La doppia faccia del Generale Della Rovere


Quell’uomo, era nato ad Alessandria, il 9 aprile 1894, figlio di un ufficiale di fanteria che, da Colonnello, avrebbe comandato la Scuola Militare “Nunziatella” di Napoli, dal 1915 al 1919. Allo scoppio della Grande Guerra, si era arruolato, come ufficiale di complemento, nei Bersaglieri ed era stato inviato sul Carso. Alla fine del conflitto, decorato e raggiunto il grado di Capitano, abbandonò la carriera militare e si dedicò alla sua più irrefrenabile passione, la truffa. Poi di lui, si persero per anni, le tracce. Notizie molto vaghe lo vollero, richiamato in servizio, a combattere in Spagna ed in Etiopia. Quando l’Italia entrò in guerra, il 10 giugno 1940, non aveva più un’età idonea per il fronte. Forse, solo per attività sedentarie, tra scartoffie e documenti, più o meno riservati. Nel nostro Paese, dopo il 25 luglio del ’43, si aprì un grande mercato di uomini e di cose, in situazioni estreme di irregolarità ed illegalità. I più bravi ed i più scaltri, ne approfittarono. Impostori, ladri e delatori, fecero da sfondo a quel niente che restava della nazione e lui, di certo, se avesse voluto lavorare per il Partito, un incarico, anche buono, lo avrebbe di certo trovato.
Quell’uomo, Giovanni Bertoni, raccontò di essere sbarcato a Genova, sotto mentite spoglie, da un sottomarino alleato, e di essere un ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana, inserito nei servizi della Repubblica Sociale, con l’incarico di contattare i reclusi, farli evadere ed organizzare la guerriglia nelle regioni del Nord. Da perfetto millantatore, vantando amicizie altolocate, riuscì a spremere parecchio denaro da quegli ingenui disperati ed a dissanguarne i parenti, che ingenuamente credevano alle sue facili promesse. Inoltre, gli industriali gli elargivano ingenti somme, a favore della Resistenza e, soprattutto, a favore della sua protezione dai nuovi padroni. Il gioco non durò molto a lungo. Venne arrestato, per un banale furto, da una pattuglia nazista.
A dirigere l’Ufficio Politico della Questura di Genova, c’era all’epoca, un poliziotto di vecchia scuola, tale Veneziani, alle cui orecchie era giunta la soffiata sull’imminente arrivo di un “generale”, che avrebbe dovuto coordinare la “resistenza”. Il contemporaneo e coincidente arresto del Bertoni, unito alla sua camaleontica capacità di calarsi in diversi personaggi, diedero all’inflessibile e subdolo poliziotto una concreta possibilità di vittoria. Quando fu al cospetto del Veneziani, il neo arrestato cercò di improvvisare una delle sue innumerevoli recite, ma si sentì apostrofare: “Basta! Sappiamo tutto di te. Il tuo fascicolo è pieno zeppo di carognate. La commedia è finita”. Il poveraccio si accorse subito di avere a che fare con un osso duro e alzò le braccia. Un truffatore così, era troppo geniale per farlo marcire per anni nelle patrie galere. Perché non sfruttarlo, usandolo a proprio piacimento. Un gioco, quindi, di ricatti e di ricompense reciproche. Veneziani fece sedere Bertoni e gli fece la proposta. Niente galera, ma un lavoro a tempo pieno, ben retribuito. Il “nuovo generale” giocoforza accettò. Venne rinchiuso in una cella, nel carcere di Marassi, mescolato ai politici, assieme ad un giovane ufficiale, sospettato di essere il collegamento tra l’organizzazione militare clandestina della Liguria e quella di Roma, che era stato interrogato, minacciato, picchiato, ma dalla sua bocca non era uscita una parola.
Quel “giovane ufficiale”, trovò così un nuovo compagno di cella, il Generale di Corpo d’Armata, Giovanni Fortebraccio Della Rovere. Due uomini dalla stessa parte della barricata, due uomini della Resistenza, che si preparavano mentalmente a morire per la stessa causa. Il generale rispettava le regole del gioco e non chiedeva mai al giovane subalterno particolari della sua attività clandestina. Gli dava solo consigli. “Resisti, sii forte”, e nello stesso tempo vantava delle pedine, che poteva muovere nel carcere. Aveva già inviato qualche messaggio, solo per far sapere di non aver parlato. Un giorno, il “giovane ufficiale” chiese al Generale: “Eccellenza, potrebbe far arrivare fuori un biglietto?”. “Quanti ne vuoi”, gli rispose. Della Rovere era caduto in trappola. In quei bigliettini c’erano scritti i nomi del Colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, Comandante del Fronte Militare Clandestino, martire alle Fosse Ardeatine e Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Montezemolo e di altri, che finirono nelle mani di Herbert Kappler.
Alla fine di marzo del 1944, erano seduti, nell’ufficio di Veneziani, a Genova, il Generale Della Rovere e il funzionario della squadra politica della questura milanese, Dottor Luca Ostèria, uno sbirro molto scaltro, abituato alle trappole e agli agguati. Questi, col nome di battaglia “Dottor Ugo”, era da mesi in contatto con la Resistenza ed aveva più volte rischiato la vita, per salvare condannati a morte. Il fatto che Walter Rauff, Capo delle Sicherheitsdienst (SD) naziste, avesse affidato proprio a lui il compito di convincere il “sedicente generale” ad accettare la difficile missione, era la dimostrazione, che Ostèria, camminando sempre sul filo del rasoio, godeva della fiducia del Reich. Ora, per agire da spia, non erano sufficienti le normali doti di trasformismo. Occorreva avere il “fisic du rol”. Bertoni, che non aveva mai abbandonato le sue vecchie truffe, poteva calarsi nei panni di chiunque, meglio di un qualsiasi attore consumato.
Libero di muoversi a suo piacimento, era già immerso fino al collo nel suo ruolo di “Generale Della Rovere”, amico di Badoglio e di Alexander, quando gli capitò di imbucarsi in alcune feste, in casa di un importante industriale farmaceutico. Come già accennato, li conosceva bene quei capitalisti, che con un occhio ammiccavano ai nuovi padroni e con l’altro, guardavano già al dopo, ai guadagni della ricostruzione. Quella cerchia di ricconi, si dichiarava antifascista, tant’è che la figlia del citato imprenditore lo aveva più volte implorato di farla entrare nel suo mondo. “Voglio fare qualcosa”, insisteva ripetutamente la ragazza. Bertoni intravvide subito la possibilità di arrivare, tramite lei, alle ricchezze del padre. “Sarà la mia segretaria. Le passerò i messaggi cifrati e lei li decifrerà”. Un giorno, mentre lui, nel salotto di quella dimora che stava diventando abituale, teneva banco con racconti e storie di clandestinità, arricchite da sentimenti di paura, di speranza e di coraggio, qualcuno suonò alla porta. Il maggiordomo della famiglia, scusandosi per l’interruzione, recapitò al “generale” una busta sigillata. Bertoni la consegnò ragazza, perché la decifrasse. Lei, che si era assentata per pochi minuti, tornò, pallida in volto, dicendo: “Generale, lei è in pericolo. I tedeschi stanno già sorvegliando la sua abitazione”. Non batté ciglio, si alzò lentamente dal divano, si tolse il monocolo, ponendolo nel taschino del gilet e disse, sottovoce, quasi parlando a se stesso: “Dovrei fuggire, ma non ho un soldo in tasca”. L’industriale corse nel suo studio e tornò, tenendo tra le mani, duecentomila lire in banconote, che porse all’amico in pericolo. Non lo rividero più.
Era maggio quando il Colonnello Rauff lo fece rinchiudere a San Vittore per tentare un’altra mossa, prima che fosse definitivamente bruciato come informatore. I nazisti non lasciavano mai dietro di loro indizi e tracce, carboni e cenere. Da quel momento la vita di Bertoni, alias Della Rovere, cambiò e la sua intricata vicenda umana entrò nell’enigma. Il Capo delle Sicherheitsdienst gli affidò l’incarico di scoprire i canali di comunicazione tra il carcere e l’esterno. Bertoni sapeva di giocarsi l’ultima partita. L’aver mandato al macello decine di persone, gli fece scattare, nella sua mente di spia, un meccanismo opposto, grazie, forse, alla convivenza con quegli uomini, così diversi da lui, ma rinchiusi con lui, in dignitosa attesa della morte. Quando Roma, nel giugno del ’44 venne liberata, i suoi aguzzini tedeschi non credettero più in lui. E quando, il 15 giugno stilarono la lista di coloro che dovevano essere traferiti al campo di concentramento di Fossoli, inclusero anche lui. Il Generale Della Rovere ora ritornato Bertoni. Forse, per continuare il suo lavoro nella nuova sede? A Fossoli i privilegi goduti a San Vittore erano completamente spariti. Fu collocato in una comune baracca con gli altri e, con gli altri, fu obbligato a lavorare nei campi. Nonostante tutto, rimaneva, giorno dopo giorno, nel volto e nel comportamento, l’Eccellenza Della Rovere. Il rispetto dei suoi compagni di catena, restò inalterato.
Perché i tedeschi abbiano inserito il Bertoni nella lista dei condannati a morte per rappresaglia, non si è mai capito. Probabilmente fu un caso. I dirigenti del campo ebbero l’ordine di fucilare sessantacinque persone e così fecero, senza guardare tanto per il sottile. Di certo, quando seppe di essere nell’elenco, non protestò e non si scompose. Solo al momento dell’appello, prima di essere condotto dinnanzi al plotone di esecuzione, fu lesto a precisare, con risentimento: “Prego, Generale Della Rovere”. Era il 22 giugno 1944, quando chiamò le pallottole al petto. Prima della scarica, urlò le frasi, che in quelle circostanze gridano gli eroi della patria. Tutti caddero, al crepitio della mitraglia, ma fu l’unico a non avere contorsioni di agonia. Il monocolo gli restò miracolosamente infilato nell’orbita sinistra. Il suo feretro fu allineato accanto agli altri, il giorno dei funerali nella cattedrale di Carpi, e come gli altri ricoperto di fiori e benedetto. Che importava se quella bara, al posto del Generale di Corpo d’Armata, Giovanni Fortebraccio Della Rovere, conteneva le spoglie del pregiudicato Giovanni Bertoni, ladro e baro che, arrestato dai tedeschi per delitti comuni, accettò di fare, per loro, la spia in carcere.
Gli uomini, si sa, sono buoni con i morti, quasi quanto sono cattivi con i vivi.