Marte e Venere


Lavinia Fontana (Bologna, 1552 – Roma, 1614) – (1595 – olio su tela, cm 140 x 116; Madrid, Palazzo Liria, Fundación Casa de Alba).

In quest’opera singolare, per certi versi unica, il dio della guerra e la dea dell’amore, sono raffigurati seduti sopra un letto a baldacchino, con le tende di seta rossa che s’aprono a mo’ di sipario, e con il dio Amore, nella consueta iconografia del puttino alato con l’arco, che dorme sopra al cuscino. A terra si vedono una brocca, le pantofole di Venere, lo scudo e la spada di Marte. Ciò che però rende unico e senza precedenti il dipinto è il gesto di Marte che palpeggia la natica sinistra di Venere. Lui, con indosso un elmo da soldato dell’epoca della pittrice, la guarda in faccia, mentre lei, che non sembra disturbata dal gesto, guarda invece verso l’osservatore, tenendo nella mano destra un narciso. Sono entrambi nudi: a lui sono rimaste addosso solo le braghe, mentre lei non indossa altro che una collana di perle e un paio d’orecchini d’oro e cristallo di rocca. Probabilmente indossa anche un invisibile pigiama di Chanel n° 5 (già noto agli dei dell’Olimpo) ma non abbiamo prove in merito.
Spettano allo storico dell’arte Guardalavecchia (Wolmer Guardalavecchia, detto ‘il trombaio di Peretola’) il merito di aver attribuito l’opera in maniera molto convincente a Lavinia Fontana e quello d’aver cercato per primo di far luce sul significato di un’iconografia inusitata. Al quadro ha infatti dedicato un capitolo del volume: Cenni di meccanica dei corpi umidi e cinematica della mano morta). Il quadro si trova nelle collezioni dei duchi di Alba, il cui primo nucleo fu costituito verso la fine del Cinquecento da Fernando Álvarez de Toledo y Pimentel, detto “el Gran Duque de Alba”, uno dei personaggi più eminenti della Spagna del tempo, che ricoprì praticamente tutte le più alte cariche statali: fu viceré di Napoli, del Portogallo, governatore di Milano, dei Paesi Bassi, oltre ad essere un grande bevitore di Brandy di Jerez, tanto da vedersi dedicato – postumo – uno dei migliori distillati di quella terra.
Non si deve però a lui l’ingresso di Marte e Venere nella raccolta, bensì a Carlos Miguel Felipe Maria Fitz-James Stuart, XIV° duca di Alba, che in quegli anni, poco più che ventenne, stava compiendo il suo Grand Tour in Italia per dedicarsi ai piaceri del talamo con le più rinomate meretrici del suo tempo. Il duchino era sì un grande intenditore di mignotte, ma in quanto ad arte fagliava parecchio, tanto che il 27 1816 febbraio a Napoli acquistò il quadro ritenendolo opera di Paolo Veronese.
L’iconografia del dipinto, con il dio che tocca in maniera così plateale e con tanta bramosia i glutei di Venere, è un unicum. Non ci sono nella pittura altri casi simili che precedano il dipinto di Lavinia Fontana.
Per arrivare a comprendere le ragioni del quadro è necessario avere chiara la temperie culturale che poté produrlo. la scoperta della Venere Callipigia oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, rinvenuta casualmente verso la metà del XVII secolo nelle collezioni dei Farnese. La Venere “dalle belle natiche” (questa la traduzione esatta del greco “callipigia”) ebbe una gran fortuna negli ambienti letterari e artistici del tempo. Non solo: “l’inesauribile indagine sulla bellezza e sull’armonia delle parti del corpo condotta in età classica”, come scrive l’Abbé Raymond P. Deretaine, autore del ponderoso saggio Dans la vie il faut avoir aussi un peu de cul (pubblicato a puntate sulla Gazette de Narbonne nel 1801) “comportò durante il Rinascimento anche una riflessione estetica sul fondo schiena, parte del corpo non disgiungibile dalle altre e che anzi, a dispetto delle basse funzioni assegnategli dalla natura, risultava in qualche modo focale”. Si pensi, ad esempio, alle Tre Grazie di Raffaello o a Giove e Io del Correggio, artista peraltro emiliano come Lavinia; ma innumerevoli sono gli esempi, spesso antecedenti alla scoperta della statua classica oggi a Napoli. Per questi motivi il prof. Calogero Scarica-Barile, titolare della cattedra di Palleggio Corto e Davanzali Bagnati all’università di Utrecht rileva dottamente che: “… può dirsi “callipigia” solo una Venere in cui il punto di vista principale siano, appunto, le natiche” (Calogero Aristodemo Scarica-Barile, Potte e budiùli prima della Rivoluzione Francese, Lubecca 1969). Ragione dunque consequenziale è “la legittimità della raffigurazione della nudità femminile a 360 gradi e di conseguenza la legittimità della raffigurazione del sedere, il cui più spettacolare esempio è probabilmente la Nuda di spalle di Jacopo Palma il Vecchio” (J. Soerensen & W. Loewenthal, That broken in the ass of your mother and other tales, Rawalpindi 1977).
È appena il caso di citare la perifrasi con cui il mi’ cognato Oreste è solito commentare il passaggio di fanciulle “callipigie” della buona borghesia dell’Ardenza incontrate in via Grande a Livorno: “Vedrai necessita uno stasabùi come dico io, ver tegame!” è solito esclamare il lotro, a significare la propria volontà (mai corrisposta) di fornicare “ab retro” con l’ignara passante.