescovo, del quale era nel frattempo diventato segretario, partì per Napoli, dove conobbe importanti personaggi e fece strage di cuori femminili. Con una lettera di presentazione, ottenuta dal fratello del celebre Abate Galiani, per il Cardinale romano Acquaviva, raggiunse Roma, ma per una complicata “faccenda di corna”, dovette lasciare immediatamente l’Urbe e riparare a Costantinopoli. Agli inizi del 1746, a soli ventuno anni, tornò nella città lagunare ed incominciò a guadagnarsi da vivere suonando il violino, al teatro San Samuele. Una sera, rientrando a casa dopo un concerto, vide, davanti a sé, un tale perdere per strada una lettera. Si precipitò a raccoglierla ed a restituirla. L’altro, che risultò essere l’ex inquisitore Matteo Bragadin, per sdebitarsi gli offrì un passaggio in gondola. Durante il tragitto, il magistrato fu colto da un infarto e sarebbe certamente morto se il giovanissimo Casanova, con grande sangue freddo e presenza di spirito, non avesse immediatamente ordinato, ad un servo, di intervenire con un salasso. Bragadin fu salvo ed in segno di gratitudine, lo adottò come figlio, assicurandogli una rendita di dieci zecchini. Giacomo si diede alla pazza gioia: feste, viaggi, gioco e soprattutto donne. Fu in quegli anni che si guadagnò la fama, che lo proiettò nella storia. Nella sua alcova si avvicendavano grandi dame e semplici popolane. Gli piacevano tutte ed a tutte piaceva. Ma le sue cotte duravano lo spazio di una notte. Unica eccezione, quella per una certa Henriette, che durò alcuni mesi. Approdò a Parigi, dove si trattenne un anno, ricevuto nei salotti ed a corte, conteso e coccolato dalle più belle parigine. La celebre attrice Silvia Balletti gli spalancò le porte del mondo teatrale e letterario e lo presentò ai personaggi più in vista di Francia. Frequentò la famosa scuola di danza di Marcel, dove si perfezionò nel minuetto, ballo allora assai in voga. Tradusse in italiano la commedia di Louis de Cahusac, “Zoroastro”, e diventò assiduo frequentatore della Comédie-Française. Nella residenza estiva del Castello di Fontainebleau, ebbe l’onore di assistere al pasto serale dei sovrani, Luigi XV e consorte. Restò stupefatto nell’udire la Regina Maria Leszczyńska chiedere ad un cameriere se quello che stava mangiando era pollo in fricassea, piatto da poco importato dall’Italia. A Vienna, città che pullulava di commissari di castità, istituiti dalla bigotta Maria Teresa per vigilare sulla moralità pubblica, tra un’avventura galante e l’altra, vinse e perse al gioco ingenti somme di denaro, conobbe il poeta italiano Pietro Metastasio, con il quale ebbe numerosi colloqui, e strinse amicizia con molti uomini di cultura. Il 29 maggio 1753, dopo tre anni di assenza, fece ritorno a Venezia.
Si cimentò nell’organizzare feste sontuose e nel reclutare nuove amanti. Concupì persino una giovane monaca, Caterina Capretta, con la complicità della sua compagna di cella, Maria Maddalena, amica della novizia ed amante dell’ambasciatore francese François-Joachim de Pierre de Bernis, un ecclesiastico, libertino scettico e raffinato, grande impresario di manifestazioni, improntate all’eccesso e alla sfrenatezza. I convegni amorosi, che si svolgevano nella garçonnière, erano, ovviamente, oggetto di commenti maligni e di piccanti pettegolezzi. I festini cominciavano con una cena luculliana e culminavano in vere e proprie orge collettive, che il padrone di casa dirigeva con grande maestria, da dietro un paravento munito di oblò. Qualche volta anche l’anfitrione si buttava nella mischia e allora Giacomo Casanova ne prendeva il posto. Nella Venezia del Settecento, quelle “quadriglie” erano all’ordine del giorno e non scandalizzavano nessuno. Eppure……