…E le chiamavano “di pace”!


“Chiudere la stalla quando son fuggiti i buoi!”. Un modo di dire, usato ancora ai giorni nostri, che ben rappresenta l’abitudine, molto italiana, ma non solo, di correre ai ripari, quando è ormai troppo tardi. Solo per la vicina paura di un’estensione del conflitto ucraino, la Camera ha, nello scorso mese di marzo, approvato un testo, che impegna il governo ad “avviare l’incremento delle spese per la Difesa, verso il 2% del Pil”. E prima di allora? Pura fantascienza.
In molti, che non ci hanno voluto bene, si sono dilettati nel definire l’Italia “un gigante economico, un nano politico ed un verme militare”. Una sprezzante battuta che, in fondo, nasconde, come solitamente avviene, una triste verità. I miracoli italiani sono stati di regola confinati all’ambito produttivo e culturale. Ma, alla straordinaria vitalità che il nostro paese ha saputo attestare nella sua ricostruzione e nel suo inserimento tra i “grandi” industrializzati, non è mai corrisposto un adeguato peso in politica estera ed un adeguato rispetto delle capacità militari. In politica estera l’Italia, che in questi mesi tanto parla, si è sempre rassegnata al rango di “media potenza” e, come tale, esclusa, sia nella sostanza che nella forma, dalle massime decisioni. Questo atteggiamento dimesso, ha preteso di essere la risposta democratica alle jattanze del fascismo. A determinarlo ha contribuito la subordinazione politica alla superpotenza americana. Non esistevano, peraltro, alternative ed è stata una fortuna che l’Italia si sia affidata alla protezione dell’Alleanza Atlantica, del Pentagono, del Dipartimento di Stato americano, così come, anche se in seconda battuta, all’Europa comunitaria. In fin dei conti quegli atteggiamenti, da grande potenza, della Francia e le sue bizze nazionaliste, hanno sempre mirato a nascondere una realtà molto simile alla nostra. Per quanto riguarda il sistema di difesa, ignorando il meschino insulto di “verme militare”, l’Italia si è sempre trovata in condizioni peggiori, rispetto alle altre realtà europee. Ed anche questo, inutile nasconderlo, per il retaggio storico, scaturito dalle vicende di una guerra perduta male. La catastrofe dell’8 settembre 1943 aveva di fatto suggellato, con un avvilente “tutti a casa”, la guerra di Mussolini. Passato, che si era tradotto, per la classe politica postfascista, in un rifiuto non tanto della guerra, ma di tutto ciò, che alla mentalità militare tradizionale si collega. In un tale contesto, le Forze Armate dovevano assomigliare, il più possibile, a “Forze Disarmate”. Le ristrettezze di un bilancio avaro, di gran lunga inferiore a quello di tutti gli alleati, colpivano in primo luogo mezzi ed addestramento. Da quella voluta stagnazione impiegatizia, si salvavano solo alcune unità ed alcuni reparti di “elite”, che vennero utilizzati, fuori area, a partire dal 26 agosto 1882. Con la “Missione Italcon”, la prima da noi condotta in Libano, con Francia, Stati Uniti e, in misura minore, Gran Bretagna, iniziò una lunga lista di operazioni multinazionali di peacekeeping. Era la prima volta, dopo la fine della seconda guerra mondiale, che delle nostre truppe, composte da giovani di leva e su base volontaria, si recavano in armi, al di fuori dei confini nazionali, in attività operative, delicate e particolarmente complesse, che la politica chiamava “missioni di pace”. Quali che fossero, in Libano, Somalia, Mozambico, Bosnia o Albania, erano sempre quei “pochi ma buoni”, a cui si doveva fare riferimento.
Da quel 1982 in poi, seppur con tante difficoltà, soprattutto di carattere diplomatico, le cose erano comunque andate avanti con fluidità. Poi, come un fulmine a ciel sereno, per colpa di un “destino cinico e baro”, avrebbe detto un vecchio Presidente della Repubblica, più che una burrasca si avventò sull’Italia un vero e proprio ciclone, tanto imprevisto quanto violento. Nel maggio del 1997, il settimanale “Panorama”, che sotto la direzione di Giuliano Ferrara inseriva in una linea politica complessivamente moderata soprassalti di contestazione al “sistema”, pubblicò una serie di servizi su gravi abusi di militari italiani in Somalia. I fatti denunciati, risalivano agli anni durante i quali le nostre Forze Armate avevano partecipato all’operazione internazionale “Restore Hope” (Restituire Speranza), battezzata nella nostra terminologia militare “Ibis. Lo scopo era portare aiuti umanitari, con il ripristino della pace, ad un paese dilaniato dai “signori della guerra” ed in preda alle “feroci” convulsioni di una “feroce” guerra civile, dopo la fuga del dittatore Siad Barre da Mogadiscio, nel gennaio 1991. Nell’intento di risollevare quella nazione dall’abisso in cui era sprofondata, l’ONU aveva approvato l’invio di trentaseimila uomini, messi a disposizione da venti Paesi diversi e coordinati da un comando in capo americano.
A capo del contingente italiano si erano succeduti i Generali Giampiero Rossi, Bruno Loi e Carmine Fiore. Nel maggio del 1993, la responsabilità dell’impresa, la cui etichetta era diventata “Continue Hope”, direttamente assunta dall’ONU, senza per questo crescere di efficacia. Poi, alcuni mesi dopo, con un “tutti a casa”, il nostro contingente lasciò Mogadiscio. Era il 20 marzo 1994, lo stesso giorno in cui fu assassinata la giornalista Ilaria Alpi, inviata del TG3. Restore Hope aveva forse lenito delle sofferenze materiali, ma non pacificato né ripristinato un tollerabile contesto di istituzioni democratiche. Insomma, un disastro della politica estera internazionale, del quale non poteva essere chiamata a rispondere l’Italia, coinvolta in un’impresa fallimentare voluta ed organizzata dagli Stati Uniti. La storia, lo si è recentemente osservato, si ripete e non impara! I reparti italiani avevano pagato un alto prezzo di sangue, con una dozzina di morti e feriti, a cui si erano unite altre perdite, in quell’imperversare di banditi e di fazioni sanguinarie, tra giornalisti, fotografi e cineoperatori. La stessa Carmen Lasorella, inviata Rai, era scampata ad un agguato, nel quale aveva perso la vita il suo operatore Marcello Palmisano. Tragedie, quelle in Somalia, passate in breve tempo, negli archivi della coscienza del Paese.
A riesumarle, assegnando ai nostri soldati il ruolo dei cattivi, provvide, come già detto, il settimanale “Panorama”, che si era assicurata, pagandola alcuni milioni, la testimonianza di un caporalmaggiore in congedo del 185° Reggimento Artiglieria Paracadutisti “Folgore”, dal nome conosciuto, ma qui irrilevante. Questi raccontò che nel 1993 alcuni suoi commilitoni avevano infierito su dei somali catturati, nel campo di Johar, sottoponendoli a torture, con scariche elettriche, incaprettandoli ed abbandonandoli, senza cibo. Il carattere gratuitamente sadico di quel trattamento apparteneva, secondo lui, ad un atteggiamento mentale, come quello di far passare veicoli militari pesanti su delle tartarughe, presenti in gran numero nella zona, e di scommettere sulla resistenza della loro corazza, prima che cedesse. A conforto delle sue affermazioni, consegnò al giornale alcune fotografie, che lasciavano adito a pochi dubbi. In alcune di esse appariva un gruppo di soldati, che sembrava stesse abusando di una ragazza somala, terrorizzata, ed usando, come strumento di piacere, una bomba illuminate cosparsa di marmellata. Da quel momento, come di regola accade, l’alluvione di testimonianze, più o meno gratuite, fu incessante. Di una di esse, rilasciata da un altro ex-parà, che si scoprì, mirava ad incassare qualche milione di lire, fu accertata la falsità. Questo cumolo di accuse poteva ingenerare la sensazione, che l’Italia avesse mandato in Somalia migliaia di criminali impegnati a compiere orrori, anziché a soccorrere. Le rivelazioni dell’ex “folgorino” non erano una sorpresa, per chi seguiva quegli avvenimenti. Vi erano già state denunce giornalistiche di fatti analoghi e la Procura Militare se ne era interessata, nella persona del PM Antonino Intellisano, giungendo alla conclusione, che si trattasse di operazioni, per mantenere l’ordine, forse troppo brutali, ma non tali da assumere la qualifica di reato. Soldati di altre nazionalità avevano commesso abusi ed erano stati tempestivamente processati, senza clamore peraltro. Dopo la testimonianza del nostro accusatore e l’apertura del “caso”, il mondo politico si divise in due schieramenti. I più intransigenti chiedevano lo scioglimento della Brigata “Folgore” e severi provvedimenti nei confronti dei Generali Loi e Fiore. I più indulgenti affermavano che le trasgressioni dovevano sì essere punite, ma che era comodo giudicare in situazioni di emergenza, situazioni di guerra, per chiamarle con il loro nome, con il metro della normalità e, soprattutto, standone fuori, comodamente seduti in poltrona. “Perché non ci vanno i politici in queste missioni?”, disse un paracadutista, che era stato ferito e decorato. In molti sottolineavano, che il soprassalto morale, dal quale l’ex militare era stato indotto a spifferare tutto, arrivava con un ritardo di quattro anni e, soprattutto, dietro compenso. Rifondazione Comunista ed i Verdi erano tra i più accaniti nel chiedere lo scioglimento della Brigata, cui si opponevano Forza Italia ed Alleanza Nazionale.
Prese il via un’inchiesta, o sarebbe più corretto dire delle inchieste, perché in Italia sono sempre plurime, negli eventi che fanno più scalpore. La magistratura militare fu affiancata da quella ordinaria ed il Governo istituì una commissione, che affidò al Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Ettore Gallo. Per non ostacolare le indagini, i Generali Loi e Fiore diedero le dimissioni dagli incarichi che al momento rivestivano, rispettivamente Comandante dell’Accademia Militare di Modena e Capo del IV Reparto dello Stato Maggiore dell’Esercito. Ai somali non parve vero poter colpevolizzare i militari, che avevano tentato di placare le loro faide sanguinarie e, per giunta, chiedere un profumato risarcimento in denaro. In tempi che, per un’inchiesta italiana, furono straordinariamente brevi, nei primi giorni dell’agosto 1997, la commissione Gallo rese note le proprie conclusioni. Alcuni degli episodi denunciati da “Panorama” erano effettivamente accaduti, ma le responsabilità erano rimaste a dei livelli di grado molto bassi, anche se osservate con divertita accondiscendenza di alcuni ufficiali subalterni. I Comandi ed i due alti ufficiali vennero pertanto scagionati. Si appurò, che la ragazza “violentata” era una prostituta e del tutto consenziente a “giochetti” particolari. L’uso dei fili elettrici da applicare a “parti intime” era stato rivolti ad un malvivente pericoloso, recidivo ed omicida, che si era ripetutamente rifiutato di rivelare dove la banda, di cui era il capo, nascondeva il proprio arsenale. Certamente erano quelle “creature umane”, ma si sa che in circostanze eccezionali i comportamenti di tutti, eserciti compresi, in tutti i tempi, sono sempre stati soggetti a degenerazioni e trasgressioni. In certi frangenti, confini tra lecito ed illecito possono diventare molto sfumati. Un terreno come quello somalo, con le sue insidie ed i quotidiani esempi di disprezzo per la vita umana dati dai locali, che si facevano scudo con donne e bambini, poteva accendere degli istinti più bassi, di quelli normalmente nutriti. I paracadutisti della Folgore, anche se di leva, potevano essere assimilati ai professionisti. Chi aveva scelto di entrare in una delle unità d’elite delle Forze Armate, con un addestramento duro e pericoloso, nutriva una forte vocazione militare, vocazione che si identificava nel patriottismo, nel senso del dovere, nella voglia di servire. Ora, che in alcune frange particolari, come quelle in esame, alcuni atteggiamenti siano diventati aggressività e desiderio di far valere la propria forza, appare forse comprensibile, anche se non giustificabile. Al giorno d’oggi, le cose sono però cambiate.
Nelle Forze Armate di venticinque anni fa, sostituite con la legge n. 226 del 23/8/2004, che ha stabilito la sospensione del servizio di leva e l’introduzione della figura del Volontario in Ferma Prefissata (VFP), la forma mentis generale si era adeguata sempre più all’idea, che l’ordine era, quasi, una prevaricazione e che la bonarietà accomodante era preferibile a regole precise ed inflessibili. In quelle professionali, avendolo scelto con volontaria determinazione, quel mestiere, il rigore della disciplina, sicuramente dura e senza ammissione di errori, è preordinato ed incondizionatamente accettato. E pensare che, all’epoca dei fatti, la società aveva perseguito il criterio di una vita militare il più possibile somigliante a quella civile.
Il criterio peggiore, per formare uomini e, soprattutto, governare Reparti utilizzati in missioni “belliche di pace”.