La morte di Raffaello


Henry Nelson O’Neil, “Bristol Museum – olio su tela, 1866 – Art Gallery”, Bristol, Regno Unito.

Raffaello ha ispirato molti artisti e poeti stranieri, in modo particolare nel Novecento, per aver reso l’armonia, la simmetria e le proporzioni il fulcro della sua arte.
Nell’epoca vittoriana, tra i suoi ammiratori, si fa notare l’artista Henry Nelson O’Neil  che nel dipinto “The last moments of Raphael“ realizzato nel 1866,  lascia immaginare un Raffaello in preda ad una malattia febbrile ignota, circondato da amici e parenti, dai suoi assistenti e ammiratori.
In questa scena Raffaello sembra contemplare il Cristo del suo ultimo capolavoro “Trasfigurazione“, databile al 1518/20 e oggi conservato nella Pinacoteca Vaticana. Vasari ricorda che “gli misero alla morte, nella sala ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinal de’ Medici: la quale opera, nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava.” Qualunque sia stata la causa della sua morte tramandata ai posteri in versioni divergenti, tutto il paese portò lutto, avendo perso l’artista universalmente considerato uno dei più grandi talenti della pittura, e non a caso citato nella divina trinità artistica accanto a Leonardo e Michelangelo. La finestra si apre nella stanza come un quadro su Roma, dove a sinistra è possibile scorgere Villa Medici e l’obelisco di Piazza di Spagna, mentre lo sfondo è occupato da una propaggine del Colle Quirinale, al tempo sede pontificia.
La messa funebre fu celebrata nel Vaticano in presenza di Papa Leone X, il suo grande sostenitore e amico che fece collocare la tavola monumentale della “Trasfigurazione” sul catafalco.
Per inciso, la “Trasfigurazione“ fu l’ultimo dipinto di Raffaello commissionatogli dal Cardinale Giulio de’Medici – successivamente Papa Clemente VII – per la Cattedrale di Narbonne in Francia. Raffaello collegò due tematiche bibliche in un dipinto da altare che riflette l’apice della sua maestria in una vita così breve.  Però invece di finire, come previsto, a Narbonne il dipinto fu collocato sulla tomba di Raffaello dove rimase per tre anni prima di essere donato alla Chiesa di San Pietro Montorio. Confiscato da Napoleone nel 1798, divenne il centro della “Grande Galerie” del Louvre che ha accolto altri venti dipinti di Raffaello. Dopo la sconfitta di Napoleone nel 1815 il dipinto tornò a Roma.
Tornando al dipinto di O’Neil, nel quadro si scorge Raffaello a letto nell’attimo estremo della sua vita con in mano un rosario. Seduto davanti a lui è Giovanni de’ Medici noto come Papa Leone X, suo mecenate e massimo estimatore, che lo guarda con preoccupazione. Accanto a lui è il medico della corte papale che gli tasta il braccio. Al suo capezzale nell’ordine stanno i suoi tre più grandi amici: Pietro Aretino leggermente chinato in avanti, Giulio Romano al centro impietrito e Gian Francesco Penni, piangente con la mano sulla fronte; questi ultimi erano entrambi i suoi migliori allievi. Ai piedi del letto ci sono due frati e un assistente papale che scopre il dipinto della “Trasfigurazione”. Il dipinto fu portato alcuni giorni prima nella sua stanza come segno di speranza, in quanto nelle sembianze di Cristo si celava un autoritratto del pittore. E’ interessante considerare che l’artista era nato un Venerdì Santo e morì un altro Venerdì Santo. Il dipinto allora era ancora incompiuto e fu ultimato proprio dai due allievi Giulio Romano e Gian Francesco Penni presenti nel dipinto al capezzale del letto.
Si dice che alla sua morte il dipinto risultò più vivo dell’immagine del pittore spirato. Questa emozione suggerì anche la frase da apporre sulla sua lapide al Pantheon. Sul suo sarcofago di marmo è inciso il seguente epitaffio dettato da Pietro Bembo: «Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori». Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d’essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire.
La disperazione degli astanti ben si confà al momento supremo e ci ricorda l’epigrafica sìlloge del mi’ cognato Oreste, allorquando al capezzale del suocero Ampelio giunsero i parenti da Lucca. Interrogatolo sullo stato del morente, egli rispose lapidario: “Ne avrà per tre caàte”.