Il tramonto di un Regno (2a parte)


Poche ore prima di morire, esausto e dolorante, ma ancora lucido e presente, Re Ferdinando II di Borbone, ricevette la visita del suo primogenito, che entrò, concitato, nella stanza, annunciando: “Papà, hanno cacciato Zi’ Popò!”. “Quale Zi’ Popò?”, chiese il Sovrano. “Zi’ Popò di Toscana”, rispose il figlio, alludendo al Granduca Ferdinando IV, defenestrato dai patrioti. “Che coglione!”, commentò, con rabbia e con inaspettato vigore. Entrò in agonia il giorno in cui, a Montebello, i franco-piemontesi infliggevano agli austriaci la prima disfatta. Chiamò Francesco e gli fece giurare, che avrebbe seguito la sua politica, “amico di tutti e nemico di nessuno”, senza lasciarsi coinvolgere in quel che succedeva fuori dal Regno e che, perciò, non lo riguardava.
Il giovane, che era nato il 16 gennaio 1836, aveva ventitré anni quando salì al trono. Anche fisicamente era l’antitesi del padre. Il popolino lo chiamava “il figlio della Santa”, ma i fratellastri lo avevano ribattezzato “lasagna”, per il pallore del suo viso, triste e cavallino. Sebbene non l’avesse conosciuta, era vissuto nella venerazione della madre, Maria Cristina di Savoia, morta ventiquattrenne, due settimane dopo averlo dato alla luce, dalla quale aveva ereditato la pietà. Le malelingue dicevano, che era stata la matrigna, Maria Teresa d’Asburgo, ad inculcargliela, attraverso il suo confessore, per estraniarlo sempre più dalle cose terrene, fino a farlo rinunciare al trono, per poi farvi salire uno dei suoi figli. Certe lettere della donna, piene di tenerezza per il figliastro, sembravano dimostrare il contrario. Ma di sicuro, lei tentò, sempre, di dominarlo e, rimasta vedova, non fece che intrigare contro di lui. Francesco non reagì, nemmeno quando il suo Primo Ministro, Filangieri, gli diede prove concrete. “Era la moglie di mio padre”, disse, in più di un’occasione.
La cosa che più lo aveva impressionato, fu la dissepoltura di Maria Cristina, in occasione dell’inizio del di lei cammino verso la Beatificazione (avvenuta il 25 gennaio 2014). La salma, intatta, emanava un gradevole profumo ed in ciò tutti ebbero la consapevolezza di un miracolo, lui per primo. Da allora, schivò i contatti con le donne, nessuna sembrandogli all’altezza della madre, crescendo casto, solitario e sognatore. Non conosceva Maria Sofia di Baviera, che fu l’ultima Principessa, nella storia d’Europa, a sposarsi per procura. Quando la vide a Bari, ne rimase fra l’estatico e l’intimidito, e ne aveva ben donde. Era una bellissima creatura, fresca, gaia, semplice, naturale, e con un pizzico di satanismo, che caratterizzava tutta la sua famiglia. Affascinante come lei, la sorella Elisabetta, Imperatrice d’Austria, la famosa “Sissi”, mise da subito lo scompiglio nell’austera corte di Vienna, per finire tragicamente pugnalata, sessantunenne, pugnalata, il 10 settembre 1898, a Ginevra, dall’anarchico italiano Luigi Lucheni. Il cugino, Ludovico II di Wittelsbach, Re di Baviera, tacciato di pazzia, morì suicida, il 13 giugno 1886, nel Lago di Starnberg. E suo nipote, infine, l’Arciduca Rodolfo d’Asburgo-Lorena, fu condannato ad una tragica e misteriosa fine, in compagnia della sua giovanissima amante, a Mayerling.
Tornando a Maria Sofia, per lei, che era nata il 4 ottobre 1841, romantica e cresciuta in groppa ad un cavallo, quello sposo dall’aria di seminarista, fu una vera delusione che, a quanto pare, diventò ancora più scottante, quando vennero rinchiusi in camera, la prima notte di nozze. Francesco, spaventatissimo, si raccolse nelle preghiere e continuò le sue litanie, fino a quando la sposa non si fu addormentata. Dopodiché si rannicchiò in un angolo del letto e dormì anche lui. Poi, il tragico ritorno a Napoli, la lunga agonia di Ferdinando ed infine l’incoronazione che, per la giovanissima Regina, significò una sola cosa, la liberazione dal giogo della suocera, che pretendeva di comandare, anche lei, a bacchetta. Ma per Francesco II di Borbone, Re delle Due Sicilie, il trono era carico di responsabilità, cui si sentiva del tutto impari. Sebbene abbastanza inquieta, Napoli era rimasta scossa dalle vittorie franco-piemontesi e le aveva salutate con entusiastiche dimostrazioni davanti alle Ambasciate delle due Potenze. Da subito, “Franceschiello” si trovò tra l’incudine dell’ambiente reazionario di Corte, capeggiato dalla matrigna, che voleva un inasprimento del regime poliziesco, ed il martello, liberale, capeggiato dallo zio, Leopoldo, Conte di Siracusa, fratello del padre, che fomentava un’alleanza con Vittorio Emanuele, per togliere a quest’ultimo l’esclusiva del movimento patriottico nazionale ed arrivare ad una spartizione, con lui, della penisola. A ciò spingevano, sia la diplomazia piemontese, su ordine di Cavour, sia tutto il liberalismo moderato locale, su ordine dell’esule patriota Giuseppe La Farina. Entrambi, per prevenire scoppi rivoluzionari e sbarrare la strada alle imprese garibaldine.
Sballottato tra le opposte pressioni e prevedendo l’emergenza, il monarca napoletano chiamò alla testa del governo un uomo che, nella pubblica opinione, passava per un taumaturgo. Carlo Filangieri, Principe di Satriano e Duca di Taormina, era un vecchio ufficiale murattiano, che si era guadagnato i galloni di Generale, combattendo sotto il vessillo napoleonico, nelle campagne di Spagna e di Russia. Aveva mantenuto il suo grado anche nell’esercito borbonico, lo aveva perso per la partecipazione ai moti del 1821, ma era stato reintegrato, ed aveva offerto indiscusse garanzie di fedeltà alla Corona, durante le insurrezioni del 1848-1849, in Sicilia, rimanendo sull’isola, come Luogotenente, per sette anni. Ora, che ne aveva settantacinque, dichiarava a tutti, che la politica lo disgustava. Spasimava per il potere e quando Francesco glielo concesse, lo esercitò così a fondo, da far dire al popolo: “Fino ad ora avevamo un Re che faceva il Ministro, ora abbiamo un Ministro che fa il Re”. I suoi apologeti sostenevano che, se avesse potuto fare ciò che voleva, avrebbe salvato la monarchia, dandole un regime costituzionale ed indirizzandola sulla via delle riforme. In realtà egli fece, nei pochi mesi in cui rimase in carica, quello che volle, minacciando dimissioni, ogni qual volta incontrava resistenza. In realtà, le cose che voleva, erano solo palliativi, e non tutti a proposito. Con una forzata amnistia, consentì il ritorno a centinaia di esuli, che alla causa borbonica non giovarono di certo. Ma il provvedimento più grave e controproducente, lo prese licenziando i mercenari svizzeri, che costituivano gli unici reparti fedeli, disciplinati ed agguerriti delle truppe borboniche. Il Re non avrebbe voluto, ma Filangieri ne fece una questione di orgoglio nazionale. Tant’è che l’Ambasciatore piemontese, a Napoli, comunicò a Camillo Benso di Cavour: “Senza gli svizzeri, l’esercito napoletano versa in condizioni disastrose”. Nelle sue “Memorie”, il Generale scriveva che, ai primi di settembre del 1859, aveva presentato un progetto di Costituzione, ma il Re non lo lesse nemmeno, poiché aveva giurato al padre, sul letto di morte, che non l’avrebbe mai concessa. Ma di quel progetto, nulla risultò, mai, dai documenti. Poco dopo, Carlo Filangieri si prese un lungo congedo, adducendo motivi di salute. In realtà era spaventato dal precipitare di una situazione, in cui non voleva rimanere coinvolto. Il moto unitario dilagava a macchia d’olio. I Ducati Centrali, di Emilia e di Toscana, dopo aver scacciato i loro Principi, si pronunciavano per l’annessione ed il Primo Ministro avvertiva che il Regno sarebbe stato travolto dall’ondata.
Nel marzo 1860 rassegnò definitivamente le dimissioni ed Francesco lo sostituì con il settantacinquenne Antonio Statèlla, Principe di Cassano, il quale, a sua volta, nominò Ministro della Guerra il Generale Francesco Antonio Winspeare, che ne aveva settantasette. Agli inizi di aprile, lo zio Leopoldo scrisse al nipote una lettera, che finiva con questa esortazione: “Una sola via rimane a salvare il Paese e la dinastia, minacciata da grave pericolo: la politica nazionale che, riposando sopra i veri interessi dello Stato, porta naturalmente l’interesse del Reame a collegarsi con quello dell’Italia Superiore [lett.]”. Non c’è dubbio, che fosse stata suggerita, se non dettata, dal Cavour in persona, con cui Leopoldo manteneva stretti contatti, e del quale condivideva, in toto ed entusiasticamente, i piani politici. Ma il Re non fu il solo a leggerla, perché, nel momento stesso in cui gliela recapitarono, la ricevettero anche i giornali, che non persero tempo per pubblicarla.
Un’altra missiva giunse, subito dopo, a Francesco. Veniva dal “caro cugino” Vittorio Emanuele II, che avanzava la proposta di spartire la penisola in due potenti Stati, uno del Sud ed uno del Nord, arricchiti dalle spoglie di quello Pontificio, che doveva ridursi alla sola città di Roma, con la sua provincia. Tale soluzione, assicurava il Re sabaudo, gli italiani l’avrebbero sicuramente accettata, purché le due politiche fossero state ben coordinate ed onestamente seguite. Ma se avesse permesso a qualche mese di passare, senza portare in atto il suo amichevole suggerimento, Sua Maestà borbonica avrebbe sperimentato, forse, l’amarezza delle terribili ed inesorabili parole: “troppo tardi”. Era un ultimatum. Qualcuno, in seguito, disse che, accettando quella proposta, il giovane ed inesperto Re avrebbe salvato il suo Regno. Ma erano solo becere fantasie. Lo avrebbe ugualmente perso, quel Regno, sia pure in un altro modo. Lo avrebbe perso anche suo padre, tanto più risoluto di lui. La notizia dello sbarco di Garibaldi era talmente attesa che, quando arrivò, dopo essere stata a più riprese diffusa e smentita, provocò a Napoli meno sensazione, che in tutto il resto d’Europa.
Per evitare lutti e distruzioni nella sua capitale, dopo le ignominiose notizie di stragi e saccheggi, che giungevano dalle altre aree del Sud, Francesco decise di lasciare Napoli, per affrontare i garibaldini da posizioni più strategicamente favorevoli, nel tentativo di tornare a controllare il Paese. Dal 12 novembre 1860, tutto lo Stato borbonico si concentrò a Gaeta, nella fortezza, nell’ultima sua frontiera. Dentro quelle mura, in un fazzoletto di territorio, si trovarono riuniti tutti gli organi formali di uno Stato ancora riconosciuto dalle diplomazie del mondo. Per alcuni giorni, Spagna, Austria, Prussia, Russia, Sassonia e Stato Pontificio vi mantennero addirittura i loro rappresentanti diplomatici. In quel fazzoletto di territorio, per cento giorni, tanto durò l’ultimo assedio al Regno delle Due Sicilie, venne rinchiuso uno dei più preziosi patrimoni di storie individuali di italiani, nati in regioni diverse, che unirono coraggio e viltà, spavalderia e meschinità, paura e risolutezza, ferocia e debolezza, orgoglio ed umiliazione. Un passaggio fondamentale nel cammino di “unità”, in cui vennero rappresentati, contemporaneamente, il meglio ed il peggio di una nazione che, a fatica, si stava cercando di costruire.
In quella grigia e ventosa mattina del 14 febbraio 1861, una data che ridisegnò definitivamente la storia dello stivale, cancellando un regno appartenuto ai Borbone dal 1734, Francesco II e la sua reale consorte, sarebbero dovuti salire sul piroscafo francese “Mouette”, per avviarsi alla fine. Non c’era più nulla da fare. Anche se continuava a mentire a se stesso, era cosciente di trovarsi all’epilogo della sua esperienza di Sovrano, ereditata solo ventuno mesi prima dal padre Ferdinando II. In piedi già dalle tre del mattino, senza voglia di toccare cibo, mentre attendeva che la moglie finisse di prepararsi, intinse la penna nel calamaio e scrisse su di un foglio: “Siamo fottuti Regina!”. E lei, la Regina non ancora ventenne, Maria Sofia di Wittelsbach, lo lesse senza sorridere, guardando il marito, che aveva imparato ad amare ed a conoscere più a fondo, durante l’assedio. La determinazione ed il coraggio, che in lui aveva scoperto a Gaeta, l’avevano fatta ricredere. Accanto a lei c’era un uomo diverso, che aveva rivelato sfumature, fino ad allora impensabili. Erano, un Re ed una Regina in cammino verso l’esilio, con tutta la dignità ed il rispetto conquistati sotto le bombe piemontesi, cercando di sorridere alle grida dei soldati e della folla, inneggianti. La Nave “Mouette” salpò alle nove ed i due sovrani lasciarono per sempre l’Italia meridionale, senza mai più farvi ritorno. Se non da morti. Francesco II si spense ad Arco, in Trentino, il 27 dicembre 1894.
Le sue spoglie riposano, dal 1984, accanto a quelle di Maria Sofia (che gli sopravvisse fino al 1925), nella sepoltura napoletana dei Borboni, all’interno della Basilica di Santa Chiara.